Perché vi uccidiamo? Perché il maschio globale è solo

di Pasquale Voza


Wanda Broggi

L’interrogativo radicale ed estremo, lanciato da “Liberazione” e riproposto tenacemente da Angela Azzaro (“Maschi, perché uccidete le donne? ”), interroga – non c’è dubbio - l’identità sessuata di noi uomini qui ed ora, dentro i processi storicoreali, nei quali tale identità si colloca e agisce. Ma, per provare a cercare qualche elemento, se non di risposta, almeno di riflessione, anch’io sono convinto che sia necessario intrecciare, riguardo al patriarcato, l’oggi (le cause dell’oggi) con la «lunga durata» (le cause della lunga durata, per usare un termine di Braudel e delle “Annales”: naturalmente una lunga durata, di volta in volta storicamente determinata).

Io ricordo che di fronte all’aforisma delle lotte femministe degli anni Settanta (Né puttane né madonne, ma solo donne), cercavo di indagare, di capire come esso potesse parlarmi e interrogarmi, e trovai per me e per noi uomini queste parole: Né cacciatori né poeti, ma solo uomini. Pensavo che caccia e poesia sono due attività antropologicamente “eterne” dell’Uomo, e mi sembrava così di intuire le radici profonde della cultura maschile-patriarcale conficcata in me: mi sembrava di intuire come il mix, l’intreccio nobile di cacciatore e di poeta travestisse, sublimasse, rendesse invisibile la mia reale parzialità e identità, a me stesso sconosciuta (o forse, confinata nel sottobosco delle nevrosi e delle ipocrisie).

Ora - senza indulgere a nessun gusto del paradosso - io credo che noi maschi, quando siamo in servizio come cacciatori- poeti, nella “norma” di un rapporto d’amore con un soggetto donna, siamo potenzialmente assassini: negli occhi incantati e stupefatti con cui si guarda (scusate, passo all’impersonale), durante il rapporto sessuale (ma in genere dopo), la donna amata (“amata”), c’è una traccia potenziale di un narcisismo intimamente violento e aggressivo, sia pure declinato in mille tonalità, furenti, dolenti, tenere, compiaciute eccetera. Sicché, stante la lunga durata della cultura patriarcale, rimane ambiguo, ambiguissimo, nel rapporto degli uomini con le donne, il confine che separa rapporto “normale”, stupro, assassinio.

Se passiamo alle peculiarità dell’oggi, non c’è dubbio che il contesto, l’insieme dei processi attuali sia assai significativo: gli effetti devastanti della globalizzazione liberista, la disgregazione della coesione sociale, la pervasività della precarizzazione fin dentro le fibre più intime della vita. Si pensi, in particolare, all’atomizzazione degli individui oggi, che - come ha osservato Alessandro Dal Lago - «difendono solipsisticamente la loro solitudine ».

Questa difesa solipsistica della solitudine, questa «solitudine del cittadino globale » (Bauman) è intimamente violenta e aggressiva (basti guardare a tutte le virulenze etnicistiche, localistiche e/o comunitarie). Ma la solitudine del cittadino globale è innanzitutto la solitudine del maschio globale: solitudine resa più acuta e pericolosa - come ha osservato giustamente Franco Giordano - dalla paura, dallo spiazzamento per la forte soggettività, autonomia e asimmetria femminile. E lo sappiamo: quando il maschio è solo o è stato lasciato solo, le donne fanno gola, costi quel che costi.

Ha scritto una volta Mario Tronti che «ancora e per lungo tempo di autocritica deve trattarsi per il pensiero maschile e di critica per il pensiero femminile». Io credo che questo processo di autocritica per noi uomini non possa che basarsi sul partire da sé e debba pensarsi come un processo, difficile e complesso, di riforma morale e intellettuale.

Pasolini parlava (neutralmente) di “Destra sublime” per invitare provocatoriamente la politica, la forma politica, a occuparsi di temi tradizionalmente ritenuti im-politici, quali quelli inerenti alla vita. Le donne hanno fatto a meno, sono partite da sé e poi hanno finito per investire e interrogare radicalmente la politica. Certo, non guasterebbe oggi una sinistra sublime. Nel nostro partito il superamento del suo carattere monosessuato è visto (almeno sulla carta) come un grande processo politico e culturale e ha (giustamente) come suo punto irrinunciabile il grande tema della rappresentanza.

Ma oserei chiedere: noi uomini, militanti, dirigenti, non potremmo immaginare momenti collettivi di analisi e di riflessione sui grandi temi quali patriarcato, cultura e identità maschili oggi. Sarebbe bello: però io stesso (virilmente e perciò politicamente: spesso i due termini sono intercambiabili) mi dico: ciò è interessante, ma bisogna fare molta attenzione, c’è la lunga campagna elettorale, che facciamo? Ci mettiamo a fare gruppi pubblici di autocoscienza maschile? Peccato: un po’ di audacia e di fantasia non guasterebbe. Se non ora, quando?

questo articolo è apparso su Liberazione del 22  novembre 2005