Nei sotterranei dell'Umanesimo
La
persecuzione delle donne per stregoneria, il lato invisibile dello
splendore.
Intervista a Esther Cohen di Chiara Zamboni
Esther Cohen ha scritto un libro intitolato
Con il diavolo in corpo. Filosofia e streghe nel
Rinascimento (ombre corte, pp. 173, € 13,50), nel quale
pone al centro la sessualità femminile, l'eccesso del godimento che la
caratterizza, e il corpo, per leggere il lato in ombra, il lato oscuro del
Rinascimento. Esiste una linea di rottura, una faglia, a partire dalla
quale poter vedere il lato invisibile dello splendore del Rinascimento: si
tratta della persecuzione delle donne per stregoneria. Si sa che i
rapporti tra donne e uomini variano nel tempo e slittano e si modificano
impercettibilmente, ma al medesimo tempo si inscrivono con nettezza nel
simbolico. Uno dei segni più significativi è la forma che prende la
sessualità accolta e riconosciuta, e l'esclusione che ciò implica. Alla
fine del Quattrocento si gioca una battaglia simbolica sulla sessualità -
su quella femminile - proprio nel definire i tratti e i comportamenti e i
patti attribuiti a quelle donne che vengono considerate e condannate come
streghe.
Lei parla del Malleus maleficarum (il martello delle streghe)
del 1486, come uno scritto fondamentale perché descrive che cosa sia una
strega. I domenicani, che ne sono gli autori, segnalano l'ambiguità della
strega, l'impossibilità di ridurla a un tipo preciso. In che senso? Perché
questo testo segnala un nodo cruciale di quel passaggio di civiltà che a
lei interessa mostrare?
Mi sembra che la pubblicazione del Malleus maleficarum costituisca un
momento di rottura con il passato medievale. Si tratta del momento nel
quale la «strega», che aveva rivestito fino ad allora un ruolo importante
nell'economia simbolica medievale e in fin dei conti aveva avuto una
funzione precisa anche per la Chiesa, cambia nello sguardo sociale. In
questo periodo siamo di fronte a una nuova disposizione del sapere,
vengono gettate le basi del pensiero scientifico: la strega ha una
posizione che niente ha a che fare con tale nuovo inizio. E' per questo
che viene annullata, nella forma molto concreta di essere bruciata viva.
Con lei vengono bruciati tutti i desideri, che in qualche modo rimanevano
ai margini della nuova organizzazione del sapere rinascimentale. Se nel
testo parlo di ambiguità, è perché non c'è nessun tratto che la possa
caratterizzare in modo univoco, distinguendola dal resto delle donne. In
questo senso tutte le donne possono, a un certo punto, diventare streghe.
Ma quello che mi è interessato di più mettere in evidenza è l'incapacità
di queste donne di formulare un discorso proprio, che autolegittimasse la
loro pratica. E questo a differenza dei maghi e filosofi del Rinascimento
che, anche se praticavano la magia, avevano la capacità di produrre
discorsi all'altezza di una accettabile difesa di tale pratica.
La donna, accusata di stregoneria, è presentata nel libro come
portatrice di un sapere popolare, radicato e diffuso. Sono gli inquisitori
a descriverla come una strega secondo i loro modelli di riferimento.
Queste donne hanno un loro sapere, fondato sull'esperienza, hanno delle
loro logiche discorsive. Quello che è mancato loro è stata la capacità di
entrare in un rapporto di mediazione con il discorso dominante. Potrebbe
spiegare in che senso?
Certamente, la donna nel Medioevo aveva di frequente delle conoscenze
precise e questo era accettato dalla Chiesa. Ma è proprio questo sapere a
venir escluso dal sapere ufficiale nel Rinascimento. Prima la loro
esperienza, che si fondava su un sapere concreto, era vista come parte del
sistema simbolico del tempo. Il problema si avverte quando il sistema
scientifico incomincia a riorganizzarsi nello spazio sociale del
Rinascimento. E' a questo punto che le donne «di sapere» incominciano a
essere indicate come streghe, come donne cioè che agiscono fuori dal
contesto riconosciuto, ufficiale. Sono state bruciate per bruciare in
fondo un sapere popolare che si è avuto intenzione di cancellare dal
paradigma dominante.
Parla di una alterità dentro di sé, che a ognuno di noi fa paura. Cita
in questo senso Derrida, e a me viene in mente anche Kristeva di
Stranieri a noi stessi. Si tratta dell'essere invasi, posseduti tra sé
e sé da un fantasma, scrive Derrida. Da una alterità in conoscibile,
scrive Kristeva, che l'io non può controllare. Questa idea l'ha guidata
nel libro. Come?
Credo, con Derrida, che la paura per le streghe non mostri se non la
propria paura, la paura dei nostri desideri più bassi, e, in un certo
senso, più nascosti. Quando si legge il Malleus maleficarum, l'impressione
che si ha è decisamente quella di un paio di uomini di chiesa che
semplicemente hanno paura e che si immaginano perciò ogni sorta di
perversione. Questa paura è il filo conduttore che attraversa tutto il mio
libro, o, per meglio dire, questa idea di Derrida è il sostegno di una
buona parte del mio testo. Ma dietro questa idea c'è anche Bataille e la
sua parte maledetta, cioè l'idea dello spreco, del desiderio improduttivo
di vecchie donne che godono di una sessualità senza limiti, che non hanno
più l'età per procreare. Come l'ebreo medievale faceva usura, guadagnando
senza lavorare e così rubava il tempo che apparteneva solo a Dio, allo
stesso modo queste donne sfruttavano il piacere del corpo senza produrre.
Dimostra un grande amore per il Rinascimento e al medesimo tempo lo
vede come luogo di scontro tra il filosofo, il mago, l'inquisitore e la
strega: i filosofi maghi del Rinascimento come Pico della Mirandola, e
anche Giordano Bruno, hanno separato nettamente magia bianca e magia nera,
quella «buona» dalla «cattiva», impedendo in questo modo una continuità
tra un sapere popolare, prevalentemente femminile, e un sapere «alto»,
che in questo modo si è difeso. Qual è la loro responsabilità?
Certo che guardo al Rinascimento con ammirazione, ma, come dice Walter
Benjamin, non esiste un documento di cultura che non sia allo stesso tempo
un documento di barbarie. Penso che la barbarie propria del Rinascimento
sia rappresentata dalla caccia alle streghe. Nei confronti cioè di quelle
donne rimaste al di fuori del sapere egemonico ed escluse da esso. I
filosofi come Pico della Mirandola e Agrippa, sapendo qual era lo statuto
della magia, hanno saputo difendersi, facendo una critica dura e precisa
alla pratica della stregoneria. Eppure essi al medesimo tempo hanno
utilizzato le stesse pratiche. La differenza stava nella loro capacità di
dire in che senso erano fondate le loro pratiche e invece quelle della
stregoneria erano da condannare. I filosofi sapevano, in linea di massima,
come difendersi dall'Inquisizione, mentre erano le donne accusate di
stregoneria che non avevano avuto la capacità di esprimere il senso e il
valore di quello che facevano: una capacità discorsiva che le avrebbe
salvate dal rogo. In questo consiste la responsabilità della cultura
«alta»: questi filosofi, per salvarsi, hanno condannato le pratiche di
stregoneria e in questo modo hanno indirettamente condannato quelle donne,
che usavano tali pratiche. Eppure le pratiche che essi adoperavano erano
simili, ma giustificate discorsivamente.
Tocca anche il problema del male. Nel caso delle streghe lo mostra
legato a una erotizzazione diffusa, a una sessualità eccedente la
procreazione, al legame tra donna vecchia e godimento.
Tocco il problema del male, che in qualche modo rappresenta la
preoccupazione sia del Medioevo come del Rinascimento. Questo è vero anche
per la tradizione ebraica: dal Medioevo in poi il problema che ad esempio
si poneva la cabala era «de unde mallum»? E a me sembra che il male nel
Rinascimento abbia preso la figura ossessionante della libera e
improduttiva sessualità delle donne. Questa eccedenza del godimento,
attribuita alla strega, penso che sia un elemento dell'immaginario, che,
anche se non con quella forza, è ancora vivo nella nostra società. Ad
esempio l'esistenza dell'aids è interpretata come segno del castigo per
una sessualità oscena, improduttiva, che prescinde dalla questione della
procreazione. A me pare che la lezione che possiamo trarre dal
Rinascimento e dalla sua barbarie sia che la barbarie non è lontana da
noi. Lo abbiamo visto nella Seconda guerra mondiale con la «soluzione
finale»: attraverso questo filtro possiamo capire che cosa sia avvenuto
nel Rinascimento. Ruanda, Cambogia e Iraq continuano a parlarci della
allergia nei confronti dell'altro, sia nero, ebreo, indigeno o donna. E'
per questo che il lavoro della memoria è così importante: riuscire, come
dice Derrida, a fare della memoria non un problema del passato, ma
dell'avvenire.
E oggi? Il patto dominante tra donne e uomini sembra essere quello che
le donne nella vita pubblica diventino eguali agli uomini. Ciò
tranquillizza gli uomini, che sanno le regole di questo gioco. Più
provocatoria la valorizzazione della differenza femminile, che può
facilmente scivolare oltre un limite, al di là del quale gli uomini
l'avvertono come una minaccia. Cosa potrebbe dire dell'oggi a partire
dalle analisi del suo libro?
Mi sembra che la battaglia non l'abbiamo ancora vinta. Adesso, anche se in
teoria gli uomini accettano la liberazione della donna, la libertà
femminile continua a essere una minaccia per la mascolinità. Io posso
parlare dal punto di vista dell'America Latina - abito in Messico - e non
da quello dell'Europa, dove la liberazione ha avuto altre caratteristiche.
Ma direi che anche in Italia o in Francia una donna deve ancora lottare
per poter essere una donna libera e allo stesso tempo avere un rapporto di
felice eguaglianza con gli uomini.
Questo articolo è apparso su il manifesto
del 29 luglio 2005
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