Oltre la pelle bianca del multiculturalismo
di Sara Marinelli

 


Sottrarre la voce dell'altro, parlando al suo posto, è stata - e continua a essere - una delle deplorevoli pratiche che gli studi postcoloniali hanno messo in evidenza, e che non si limita soltanto all'orizzonte linguistico (vale a dire rispetto alla lingua in cui l'altro può parlare), ma tocca il nervo scoperto del problema della rappresentazione: come, cioè, si possa reagire alle pratiche discorsive che lo hanno definito e stigmatizzato appunto come «altro».

Lo studio di Lidia Curti "La voce dell'altra" pone sin dal titolo diversi quesiti che l'autrice rivolge ai lettori e a se stessa: chi è che parla, con quale voce, e chi è realmente l'altra? La desinenza di genere - l'altra e non l'altro - è qui cruciale poiché si inserisce in un percorso letterario teso a scoprire proprio la differenza che in ciascun assetto il femminile fa, e produce.

Situando la propria voce in mezzo a quella di scrittrici e letterate di diverse generazioni e ambiti culturali, l'autrice delinea una prospettiva critica che muove dal mondo anglofono e attraversa varie correnti della modernità, fino ad approdare al territorio in divenire della letteratura italofona postcoloniale (ma in realtà il termine è ancora dibattuto), riconoscendovi gli strumenti interpretativi propri della letteratura anglofona che per prima aveva interrotto il monolinguismo del canone nazionale inglese.

Le elaborazioni teoriche di Gayatri Spivak, Trinh Minh-ha, Rey Chow, Gloria Anzaldúa, Fatima Mernissi, accanto alle articolazioni narrative e poetiche di Toni Morrison, Assia Djebar, Mahasweta Devi, Anita Desai, Kamala Das, per nominarne solo alcune, offrono riflessioni sul disagio dello scenario presente, che se da un lato ha esaudito la promessa di essersi reso «multiculturale» (quando anni fa il multiculturalismo era ancora l'orizzonte auspicabile), dall'altro di quel multiculturalismo riconosce la pelle prevalentemente bianca, assieme alla caparbietà con cui tuttora usa il termine «altro» per nominare chi è invece parte di una storia comune.

Nel parlare «accanto a», o attraverso, voci che si stagliano prevalentemente ai confini delle categorie, l'autrice è consapevole che, pur gettando dubbi sull'autorità di certe categorizzazioni prescritte nel linguaggio, esiste una inalienabile alterità conculcata nel femminile, e nel suo corpo, di cui sono testimonianza, all'interno delle multiformi testualità del '900, le sublimazioni eteree o mostruose del femminile, evidenti nelle sue incarnazioni più note - la femme fatale del cinema, il mito di Medusa, la donna-vampiro.

La traiettoria del pensiero di Curti disegna un contrappunto, o un intreccio, tra la consapevolezza dell'irriducibilità del corpo femminile, da sempre mitologizzato e feticizzato, e la necessità della sua immanenza e materialità proprio nelle narrazioni, in virtù della differenza di cui si fa portatore.

Di tale specificità si offrono vari esempi nel bel capitolo «Le voci della subalterna», dove il femminile è letto come segno e simbolo di subalternità coloniale. È attraverso le violazioni del corpo delle donne che si narra la storia: il corpo «istoriato» di Sethe, la protagonista del celebre romanzo di Toni Morrison, Beloved, porta letteralmente incisa sulla schiena la storia della schiavitù del suo popolo, e anche qualcosa di più: l'albero scavato nella sua schiena dalle frustate del padrone è la punizione non solo di schiava, ma di donna che non ha taciuto la violenza sessuale inflittale dall'uomo bianco.

Analogamente, il corpo sacrificale della donna indiana regge l'economia della famiglia o della tribù, come viene denunciato nelle storie della scrittrice bengalese Mahasweta Devi - una di quelle autrici che ha apertamente dichiarato di non scrivere «accanto a», ma per e con gli adivasi, compiendo la scelta politica di scrivere in bengali.

Nella differenza che il femminile fa, tanto nella sua forma di subalternità quanto in quella di resistenza, emerge fortemente il potere della scrittura. Una scrittura che Curti interpreta in senso ampio, mettendo in rilievo l'affinità tra raccontare e tessere (due delle più antiche pratiche femminili) e mostrando il connubio tra libro e quadro, tela e ricamo, ad esempio nell'arte delle abili tessitrici di tappeti marocchine di cui parla Fatima Mernissi in Karawan.

Il potere dell'intreccio tra mondi e discorsi diversi agisce anche nella tessitura più moderna, in riferimento alla grande rete tecnologica, la world wide web, un contesto in cui si giocano divari e parità dei generi e delle culture nei diversi angoli del pianeta.

Che sia intrecciata in forma di testo o di tessuto, la scrittura delle donne si impone come discorso potente per immaginare, e invitare a immaginare, altri mondi e spazi dove l'incontro con l'alterità non sia sotto il segno della disparità, della cancellazione in veste di «assimilazione», o della violenza. Evocando la salvifica arte affabulatoria della narratrice per eccellenza, Shaharazad, che con la parola vinse la morte - la propria e quella di altre - Curti ricorda la sostanza politica insita nel gesto narrativo.

Nelle molteplici narrazioni che l'autrice ha disseminato nel suo saggio, la scrittura delle donne si afferma quale istanza di intervento attivo. E soprattutto trionfa come emergenza - o addirittura come sopravvivenza - di identità altrimenti sommerse.

 


Lidia Curti
La voce dell'altra

Scritture ibride tra femminismo e postcoloniale
Meltemi, 2006, pp. 238, euro 19,50


 

questo articolo è apparso su  il manifesto del 21 novembre 2006