Parliamo del corpo delle donne

di Lea Melandri


Jeanne Hébuterne


Lunedi 28 febbraio 2005 si è aperta a New York la conferenza Onu, che viene a dieci anni da quella di Pechino, 1995, come verifica dell'impegno preso allora da 189 Stati del mondo per combattere tutte le forme di discriminazione verso le donne. Contrariamente alle valutazioni positive date da Kofi Annan, le ong femminili presenti all'incontro hanno affermato che "questo è un momento eccezionalmente sfavorevole ai diritti delle donne", in tema di salute, lavoro, istruzione, repressione della violenza sessuale, rappresentanza politica, pianificazione famigliare. Oltre al diffondersi della guerra e della povertà, a minacciare oggi i diritti acquisiti sono i fondamentalismi religiosi, cristiano e islamico. Ne sono un esempio: la messa in discussione dell'aborto, negli Stati Uniti e in alcuni paesi europei, compresa l'Italia, e, in Algeria, l'approvazione di un nuovo codice di famiglia che introduce la figura del tutore matrimoniale.

Nonostante il divario innegabile tra le forme e i dati numerici dell'emarginazione femminile in Occidente e nel resto del mondo, ci sono tuttavia elementi di somiglianza che vale la pena evidenziare e che ci inducono a credere che non si tratti solo di diritti violati o non riconosciuti.

La violenza sulle donne, sotto qualsiasi cielo o cultura avvenga, riguarda prioritariamente i loro corpi e l'attrattiva che rappresentano per l'uomo: in quanto corpi che generano, corpi sessualmente seduttivi, ma anche corpi disposti alla fatica del lavoro domestico, della cura di bambini, malati, anziani. E' intorno a questa risorsa preziosa per l'uomo, per il suo piacere e per la sua discendenza, che si sono costruiti storicamente quei legami, di possesso, asservimento, subordinazione di un sesso all'altro, che nessun diritto ha mai cancellato del tutto.

Le separazioni, i divorzi, a cui le donne possono liberamente accedere nei nostri paesi, sono anche una delle cause prime che le vede vittime di mariti, amanti, che si vedono sfuggire in questo modo un bene proprio. Nessun codice di famiglia, per quanto rivisto sulla base dell'uguaglianza tra i sessi, riesce a impedire che una donna ritagli con fatica dai suoi obblighi di madre e moglie un tempo per sé sgombro da sensi di colpa, paure, vergogna. Così come è difficile che la garanzia di un lavoro esterno posso incrinare la centralità che hanno preso, nei pensieri di una donna, le occupazioni e gli affetti che l'attendono all'interno di una casa. Osservazioni analoghe si possono fare per l'istruzione: anche là dove è garantita, non può che andare a incunearsi in quella biforcazione obbligata di scelte che sono i saperi e le professioni tradizionalmente "femminili" e "maschili", sentendosi fuori luogo sia nelle une che nelle altre.

Non c'è nessun diritto che possa mettere l'intelligenza femminile in condizione di esprimersi in modo creativo, almeno finché non saranno messe in discussione la presunta "naturalità" della dedizione a un uomo, a un figlio, o l'obbligo di piacere per avere amore e riconoscimento. Le energie fisiche e mentali che le donne impiegano per adattarsi al destino che altri ha deciso per loro - di madre, amante, serva o musa ispiratrice - non possono che contribuire a mantenerle in una condizione subordinata, anche là dove le leggi garantiscono uguaglianza e pari opportunità. Per quanto riguarda poi la questione della rappresentanza politica, che ricompare a ogni scadenza elettorale, è evidente la difficoltà a uscire dalla sterile contrapposizione tra l'essere escluse e l'autoesclusione, tra la persistenza di poteri tradizionalmente maschili e gli effetti di estraniazione che essi hanno sedimentato nel modo di sentire e di pensare di chi comincia solo ora ad affacciarsi alla vita pubblica.

La battaglia per diritti e pari opportunità non va abbandonata, ma è chiaro che, se la loro applicazione anche da parte degli Stati che formalmente l'hanno approvata va così a rilento, o addirittura regredisce, ciò dipende anche dalla solitudine in cui sono lasciati i gruppi e le associazioni di donne che si battono per cambiare a tutti i livelli, privato e pubblico, il rapporto tra i sessi.

Purtroppo, a occuparsi dei corpi delle donne, della sessualità, dei legami famigliari, sono quasi esclusivamente le forze conservatrici, laiche e religiose, mentre persiste nella sinistra, partitica e di movimento, l'incapacità di rileggere la crisi evidente della politica sulla base di ciò che essa ha allontanato da sé: l'individuo, l'appartenenza a un sesso o all'altro, la vita psichica, le relazioni parentali. In altre parole: l'esperienza umana nella sua complessità.

Particolarmente duro, ma innegabilmente veritiero, è stato il giudizio emesso dalla Conferenza a proposito della discriminazione delle donne in Italia. Lo svantaggio femminile nella politica e nel lavoro viene riportato alla persistenza dei ruoli tradizionali nella famiglia e nella società, alla mancanza di «una equa ripartizione delle responsabilità domestiche», ma soprattutto al fatto che «la donna è ancora percepita come oggetto sessuale e principale responsabile della crescita dei figli».

Quanti di questi "pregiudizi" e "stereotipi" sono regolabili sulla base di diritti e norme giuridiche? Su quali radici inesplorate di adattamenti, vantaggi secondari, segrete condivisioni da parte delle donne, può contare la loro permanenza nel tempo? E che dire poi quando l'"oggetto sessuale" esibisce pubblicamente anche doti di tenera madre, come è il caso di attrici e modelle disposte a posare nude in stato di gravidanza e col bambino appena nato?

Il rapporto della Commissione Onu, che si va ad aggiungere a dati statistici non meno allarmanti, non sembra aver suscitato nel nostro Paese alcuna reazione degna di nota. Di fronte all'immagine femminile della televisione e della pubblicità si è tentati di riabilitare la pornografia e la prostituzione che, quanto meno, non si nascondono dietro la maschera "nobilitante" del successo e dei lauti guadagni.

Non è certo questa la libertà che il movimento femminista aveva intravisto ai suoi inizi, né si immaginava trent'anni fa che riscoprire il proprio corpo avrebbe voluto dire, nella post-modernità, venderlo a caro prezzo all'industria dello spettacolo e al mercato pubblicitario. Eppure, a differenza di quello che è capitato in altre nazioni, per esempio la Francia e la Spagna, nessuna voce e nessuna associazione femminile si sono sentite finora in Italia deplorare il "razzismo" che sottostà all'uso della donna come "moneta vivente", forse perché siamo tutte e tutti consapevoli che su quel palcoscenico nessuna donna arriva in catene, ma per una deliberata, spesso esibita volontà di far mettere a profitto il proprio potere seduttivo. La discriminazione sul piano del lavoro e della rappresentanza politica, ha, come dice la Commissione Onu, il suo retroterra nei ruoli tradizionali, ma questi a loro volta rimandano all'investimento più o meno consapevole che su di essi le donne hanno fatto e continuano a fare, spinte dal miraggio di far valere le proprie attrattive, di volgere millenni di schiavitù in un una qualche forma di dominio.
 



questo articolo è apparso su Liberazione del 9 marzo 2005