La bellezza? Per le donne
un obbligo che viene da lontano

Lea Melandri

 

 

 

Bisogna dire che la vicenda della giornalista Giovanna Botteri, fatta oggetto di critica e derisione per il suo aspetto fisico, ha avuto come risvolto interessante la possibilità di sottrarre al silenzio quella che si potrebbe considerare una “evidenza invisibile”: l’importanza che ha sempre avuto la bellezza, oltre alla maternità, nel definire ruoli e identità del femminile. A spostare l’attenzione su un problema che interessa in realtà l’immaginario e la cultura patriarcale che abbiamo ereditato, fondamento ancora oggi delle figure o stereotipi di genere, è la stessa Botteri .In una lettera a Usigrai e Giulia giornaliste di alcuni giorni fa scrive: “A me piacerebbe che noi tutte spingessimo verso un obiettivo, minimo, come questo. Per scardinare modelli stupidi, anacronistici, che non hanno più ragione di esistere. Non vorrei che un intervento sulla mia vicenda finisse per dare credibilità e serietà ad attacchi stupidi e inconsistenti che non la meritano. Invece sarei felice se fosse una scusa per discutere su cose importanti per noi, e soprattutto per le generazioni future di donne”.

L’ “obiettivo” a cui Govanna Botteri si riferisce, è quello che si è già affermato in paesi che, a differenza del nostro, hanno sostenuto politiche contro ogni tipo di discriminazione: di classe, sesso, razza, condizione sociale, età, aspetto fisico, orientamento sessuale. Nei numerosi attestati di solidarietà e apprezzamento usciti sui social, a essere poste in primo piano sono state le scelte di una donna coraggiosa e di indiscusso valore professionale. Ma è ancora un modo per svicolare da un interrogativo che è stato difficile porre anche per il femminismo, forse perché considerato “imbarazzante” o impresentabile: quanto conta la bellezza nella vita delle donne? Quando la redazione della rivista “Lapis” decise di affrontarlo, faticammo molto a trovare chi fosse disposta a scriverne. Lo fecero Bruna Bianchi e Laura Kreyder. Nella nota introduttiva all’articolo si legge: “La bellezza, costitutiva dell’immagine femminile, è cantata, ma poco la indaga chi ne è gratificata (…) Le donne belle, vittime del culto che ispirano, parlano con la bocca dei loro adulatori. I quali tuttavia innalzano dee perché le si possano, nella sensualità, profanare. D’altra parte, il trucco, la cura del proprio corpo, le sue particolarità, sono sempre stati temi prediletti delle conversazioni tra donne”.

Che nell’educazione delle donne contasse soprattutto l’essere desiderate per la loro bellezza, le loro attrattive erotiche, e apprezzate per il materno sacrificio volto a “rendere piacevole e dolce” la vita dell’uomo, era già detto con chiarezza nell’ “Emilio” di Rousseau. A riprenderlo, quasi letteralmente, è il saggio pedagogico di Erik H Erikson, “Infanzia e società”(Armando Editore 1966), in uso nelle scuole fino alla soglia del’68. Quanto ha contribuito l’emancipazione a modificare “doti” femminile esaltate e svilite al medesimo tempo? Le donne e il corpo -scriveva Jean Baudrillard nella “Società dei consumi”- “solidali nella schiavitù”, restano legati anche nell’emancipazione. “la donna, un tempo asservita in quanto sesso, oggi è ‘liberata’ in quanto sesso”. Messe oggi nell’opportunità di fare scelte, sono le donne stesse a servirsi delle “risorse”, che l’uomo ha visto in loro, come una moneta di scambio, una condizione imposta da volgere a proprio vantaggio. Se in passato l’emancipazione è stata soprattutto assimilazione al modello maschile, cancellazione del corpo e della “femminilità”, per generazioni più giovani costrette a lavori saltuari e poco pagati le “potenti attrattive” della sessualità e della maternità tornano ad essere necessarie “per vendersi bene”. “E’ provato che nei contesti dei servizi alla persona e al consumo oggi, già nei regolamenti stessi, si chiede al dipendente di mettere in gioco una certa ‘corporeità’ ammiccante e sorridente, che coinvolga il cliente (…) E’ possibile che si vada creando un “contesto prostituzionale allargato”…” (“Posse”, Aprile 2003, Divenire-donna della politica). A confronto con culture più attente al “politicamente corretto”, il contesto italiano, specialmente quello dove l’apparire è il registro dominante, non ha modificato molto il modello tradizionale della femminilità, e il traguardo massimo della modernità sembra incarnato da chi sa tenere insieme, come Lilli Gruber, tacchi a spillo e professionalità inappuntabile.

A chi si rammarica che l’intelligenza, la cultura, la creatività femminile, esaltate come “talenti” indispensabili e ciò nonostante lasciate ai margini dei luoghi dove si esercitano i poteri e i saperi della vita pubblica, sfugge evidentemente una delle consapevolezze più originali del femminismo : la “violenza invisibile”, interiorizzazione da parte delle donne stesse della visione del mondo imposta dal dominio maschile.

Per un processo di liberazione che andava a scavare nelle zone di confine tra inconscio e coscienza, si sapeva che il cammino sarebbe stato lungo e che qualcuna si sarebbe accontentata, come diceva già Virginia Woolf, di “oscure carriere”, altre - come si legge in un articolo di Rossana Rossanda sulla rivista “Lapis” (n.8, giugno 1990)- forse avrebbero passato la vita “senza percepire altro che quel tessuto di immagini ricevute, stratificate, intrecciate a percezioni dirette ma oscure (…) Uno specchio l’accompagna sempre: è lo sguardo dell’uomo sul suo corpo, per cui è prima di tutto bella o brutta, bionda o bruna, gambe e seni e fianchi. Lei non può non vedersi vista. Il canone per lei è obbligatorio, per l’uomo no.”


 

Articolo pubblicato su "Il riformista" del 6 Maggio 2020

 

 

 

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