I maschi tra rancore e desiderio di cambiamento

Lea Melandri


L’invito a “restare a casa”, se può essere visto in questi giorni di contagio coronavirus come una misura necessaria di protezione, prende un significato opposto se si considera che in quegli interni si continuano a contare i femminicidi. Due solo nell’ultimo mese. La violenza sulle donne, chiamata impropriamente “emergenza”, è il male che attraversa la storia, la guerra che la specie umana, al di là di ogni differenza di tempi e luoghi, ha dichiarato a se stessa, consegnando il governo del mondo a una comunità di soli uomini e identificando il sesso femminile con la radice corporea, materiale di ogni vivente. Prima che l’epidemia in corso facesse cadere il silenzio non solo sulle strade, ma anche sulle tante “crisi” che attraversano oggi la società a livello globale, si può dire che stava arrivando faticosamente alla coscienza l’ordine di dominio, il sistema di ruoli e di valori che finora ha dato senso alla vita degli uomini, legittimato istituzioni, saperi, comportamenti legati al loro privilegio, in nome di una presunta “naturalità”.

 

Sulle ambiguità di una crisi che interessa l’ideale virile, e più in generale il patriarcato come struttura portante della storia fin qui conosciuta, si sofferma con profondità di interrogativi, analisi critiche e prospettive promettenti di cambiamento, il libro di Stefano Ciccone Maschi in crisi? Oltre la frustrazione e il rancore (Rosenberg & Sellier 2019). “E’ possibile  -si chiede Ciccone- e in che forma agire un conflitto a partire da una posizione che corrisponde alla norma e a un ruolo di potere? E’ possibile esprimere una critica all’esistente, un desiderio di cambiamento non a partire da una condizione di discriminazione?” . E, anche ammesso che si possa rispondere di sì, tenuto conto che questo potere non è stato senza prezzo per gli stessi dominanti – il corpo usato come un’arma, la miseria di una sessualità schiacciata sulla prestazione, la continua messa alla prova del governo di sé e del governo del mondo- , “possono gli uomini aver bisogno del cambiamento, o meglio ancora desiderarlo come “liberazione da un destino sociale già scritto”?

La strada verso una relazione tra i sessi svincolata dalla violenta differenziazione che fin dall’origine li ha destinatati a ruoli complementari, quasi fossero le due metà di un intero  -corpo/pensiero, biologia/storia- , disposti secondo una precisa gerarchia di potere e valore, è stata aperta con una radicalità imprevista dal neofemminismo degli anni 70. La costruzione di una individualità femminile autonoma da modelli imposti ha avuto allora il grande merito di riconoscere che non si trattava della resistenza, ribellione a un dominio, ma della presa di coscienza di una visione del mondo interiorizzata dalle donne stesse. Il dominio maschile, come scrive Pierre Bourdieu, è inscritto nelle istituzioni ma anche “nell’oscurità dei corpi”. Giustamente si chiede allora Ciccone se anche gli uomini non abbiano subìto, nel passaggio di padre in figlio, una analoga “invasione”, assunto ruoli, comportamenti virili legittimati dalle donne stesse, usato il potere come difesa da un femminile minaccioso e fagocitante,creato dal loro immaginario. A essere entrati in una crisi che è perdita di credibilità, insoddisfazione e rifiuto, sono proprio i ruoli, i saperi, le identità che gli uomini hanno ereditato dai padri. Ma, in mancanza di nuovi modi, linguaggi e simboli per rappresentare il cambiamento, a prevalere sono le “permanenze”, la tentazione di tornare su posizioni tradizionali, di rispondere alle libertà conquistate dalle donne col rancore e il vittimismo. Se si può ipotizzare che all’origine l’imposizione del dominio maschile sia stata la risposta difensiva e aggressiva a quel corpo che lo ha avuto in sua balìa nel momento della sua maggiore inermità, non è difficile capire che l’autonomia delle donne possa essere vista dall’uomo come il capovolgimento dei poteri, il ritorno a una condizione che lo vede dipendente e fragile.

Questo – scrive Ciccone- è il modo con cui solitamente viene raccontata la crisi dei maschi: frustrati, disorientati, messi all’angolo e privati delle loro tradizionali attitudini, intimoriti dalla perdita di ruolo, di riferimenti per la propria identità, aggrediti da un femminismo che avrebbe “esagerato”, castrati dal confronto con una sessualità femminile disinvolta e aggressiva. Dal rancore dei padri separati alle politiche di restaurazione che vorrebbero cancellare diritti acquisiti , come il divorzio e l’aborto, passa la reazione paranoica che vede nelle donne stesse la causa della violenza maschile, dallo stupro ai femminicidi.

Il pregio del libro di Ciccone è di aver affrontato con un’analisi profonda e coraggiosa sia le difficoltà del maschile, “rimasto invisibile a se stesso” -schiacciato nel “neutro” e dentro logiche competitive-, a costruire percorsi collettivi di cambiamento, sia la possibilità di “leggere in modo diverso la nuova esperienza maschile, cercare parole per dare voce al desiderio di cambiamento degli uomini”.

 

In realtà, “parole per dirlo” già ci sono e sono quelle di quanti, come Stefano Ciccone, già da anni nel nostro paese si interrogano sulla maschilità, partendo, come ha fatto il femminismo dalla singolarità incarnata, dall’esperienza che ognuno fa del corpo, delle sue potenzialità e dei suoi limiti. E’ sul corpo maschile, sulle “amputazioni” che ne hanno segnato la miseria che torna insistentemente la domanda che cosa significhi l’alienazione per gli uomini, quali aspetti dell’umano, esaltati e sviliti al medesimo tempo, abbiano considerato appartenenti “per natura” all’altro sesso. Si tratterebbe perciò di “accogliere, esprimere emozioni, prendersi cura di sé, riconoscere che nei codici di corteggiamento non c’è nulla di naturale, perché si tratta di codici costruiti storicamente e socialmente, vedere nella propria dipendenza non un fallimento,una ferita intollerabile, ma l’opportunità di nuove forme relazionali”.

C’è solo una domanda, che feci a Ciccone anni fa in una conversazione per “D. La Repubblica”, e che ripropongo perché penso che l’uscita dalla complementarità dei ruoli e delle identità di genere debba fare i conti non solo con logiche di potere, ma anche col “sogno d’amore”, così come lo abbiamo ereditato: “il miracolo che fa di due esseri complementari un solo essere armonioso” (Sibilla Aleramo). Quali forme nuove può prendere l’amore quando uomini e donne non si muovono più dentro poli opposti, complementari e indispensabili l’uno all’altro? Soffermarsi sulle contraddizioni, inevitabili in questa fase di passaggio, è importante per evitare che le consapevolezze nuove restino ferme a buoni propositi o ad atti volontaristici.

 

 

Articolo pubblicato su "Il riformista" del 2 Aprile 2020

 

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