Isabella Adinolfi Etty Hillesum. La fortezza inespugnabile
Paola Zaretti


Presentazione all’interno del ciclo "Una stanza tutta per noi" organizzato da Oikos-bios Centro Filosofico di Psicanalisi di Genere antiviolenza. presso la Libreria Feltrinelli di Padova

Dobbiamo comunicarvi, purtroppo, con dispiacere, che Isabella Adinolfi, docente di Filosofia della storia e di Storia del pensiero etico-religioso all’Università Ca’ Foscari di Venezia non potrà, come previsto e per gravi ragioni familiari, presentare il suo libro dedicato a Etty Hillesum, una giovane donna ebrea di 27 anni, testimone della Shoah, morta ad Auschwitz e autrice di un Diario datato 1941-43 e di alcune Lettere.

Oltre al ringraziamento e all’apprezzamento che voglio rivolgere, comunque, sia pure in absentia, ad Adinolfi per il suo minuzioso lavoro dedicato alla figura di Etty Hillesum, vorrei dire qualcosa su alcuni aspetti particolari inerenti la mia formazione che mi hanno fatto riflettere nel corso della lettura del Diario di Etty e del testo di Adinolfi.

Un aspetto che tocca direttamente le mie corde e su cui da tempo sto cercando di promuovere una riflessione in tutti i luoghi, virtuali e non, da me frequentati, è l’accento posto da Adinolfi sull’aspetto Tragico che, al di là del contesto storico e della barbarie nazista che lo caratterizza, fa da sfondo al Diario e alle Lettere, un aspetto che statuisce e definisce, più in generale, la condizione femminile all’interno della relazione uomo-donna e che vediamo all’opera all’interno del rapporto amoroso fra Etty e Spier, esito finale incluso.

Si tratta di un aspetto generalmente trascurato che nelle pagine di Adinolfi balza in primo piano, soprattutto nella parte conclusiva del libro in cui si assiste, attraverso la lettura del Diario di Etty, a una sorta di superamento del Tragico in chiave mistico-religiosa, una soluzione che non va propriamente da sé non essendo generalizzabile. Non capita tutti i giorni, infatti, che una donna, combattuta e costretta a dover scegliere fra la passione per un uomo e l’amore per Dio, scelga Dio per il tramite di un uomo “impregnato d’eternità”. Sottolineo questo aspetto perché quando si scrive o si discorre di condizione femminile, di discriminazione di genere, di stupri e di morti violente inflitte alle donne, l’accento cade con insistenza sulla dimensione dell’oppressione e sulla schiavitù perpetrata dalla misoginia del patriarcato nei riguardi della metà del genere umano trascurando quasi completamente l’esperienza del Tragico che caratterizza il rapporto fra una donna e un uomo e che Adinolfi coglie con acume seguendone con dovizia di particolari, passo dopo passo, il processo di evoluzione e, da ultimo, l’esito finale del rapporto fra Etty e il suo amante, terapeuta e amico. Questo aspetto che caratterizza la relazione uomo-donna è ben sintetizzato nella formula di Lacan “Non c’è rapporto sessuale”.

Un secondo aspetto, collegato, che, per ragioni inerenti il mio lavoro e la mia formazione ha destato il mio interesse - e che va a complicare ulteriormente la già intricata storia d’amore fra Etty e Spier - è il fatto che la loro non è una storia qualunque, come tante, fra un uomo e una donna, ma è la storia d’amore fra una giovane donna e il suo terapeuta. Il che comporta qualche complicanza aggiuntiva sollevando, al tempo stesso, una serie di interrogativi sull’impostazione, sulle finalità e sull’etica di una cura, sui processi identificatori che in essa si verificano fra paziente e analista e, nei casi infelici ma tutt’altro che rari, sui possibili effetti suggestivi e manipolatori derivati da quel particolare dispositivo analitico che è il transfert con l’innegabile potere che lo caratterizza. Il Diario di Etty, insomma, da questo punto di vista, ci dà da pensare anche in merito a tutti quei dispositivi di cura del disagio che popolano attualmente il mercato: psicologia, psicoterapia, psicanalisi consulenze filosofiche e quant’altro.

Prima di dire qualcosa di più su questi due aspetti, vorrei brevemente ricordare solo alcuni dei pensieri che lasciano un’impronta profonda nel Diario e che Adinolfi riprende ed elabora a suo modo.

Uno di questi - che mi ha riportata, per via associativa, a Nietzsche e al suo concetto di dionisiaco - racconta dell’eccesso, della sovrabbondanza di vita che straripa, prepotente, dalle pagine del Diario, considerato dall’autrice, piuttosto che un “sintomo” da curare - come oggi si direbbe - un irrinunciabile valore aggiunto.

E’ vero che vivo intensamente, a volte mi sembra di vivere con un’intensità demoniaca ed estatica, ma ogni giorno mi rinnovo alla sorgente originaria, alla vita stessa, e di tanto in tanto mi riposo in una preghiera.

Contro la tradizionale e morigerata abitudine alla demonizzazione dell’eccesso, si pronuncia anche Maria Zambrano quando scrive che a far problema per certe creature non è l’eccedenza ma la mancanza di spazio abitativo per questo “di più”.

La tragedia di queste creature è in definitiva la mancanza di spazio interiore. Se guardiamo da vicino, la prima cosa che avvertiamo è il loro eccesso di pienezza, un mondo compresso affollato di cose: (…) speranze e nostalgie (...) orme e presentimenti di realtà senza nome (…). Che mancano di spazio non significa semplicemente che mancano di spazio fisico ma che mancano di spazio adeguato in un mondo che gli ha inculcato credenze che non consentono loro di accoglierle.

Un secondo pensiero che attraversa dall’inizio alla fine le pagine del Diario e a cui Adinolfi offre nel suo libro lo spazio e il peso che merita, riguarda la centralità assegnata da Etty alla funzione altamente formativa della psicologia e alla sua capacità di promuovere e incentivare un lavoro su di sé che, lungi dall’alimentare forme di individualismo esasperato, avrebbe piuttosto lo scopo di ridurre le pretese narcisistiche dell’io.

Questo io tanto ristretto, coi suoi desideri che cercano solo la loro limitata soddisfazione, questo io che limita gli “spazi cosmici” va strappato via, va spento.

Giova ricordare, a proposito di questa necessità di distruzione dell’io, qualche breve passo di Weil:

Il peccato in me dice io.

Non c'è assolutamente nessun altro atto libero che ci sia permesso, eccetto la distruzione dell'io.

Se poi Weil sia davvero riuscita in quest’opera di distruzione dell’io in nome di Dio, evitando la distruzione di se stessa, è una questione assai delicata che ho cercato di affrontare in altra sede e potremmo chiederci, in questa, - perché no? - se Etty Hillesum avrebbe potuto salvare se stessa da una fine terribile, se, in altre parole, avrebbe potuto fare qualcosa di più per contrastare un destino ormai prossimo del quale era peraltro lucidamente consapevole. Sappiamo, in effetti, - a dircelo è lei stessa - che le veniva rimproverato dagli amici di non fare abbastanza per sottrarsi al pericolo di morte incombente, ai quali lei rispondeva con pensieri di questo tenore riportati nel Diario:

Non sono mai le circostanze esteriori, è sempre il sentimento interiore - depressione, insicurezza o altro - che dà a queste circostanze un’apparenza triste o minacciosa (…). Di solito le diposizioni più minacciose - e ce ne sono parecchie, attualmente - vanno a schiantarsi contro la mia sicurezza e fiducia interiori, e una volte risolte dentro di me, perdono molto della loro carica paurosa.

L’assenza, quasi incredibile, di quell’ umana paura, così indispensabile alla difesa della nostra sopravvivenza, trova nel pensiero di Hillesum e nella sua ferma convinzione che “tutte le catastrofi procedono da noi stessi” - la propria giustificata ragion d’essere.

(…) tanti comportamenti non hanno per me nulla di spaventoso, perché continuo a vedere che si originano negli uomini, in ogni singolo individuo, in me stessa, il che rende tutto comprensibile, e le condotte non si trasformano mai in mostruosità incomprensibili, che non hanno più a che fare con gli uomini.

Etty, insomma, come Arendt, e fatte salve le differenze sottolineate da Adinolfi, che la separano dalla grande teorica della politica e della “banalità del male”, non crede in una malvagità assoluta e demoniaca dell’oppressore nazista perché il male, nella sua banalità - il nemico - è dentro ciascuno di noi e va riconosciuto piuttosto che essere rimosso e proiettato sull’altro, fuori di noi, come spesso facciamo. Quasi a dire che la differenza fra carnefice e vittima, pur riconosciuta, appare a volte così sfumata, da risultare in alcuni passaggi pressoché inesistente: se il male che abita l’altro non mi è estraneo, se da questo male non ho il diritto di dichiararmi immune, non ho neppure il diritto di demonizzare un nemico proiettando su di lui e dunque fuori di me il male che mi abita:

Il marciume che c’è negli altri c’è anche in noi (…) e non vedo nessun’altra soluzione (…) che quella di raccoglierci in noi stessi e strappare il marciume. Non credo che si possa migliorare qualcosa del mondo esterno senza aver prima fatto la nostra parte dentro di noi. E’ l’unica lezione di questa guerra: dobbiamo cercare in noi stessi, non altrove.

Ciò non significa, tuttavia, come Adinolfi rileva nel suo libro, che per Etty non esista alcuna distinzione fra vittima e carnefice ma significa che questa differenza non può essere data come assoluta.

Il percorso di Etty verso il raggiungimento di questa fiducia e sicurezza interiore che la porta a tollerare l’intollerabile, la guerra, l’idea della morte e a non attribuire mai al malvagio le fattezze del mostro, si realizza grazie alla presenza di Julius Spier, fondatore della psicochirologia (studio delle linee della mano), che aveva fatto un training analitico con Carl Gustav Jung, un uomo dalla “personalità magica” attraverso il quale Etty matura una sensibilità religiosa che la porterà a un dialogo, molto personale e sempre più fitto - non dettato da Chiese, sinagoghe, dogmi, liturgie o tradizioni - con il divino. Dopo solo tre o quattro sedute con il suo terapeuta, Etty diventa assistente amante e compagna intellettuale di Spier con cui condivide molte letture: Freud, Jung, Dostoeveskij, Kierkegaard, Agostino, Rilke.

Spier, “l’intermediario” fra lei e Dio, è un uomo “impregnato d’eternità” - così lei lo definisce - e non è irrilevante notare, a proposito dei processi identificatori cui accennavo, come, più tardi, queste stesse identiche parole saranno utilizzate per definire se stessa. Ed è questo orizzonte di eternità ad essere evocato quando Etty, dopo la morte di lui, scrive:

Continuerò a vivere con quella parte dell’uomo morto che vive in eterno e risveglierò alla vita ciò ch’è morto nei vivi e così non ci sarà nient’altro che vita, un’unica grande vita, mio Dio.

Risvegliare alla vita ciò che nei vivi è morto attraverso la parte di un uomo morto che continua a vivere in lei e attraverso di lei…Davvero splendido questo passaggio del Diario che oltre a ricordarci come si possa morire da vivi e vivere da morti, come vita e morte, insomma, siano indissolubilmente legate, ci regala forse la più bella definizione di un amore oltre l’oggetto, al di là dell’oggetto.

Il rapporto di Etty con Spier è, però, sin dall’inizio, tutt’altro che semplice, è un rapporto certamente ambivalente giacché in lui si condensa “tutto il bene e tutto il male del mondo”. Sono molti i passaggi del Diario che testimoniano di questa ambivalenza:

continuavo a sentirlo estraneo malgrado l’intimità che c’era allora fra noi

non sono affatto innamorata di lui e non gli voglio neppure bene. Come persona mi interessa parecchio, a volte mi affascina, mi insegna infinite cose”.

La relazione con Spier è a dir poco lacerante per la presenza in Etty di due desideri inconciliabili: il desiderio di crescere intellettualmente, spiritualmente e di dedicarsi completamente alla scrittura - la sua grande passione - e il desiderio di essere oggetto del desiderio di un uomo:

Eh, sì, noi donne, noi stupide, idiote, illogiche donne, noi cerchiamo il Paradiso e l’Assoluto. E col mio cervello, col mio eccellente cervello, io so bene che l’assoluto non esiste (…). Io voglio che lui mi dica: tesoro, tu sei l’unica per me e ti amerò in eterno (…). E il buffo è che non lo voglio affatto (…) però pretendo il contrario da lui.

Non è proprio così semplice questa questione femminile (…) vorrei essere solo bella e stupida, l’emancipazione femminile deve ancora cominciare. Non siamo ancora diventate vere persone, siamo donnicciole…dobbiamo ancora nascere come persone, la donna ha questo grande compito davanti a sé.

Etty non vuole perdere se stessa e non vuole perdere l’uomo che ama e sta qui, proprio qui, in questa scelta impossibile -“o me o lui” - la nota tragica che esprime la sua particolare difficoltà a vivere come donna una condizione che molte donne potrebbero condividere. La dipendenza da Spier è per lei fonte d’oppressione, continuamente combattuta com’è fra un amore d’elezione e un amore universale per Dio e per l’umanità. Il suo rifiuto di legarsi a Spier con un matrimonio bianco e la scelta di partire per il campo Westerbork - l’anticamera di Auschwitz - come volontaria, è l’esito maturo di questa incompatibilità vissuta fra l’amore per un oggetto e l’amore per il prossimo che Etty definisce “un ardore elementare che alimenta la vita”. Una scelta, la sua, di cui si sente debitrice a Spier, all’“ostetrico” della sua anima che ha sbrogliato quel “gomitolo aggrovigliato” in cui la sua psiche si trovava annodata e imprigionata dando ora a lei che aveva “imparato a leggere in se stessa”, la possibilità “di poter leggere negli altri come se le persone fossero “case con le porta aperte”. In altre parole, Etty si troverà a promuovere negli altri, il lavoro interiore che Spier aveva fatto con lei passando così, potremmo dire, dalla posizione di psicoanalizzante alla posizione di psicanalista.

Eppure c’è - nella storia tra Etty e il suo terapeuta, questo amante e amico che finisce per fare da intermediario fra lei e Dio - qualcosa d’inquietante per chi, come me, sostiene con grande convinzione lo statuto laico della psicanalisi e vede nel rischio, sempre in agguato, di una sua possibile trasformazione in una nuova religione, uno dei più grandi pericoli.

Ma chi è il Dio di cui ci parla Etty? Il Dio per arrivare al quale un uomo fa da tramite, il Dio una volta raggiunto il quale, il suo percorso personale, interiore, terapeutico si conclude?

Non è altri, secondo Etty, che “la parte più profonda e più ricca” di lei “che ascolta la parte più essenziale e profonda dell’altro. Dio a Dio”, scrive. E’ la parte in cui “riposa, è quella “sorgente” che lei a volte riesce a raggiungere ma che “più sovente è coperta da pietre e sabbia” e, quando questo succede, allora “Dio è sepolto” e “bisogna dissotterrarlo di nuovo”.

Ebbene la metafora dello scavo, del disseppelimento e dello svelamento, del venire alla luce di qualcosa di nascosto, di una verità insaputa - nel suo inequivocabile rimando al concetto di inconscio così come siamo solitamente ma erroneamente abituati a pensarlo - ci autorizza a chiederci se l’inconscio sia per Etty e per il suo Maestro uno dei Nomi di Dio o se sia invece plausibile ipotizzare, come suggeriva Lacan, che Dio sia inconscio. Una domanda legittima dal momento che Spier era allievo di Jung e che Jung nel Libro rosso allude chiaramente a un Dio assai personale, a un Dio un po’ speciale, riflesso di contenuti inconsci maturati negli anni di sperimentazione su di sé:

Devo liberare da Dio il mio sé, poiché il Dio che ho conosciuto è più che amore, è anche odio, è più che bellezza, è anche ripugnanza; è più che sapienza, è anche assurdità; più che forza, è anche impotenza; più che onnipresenza, è anche la mia creatura.

E ancora:

L’inconscio non è soltanto male, ma è anche la sorgente del bene più alto, non è solo buio ma anche luce, non solo bestiale, semi-umano, demoniaco, ma sovrumano, spirituale e, nel senso classico “divino”.

L’inconscio - che, non dimentichiamolo, non ha statuto d’esistenza - avrebbe dunque a che fare, per Jung, con il divino. Jung non era un uomo di fede, non credeva all’esistenza di Dio in forza di una fede ma in forza di qualcosa dell’ordine di un sapere: “Io so” dice “che Dio esiste” e lo so “per esperienza” e “credo soltanto in ciò che so”. Questo passaggio ricorda molto da vicino una frase di Weil in cui dice che noi dobbiamo credere nel pane e nella sua esistenza solo dopo averlo mangiato mentre non c’è alcuna utilità nel credervi, fideisticamente, prima di averlo fatto. “L’essenziale è sapere che si ha fame” - scrive - “e questa non è una credenza ma una conoscenza assolutamente certa”. Credere e sapere, insomma sono dunque per Jung, come per Weil, due categorie distinte.

Sono molti i teologi cristiani che si sono interrogati sul pensiero di Jung per venire a capo di una questione basilare, per capire se nella sue teoria esiste una distinzione fra l’uomo e Dio non solo per via della nozione piuttosto ambigua e neoplatonica di archetipo, ma anche per l’irriducibilità di una rivelazione storica al soggetto e alla sua psiche.

Insomma, da laica, mi sono chiesta se fra la scelta dell’uomo come oggetto d’amore e la scelta di un Dio-inconscio esista nella relazione fra un uomo e una donna, una terza possibilità che risolva questo aut-aut che emerge nel Diario di Hillesum e che conosciamo anche nella storia personale di Kierkegaard che alla fine, abbandonerà Regina, la donna amata.

Devo dire, con molta franchezza, che nei riguardi delle “conversioni” e della mistica nutro qualche diffidenza fondata non già su un pregiudizio, ma da un’esperienza di lavoro che mi ha messa in contatto con persone che hanno descritto esperienze interiori molto forti, prossime a quella divina follia, alla manias, di cui parla Platone che non si discostano in nulla da quelle, assai simili, riferite dai mistici. E’ una diffidenza che credo di potermi concedere, forte delle parole di Simone Weil che proprio per aver fatto esperienza di un percorso interiore assai simile a quello di Etty scrive:

Si dice che i folli (quelli di un certo tipo) siano logici all’eccesso: Per un motivo analogo devono esserlo anche i mistici autentici.

Il criterio delle cose che vengono da Dio è che esse presentano tutti i caratteri della follia, eccetto la perdita dell’attitudine a discernere la verità e ad amare la giustizia.

Voglio infine ricordare, senza alcuna intento moralistico nel farvi cenno, che la conversione di Etty è la conversione di una donna che aveva avuto una vita ricca di molte esperienze con diversi uomini e che accortasi di essere incinta e decisa ad abortire scrive:

Mi sembra di salvar la vita a un essere umano. No, è ridicolo che io salvi la vita di una persona mentre cerco di eliminarla con tutte le mie forze. Voglio risparmiarle il dolore di percorrere questa valle di lacrime. Rimarrai nella condizione protetta di chi non è ancora nato, e sii riconoscente, essere in divenire. Provo quasi tenerezza per te. Ti attaccherò con acqua calda e con orribili strumenti, ti combatterò con pazienza e costanza fintanto che non ti sarai di nuovo dissolto nel nulla, e allora sentirò di aver compiuto un’azione buona e responsabile. Non ti posso certo trasmettere forze sufficienti (…). Ho assistito poco tempo fa alla scena di Misha, che in uno stato di totale confusione era stato portato a forza in una casa di cura, ho giurato allora che dal mio grembo non nascerà mai un essere altrettanto infelice. Purché non duri troppo a lungo. Altrimenti mi verrà un’angoscia terribile. E’ passata solo una settimana e già sono stanca e stufa di tutti quei provvedimenti. Ma ti sbarrerò l’ingresso a questa vita, e non dovrai lamentartene.

Spero, con questo passaggio, di non avere alimentato l’idea di un giudizio moralistico su una figura di donna che reputo straordinaria per il coraggio di scrivere ciò che ha scritto e con cui ha affrontato a soli 28 anni la sua fine. Ma credo sia giusto e doveroso, nel presentare una storia come quella vissuta da Etty evitare cancellazioni e rimozioni, oscuramenti e santificazioni idolatriche che non rendono giustizia al vero e che vanno piuttosto di moda nei riguardi di certe figure femminili citate spesso solo per sentito dire. Etty, per dirla con le parole del suo maestro, non era una donna rassegnata a una “attività passiva” ma decisa a Vivere una “passività attiva” - quella che Weil chiama “azione non agente” - era una donna che scriveva:

Dovrei impugnare questa sottile penna stilografica come se fosse un martello e le mie parole dovrebbero essere come tante martellate

E Rilke, amatissimo da lei, aveva scritto a sua volta a Lou Salomé:

Ma proprio per questo ho disperatamente bisogno di trovare lo strumento della mia arte, il martello, il mio martello.

E si magna licet componere parva, chiudo con il martello perché è dall’86, che ho cominciato a fare con la psicanalisi ciò che Nietzsche e molte donne dopo di lui hanno fatto con la filosofia.


Isabella Adinolfi, Etty Hillesum. La fortezza inespugnabile
Il nuovo Melangolo, 2011, € 16

20-02-2012

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