Femminimo e “Lacanismo”: Una Complicità Pericolosa
Paola Zaretti

 

 

Strana esistenza sociale la nostra, di esseri che non sono uomini ma non possono risultare donne. (Sottosopra, Gennaio '83)

Nulla condensa meglio di questo enunciato il Tragico della condizione femminile.
Eppure capita che per gli psicanalisti e per le psicanaliste lacaniane nascere donna in un ordine simbolico maschio sia un’inestimabile fortuna. Si legge, per esempio, che:

essere altro o altra dall’ordine simbolico organizzato in senso fallico, essere il punto di fuga dell’ordine simbolico organizzato in senso fallico (…) apre a qualcosa di non ordinato ma che ha la forma dell’infinito.

Vero, in parte, ma, detto così, suona edificante-fuorviante.
Si può asserire, infatti, che le donne sono “il punto di fuga” dell’ordine simbolico organizzato in senso fallico” purché non si ometta di dire che le donne sono la metà di quel particolare genere umano che quest’ordine fallocentrico ha pensato bene di mettere in fuga, di escludere da sé come donne, come Soggetti femminili, includendole come uomini, come Soggetti maschili - come se fossero uomini. Ma poiché non lo sono, ciò comporta per loro qualche inconveniente che non manca di avere degli effetti sulla loro vita e sulla loro Salute.

Ciò su cui vorrei concentrare ancora una volta la mia attenzione, è un fenomeno a dir poco strano - su cui manca una sia pur minima riflessione - che si verifica da un po’ di anni a questa parte e che vale la pena approfondire.
Si tratta, per entrare subito nel vivo, del rapporto di alleanza che pare si sia andata costruendo nel tempo fra alcune filosofe femministe ispirate al “pensiero della Differenza” di Irigaray - psicanalista oltre che filosofa - e alcune psicanaliste lacaniane le cui teorie, fedeli all’insegnamento del “Maestro”, sono a tal punto distanti dal pensiero di Irigaray, da aver provocato, a suo tempo, la sua espulsione dalla Scuola per “mancata fedeltà a un solo discorso”, per aver contestato, dunque, la teoria lacaniana. Esiste, insomma, far femminismo e lacanismo una certa complicità.

Capita, infatti, attraverso una serie di coincidenze del tutto impreviste e casuali, di venire a conoscenza di rapporti di collaborazione fra delle filosofe femministe che fanno riferimento al pensiero della Differenza di Irigaray e alcune psicanaliste di “scuola lacaniana” ansiose di diffondere nei Luoghi del femminismo la teoria di Lacan e capita che queste lo facciano dedicando parte del loro tempo a predicare la teoria lacaniana di una felice e invidiabile condizione femminile, esaltata dall’opportunità riservata alle donne di partorire “invenzioni particolari e non ripetibili” - senza trascurare di evocare, nel contempo, la vecchia ma sempre suggestiva sfera dell’”indicibile”, “il reale pulsante al di là dell’organizzazione simbolica” o, ancora, nientemeno, la “forza pura dell’infinito” e, da ultimo, la sfera dell’esperienza mistica.

Che la psicanalisi corra il rischio di diventare una religione - ammesso che , come alcuni sostengono, non lo sia già diventata, - è un fatto, nonostante Freud non abbia mai cessato di predicare e di insistere sulla visione laica della sua invenzione.
Questa nuova alleanza - solo per certi versi sorprendente ma certamente sconcertante - fra filosofe ispirate al pensiero di Irigaray e psicanaliste che fanno riferimento alla teoria di Lacan, non darebbe da pensare se non fosse che, come ho già detto, Irigaray fu cacciata dall’Ecole freudienne fondata da Lacan e se non fosse che queste discepole di Lacan non brillano certo per aver inventato, a partire dalla loro esperienza di donne, alcunché di originale rispetto a Papà Lacan di cui vanno pedantemente ripetendo, da anni, assieme ai loro colleghi maschi, una teoria che ha fatto da tempo il suo tempo.

Che la risorsa inventiva tutta femminile, esageratamente enfatizzata, vada deserta negli scritti degli analisti maschi, non sorprende, ma che le donne, proprio loro, tradiscano e non lascino trapelare, da nessuno dei loro discorsi e dei loro scritti quella forza “pura dell’infinito”, quella “forza pura della vita (…) slegata dalla forma datale dal simbolico” che pure vanno entusiasticamente predicando per altre, dà certamente da pensare.
Altre donne, invero, sono state all’altezza di trasmettere, attraverso le loro opere, una tale Forza - Woolf, Duras, Lispector, Weil, Putino - ma non erano psicanaliste, erano donne che volavano alto, in un cielo sgombro da teorie ingombrate dal fallo, dotate di un libero pensiero selvaggio e inaddomesticabile, donne resistenti alle seduzioni “formative” imposte dal dominio di un pauperismo dottrinale impartito ad opera di Padri.
Ci fosse mai, nei discorsi e negli scritti di queste seguaci di Lacan, impegnate a vivisezionare i testi di Papà e a riproporli ossessivamente e senza significative varianti - una scintilla, un lampo, una piega inedita, un’intuizione feconda in più, un’”invenzione” personale “irrepetibile” , a dar conto di questa “forza pura della vita” da loro attribuita al genere femminile di cui pure si suppone facciano, almeno anatomicamente, parte.
Niente di tutto questo. A risuonare puntuale, è sempre la stessa campana, la stessa mortifera “canzone da organetto” sulla grande rivoluzione apportata da Papà Lacan, rispetto a Papà Freud, sul femminile. Inutile dire che puntare tutto su questa “rivoluzione” può avere un qualche risvolto in termini di tornaconto.
Capire in che cosa questa” rivoluzione” consista è dunque per le donne - femministe e non, per quelle che vanno in analisi, per quelle che, diffidandone, se ne tengono alla larga rifiutando percorsi di “cura” pensati, teorizzati e diretti da uomini e, soprattutto, per quelle donne che intendono diventare psicanaliste e formare altre donne - essenziale al fine di evitare trappole suggestive e mistificanti in cui i lacaniani - e qui l’indifferenziazione di genere ci sta per davvero - sono veri maestri.

Ma, intanto, tornando alle psicanaliste cui è rivolto - per delle buone ragioni, non ultima la loro abissale distanza teorica dal pensiero di Irigaray - il nostro interesse, vien già subito voglia di chiedersi se a far da ostacolo, a inibire, a deprimere le loro potenziali risorse femminili di pensiero, lo sviluppo e la liberazione della loro effettiva potenza creativa, non siano proprio “l’attaccamento appassionato”, la cieca fedeltà alle dottrine dei Padri, l’incapacità di scollarsi di dosso l’ennesima teoria scritta da un uomo sulle donne che di rivoluzionario - nonostante i tentativi di farlo credere - ha davvero ben poco.
E’ forse troppo - data la loro petulante insistenza sulle “invenzioni irrepetibili” di cui le donne sarebbero capaci - aspettarsi anche solo di inciampare, nei loro scritti, in qualche traccia che testimoni della loro capacità di realizzare, innanzi tutto per se stesse, prima che per altre, quella felice e straordinaria capacità inventiva tutta femminile che vanno teorizzando?
Uno degli aspetti più inquietanti di questa “rivoluzione” lacaniana - vale la pena ricordarlo - consisterebbe nell’insinuare che le donne, le femministe in particolare - impegnate per anni nella decostruzione di un ordine simbolico fallocentrico che da sempre le esclude o le include a condizione di rinnegare il loro genere per ritrovare il quale dovranno “convertirsi” (Irigaray) - non avrebbero ancora capito, nonostante gli sforzi in tal senso di Lacan e dei suoi seguaci, che la loro posizione, pur aliena e simbolicamente irrappresentabile all’interno di quest’ordine fallico, gode tuttavia di un “valore incalcolabile” a loro ignoto.
Il femminismo insomma - nonostante il prestigioso contributo delle sue filosofe, delle sue teoriche e di Irigaray, - di questo valore inestimabile conferito alle donne da un’operazione di estromissione simbolica del loro genere non se ne sarebbe accorto, distratto com’era a fare altro, a smantellare quell’ordine e a denunciarne, senza ragionevole motivo, la violenza discriminatoria e l’iniquità….
Si può scrivere di tutto, certo. Si può rimuovere la foresta e parlare dell’albero, si può preservare intatto l’impianto fallocentrico patriarcale governato da un ordine simbolico amputato di metà del suo genere, dotato di un solo simbolo - il fallo - a rappresentare due sessi (non c’è “la falla”, scrive infatti, correttamente, una delle seguaci di Papà Lacan per indicare l’inesistenza, nel simbolico, di un equi-valente femminile del fallo in grado di rappresentare la donna).
Si può continuare a non dire e a non fare nulla per contribuire a recidere attivamente le radici culturali di un ordine patriarcale escludente la metà degli umani, lo si può accettare acriticamente, come un postulato inamovibile, diventandone occulti/e sostenitori e sostenitrici, limitandosi a giocare al suo interno una partita truccata fino al punto di trasformare l’esclusione delle donne dal sistema androcentrico in un valore aggiunto, in un “supplemento”, fino a sostenere che le donne da un fallocentrismo che - bontà sua e buon per loro - non le definisce interamente ma solo in parte - solo come “soggetti” ma non come “soggetti femminili” - ne uscirebbero gloriose e vincenti. Non che certe descrizioni in merito al doppio posizionamento della donna rispetto al fallo non siano - beninteso - rigorosamente fedeli all’ordine fallocentrico che ci è dato conoscere e in cui viviamo.
C’è che le cose vengono prese alla rovescia omettendo l’”errore”. C’è, che “l’ingombro fallico” continua a intralciare e a insidiare la psicanalisi quanto più essa tenta di liberarsene. C’è, per esempio, che ad essere sistematicamente rimosso, è l’essenziale: l’accettazione e l’assunzione acritica di un presupposto teorico - il fallocentrismo - che fa della condizione della donna dentro un ordine pensato dall’uomo e per l’uomo, quella condizione tragica sottolineata all’inizio:

Se l’uomo è interamente definito - nella sua virilità, dal fallo, la lotta di prestigio e identità si gioca sulla misura del fallo e dei suoi equivalenti (successo, carriera, macchine e donne), La donna - questa è la tesi nota di Lacan - non è interamente definita dal fallo: può averci a che fare (come con tutti gli equivalenti fallici (potere, conquista, carriera, figli e uomini), ma non interamente. Il fallo non le dà un’identità come donna. Non è più donna perché ha più successo o carriera, quindi il fallo dà un’identità come soggetto non come soggetto femminile. Ciò che la rende donna è situato al di là del fallo e di là dell’Edipo, al di là del padre Non viene dal padre un’indicazione su cosa significhi essere donna.

Al di là, al di là, al di là… sono davvero troppi questi rinvii strategici a un “al di là”, utilizzati per districarsi dall’”ingombro fallico”, dall’Edipo e dal padre e finalizzati a fuorviare noi lettrici dal comprendere chi o che cosa darebbe a una donna un’identità come donna, chi o che cosa renderebbe donna una donna visto e considerato che tale compito non spetta né al fallo, né al padre.
Spetterebbe dunque alla madre?
Nel rinviare, per il momento, una risposta possibile, accontentiamoci di restare - piedi ben piantati a terra - nell’immanenza dell’al di qua, per dire che troppe cose non tornano in queste fantasiose descrizioni nonostante la buona volontà dei lacaniani nel cercare di rendere comprensibile, fra un ingorgo e l’altro, fra un ingarbugliamento e l’altro della loro teoria sul femminile, che cosa ha detto veramente Lacan del cui pensiero si fanno unici interpreti contestando chiunque osi - come a suo tempo Irigaray e oggi Butler - una minima critica.


E veniamo al passo sopra citato. Il fatto che la donna non sia “tutta” interamente definita dal fallo e lo sia dunque solo parzialmente (“non-tutta”) - nel senso che l’”identità” conferitale dal fallo “come soggetto” nulla ci racconta circa la sua specifica identità di “soggetto femminile”, - non comporta per lei solo un vantaggio - come si intende suggerire - ma anche uno svantaggio: l’essere definita, infatti, al contempo e sia pure parzialmente, come “soggetto”, da un simbolo virile (il fallo) che rappresenta in modo indifferenziato e tutt’altro che “neutro” uomini e donne, la porta ad occupare all’interno dell’ordine simbolico la medesima posizione dell’uomo al prezzo della sua alienazione. Di qui la domanda dell’isteria: “Sono un uomo o una donna?”
E’ una scissione, dunque, una sorta di schizofrenia - direbbe Irigaray - ciò con cui la donna deve fare i conti: se per quella parte di sé definita dal fallo, si trova, come “soggetto”, ad occupare nell’ordine simbolico la medesima posizione dell’uomo, per quell’altra parte, non definita dal fallo, che dovrebbe designarla come “soggetto femminile”, come donna, essa risulta totalmente estranea a tale ordine in ragione del fatto che non esiste “la falla”, non esiste un significante che definisca la donna.
Che cosa comporta per la donna questa doppia posizione di inclusione-esclusione nelle e dalla “Stanza” dell’Ordine simbolico maschile costruita dagli uomini? Quali sono gli effetti, sulla sua Vita e sulla sua Salute, di un’ appartenenza - come uomo - a questa “Stanza” e di una totale estraneità ad essa in quanto donna?
Non c’è di meglio, per scoprirlo, che lasciarci guidare da Virginia Woolf, dal suo linguaggio essenziale e profondo, scevro da quelle convulsioni linguistiche e da quegli inutili contorcimenti concettuali cui ricorrono gli psicanalisti:

Dietro di noi sta il sistema patriarcale, le pareti domestiche con il loro nulla, la loro immoralità, la loro ipocrisia, il loro servilismo. Dinnanzi a noi si apre il mondo della vita pubblica, con la sua possessività, la sua invidia, la sua aggressività, la sua avidità. L’uno ci tiene prigioniere come schiave nell’harem. L’altro ci obbliga come bruchi, a fare il girotondo attorno all’albero della proprietà privata. La nostra è la scelta fra due mali. L’uno peggiore dell’altro. Non faremo meglio a buttarci da questo ponte giù nel fiume, a rinunciare alla partita, a dichiarare che la nostra vita umana è un errore, e a farla finita?

Virginia lo sconsiglia, naturalmente, ma sappiamo che sarà proprio un fiume il luogo scelto per la sua fine. E, ancora:

Le stanze sono così diverse; sono tranquille o tempestose; aperte sul mare, o al contrario sul cortile di un carcere; c'è il bucato steso, oppure splendono di opali e sete; sono dure come il crine o soffici come le piume (...) basta entrare in una stanza qualunque di una qualunque strada perché ci salti agli occhi quella forza estremamente complessa della femminilità. Le donne sono state sedute in queste stanze per milioni di anni, cosicché ormai le pareti sono pervase della loro forza creativa, che infatti soverchia talmente le capacità dei mattoni e della malte, che per forza deve attaccarsi alle penne, agli affari, alla politica. Ma questa forza creativa è molto diversa da quella degli uomini. E dobbiamo dedurne che sarebbe un gran peccato se venisse ostacolata o sprecata (…). Sarebbe un gran peccato se le donne scrivessero come gli uomini, o vivessero come loro, o assumessero il loro aspetto, perché due sessi non bastano e considerando la vastità e la varietà del mondo come potremmo cavarcela con uno solo?

Sarebbe un gran peccato, sì, se questa” forza creativa” delle donne , “diversa da quella degli uomini”, “venisse ostacolata o sprecata”, come spesso accade quando viene svenduta agli uomini perché se ne servano (nei partiti, nei sindacati, nelle istituzioni psicanalitiche). Ma che fare per evitarlo? Come passare, senza lacerazioni, da una condizione di esclusione e di estraniamento dalla Stanza escludente degli uomini alla beata condizione femminile di beneficiarie di quella “forza creativa”, “supplementare”, guadagnata attraverso un’esclusione da detta Stanza - senza farsi male?
Niente di meno facile, avverte Virginia trattandosi, per la donna, di una scelta tra due mali, l’uno peggiore dell’altro. Potremmo essere costrette - aggiunge - a buttarci nel fiume, a rinunciare alla partita per la sola grande ragione che la nostra vita umana è “un errore”. Un “ grave errore” - ci ricorda Ina Praetorius in Penelope a Davos - che non è da ricercare chissà dove perché sta tutto dentro il nostro ordine simbolico omosessuale costruito da uomini a loro misura.
Tutto si può dire e scrivere pur di salvare una teoria che mostra ad ogni angolo le sue crepe, pur di conquistare credibilità e consenso presso le femministe: si può teorizzare l’uscita dall’Edipo, si può trasformare il rapporto rovinoso madre-figlia in un idillio, gratificando così quelle femministe donne che sulla Madre simbolica ci hanno costruito su una teoria.
E qual è il modo migliore per farlo se non quello di sottrarre la donna alla calamità di essere “interamente definita dal fallo” asserendo che “Non è dal padre (…) che le viene “un’indicazione su cosa significhi essere donna”? Giusto. Ma se è vero che non è dal padre che viene alle donne l’indicazione di come essere donne - così come è vero che non è dai Padri della psicanalisi che può venire l’indicazione alle donne psicanaliste di cosa significhi essere donne - possiamo aspettarci da donne formate alle scuole dei Padri la messa in giuoco di quelle risorse creative, di quelle capacità inventive femminili che esse vanno teorizzando?
Non sarebbe il caso, per queste donne, di abbandonare quelle scuole, di fondarne di nuove assumendo come riferimento teorico e pratico il pensiero di una psicanalista donna invece che quello di un uomo?
Che ne è stato in Italia del pensiero di Irigaray in quanto psicanalista? Che influenza ha avuto il “pensiero della Differenza” sulle psicanaliste? Esistono forse scuole ispirate a tale pensiero?
Ad averne raccolto, in parte, l’eredità, sono state le filosofe ma le filosofe non sono psicanaliste e ciò non solo non semplifica le cose quanto alle rispettive e diverse competenze disciplinari ma le complica e rischia persino di confonderle - come risulta da quanto sin dall’inizio evidenziato: Lacan e Irigaray sono incompatibili e le loro teorie non possono essere confuse o, quanto meno, sarebbe auspicabile che non lo fossero almeno da coloro che pretendono di essere portatrici, in Italia, del femminismo della Differenza.

18-06-2013

 

 

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