Il male radicale
di Paola Zaretti

Presentazione del Seminario Divani e poltrone


Se ci sarà un futuro sarà solo in base a quello che le donne sapranno fare” Rita Levi Montalcini

 “Io non ho bisogno di denaro. Ho bisogno di sentimenti, di parole scelte sapientemente, di fiori detti pensieri, di rose dette presenze, di sogni che abitino gli alberi, di canzoni che facciano danzare le statue, di stelle che mormorino all’orecchio degli amanti. Ho bisogno di poesia, questa magia che brucia la pesantezza delle parole, che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.” (Alda Merini)

Voglio dure subito, in apertura, che mai prima d’ora un’iniziativa organizzata da Oikos-bios ha incontrato tante difficoltà come questo Seminario: avversità e fuochi di sbarramento da un lato, imperversare della burocrazia dall’altro.
Se i primi fuochi si sono accesi all’insegna del rifiuto di Provincia e Regione di dare il patrocinio - normalmente concesso - e negato sulla base di motivazioni false e pretestuose, la burocrazia non ha facilitato, dal canto suo, la realizzazione di un percorso meditato con cura dalle organizzatrici.
Mi corre dunque l’obbligo di avvertire le persone presenti che il secondo ciclo di incontri previsti per Gennaio non si svolgerà al S.Gaetano ma in questa sede e che dei tre eventi previsti fra un incontro e l’altro che avrebbero dovuto svolgersi nell’Agorà del S. Gaetano, solo l’evento conclusivo del 20 Febbraio - lo spettacolo su Frida Khalo a cura di Sandra Cattaneo e Cosimo Gallotta - proseguirà presso il Centro Culturale, mentre gli eventi curati da Giancarlo Bellano Flamenco L’arte di vivere la relazione e di Laura Bettini Il corpo vivente si svolgeranno qui. Inoltre, la Mostra di Maria Micozzi è stata spostata al 10 Marzo ed è per questo che noi abbiamo voluto comunque, a farci compagnia, alcune sue opere, fra cui quella che ci  ha ispirato per la nostra locandina.
Inutile dire che nel lavoro di costruzione di questo Seminario, lo spazio dell’Agorà avrebbe dovuto svolgere una funzione simbolica essenziale essendo l’Agorà, nella Grecia arcaica, la Piazza principale della polis, il luogo della democrazia diretta in cui si svolgevano sia le assemblee dei cittadini ivi riuniti per discutere i problemi della comunità, sia dei luoghi di intrattenimento, di teatri, di giochi di feste e di culto.
Ma tant’è. Le cose sono andate diversamente da come avremmo desiderato e anche se oggi l’invito alla pacatezza è l’ultimo tormentone predicato da coloro che hanno bombe d’odio nel cuore e un’ inconfessabile-malcelata voglia di far fuori l’altro, non raccoglierò questo invito nel dire, per esempio, che mi sarebbe piaciuto credere che chi ha proposto di chiamare Agorà la Piazza costruita all’interno del S. Gaetano, lo avesse fatto con la cura, la scienza e la sapienza del peso di questa parola piuttosto che per un impulso modaiolo. E non occorre certo essere psicanalisti o filosofi o altro, per sapere che quando non c’è più corrispondenza fra le parole e le cose che queste designano, il pericolo è grande. Ed è per via di questa scissione schizofrenica che noi, senza batter ciglio, possiamo chiamare pace la guerra e mascherare la disperazione con la vendita all’incanto dell’ottimismo.
Ma c’è da dire, a nostro carico, che noi non siamo del tutto esenti da responsabilità nell’aver urtato un nervo scoperto proponendo un titolo in cui una massiccia presenza di donne pensanti, si sposa con un’esplicita allusione alla “sconfitta del pensiero androcentrico”. Non è stata ingenuità, la nostra, abbiamo voluto prendere alla lettera e credere, vero su vero e senza pregiudizi, alle iniziative di alcune istituzioni - Regione e provincia in particolare - che non fanno che parlare di donne, di violenza contro le donne, proprio di quelle donne per lo più escluse dalla rappresentanza nei luoghi in cui si decide.  Abbiamo voluto sottoporre alla prova del vero, la serietà e la credibilità di queste iniziative istituzionali per mettere a nudo quel legame fra politica e menzogna cui Hannah Arendt, una della nostre donne eccellenti, ha dedicato un bellissimo saggio intitolato, per l’appunto,
Politica e menzogna.

Ebbene, detto questo, fare la cosa più ovvia, partire dal titolo, Divani… e poltrone. Psicanalisi, Politica, Filosofia al femminile. Voci di donne eccellenti negli affari umani,  resta, forse, ancora un buon modo provare a orientarsi all’interno del percorso di questo seminario dall’andamento conviviale un po’ a zig-zag.
Possano dunque il titolo e questo suggestivo riferimento alla polis e all’Agorà servire da orientamento, per comprendere subito che di Politica e di Poteri, di Violenza e di Saperi, di Totalitarismi e democrazie in declino discorreremo.
E di altro ancora: di pulsioni di vita e di morte e di etica, di nomadismo filosofico e globalizzazione, di omosessualità femminile e di metafisica, di Dio e della morte di Dio.
Quanto a noi, alieni/e come siamo tanto dalle seduzioni modaiole quanto da intenzioni anacronistiche di riproporre nell’attuale antichissime esperienze storiche, limitate e quanto mai complesse, come quelle proprie della polis - “un caso fortunato”, secondo Arendt, nella storia del politico (H. Arendt, Che cos’è la politica? p. 24), ci accontenteremo di vivere l’Agorà in questa sedecome un’occasione, un  luogo di confluenza e di raccolta di parole, di discorsi fra i/le partecipanti sui temi inerenti il seminario ma anche come un’opportunità, per ciascuno, di proporre all’attenzione di tutti  gli argomenti che più gli stanno a cuore.
A muoverci e a farci muovere e, chissà, magari anche a disorientarci senza perderci in mezzo a tanto e senza perdere di vista l’essenziale, è, fra le molte cose, l’indignazione.
Così, amenamente discorrendo ebbe a dire, un giorno, il nostro amico Giancarlo, qui presente, con un’espressione potente nella sua semplicità.
L’indignazione - aggiungerei - per la perduta capacità di indignarci. Anche se capita,  fortunatamente, di rinvenirne, ancora, qua e là, le tracce: 

Il silenzio che inghiotte ogni sasso lanciato nello stagno in questa surreale estate che ha il tanfo di una mefitica palude. In Italia succede di tutto, ma nulla cambia… Il rischio è che una folla spersonalizzata e anonima segua ciecamente le note di un’ irresistibile musica suonata da  pifferai che la condurranno, come nell’antica fiaba, a precipitare nell’abisso del nulla. Il nulla inteso come definitiva rassegnazione a un mondo costruito sul dominio oligarchico di alcuni centri di potere, decisi a restringere sempre di più persino la sfera di quei diritti che si credevano definitivamente conquistati nel novecento. Un mondo di persone rassegnate a non poter influire sull’andamento delle cose o, quantomeno di illudersi soltanto di farlo. (F. Lipparini Il cammino dei pensieri perduti).

E’ nato così, sull’onda di queste parole, il mio invito a Floriana Lipparini, giornalista e scrittrice a essere con noi, è nato in seguito alla lettura di un suo articolo pubblicato in estate ne Il Paese delle donne, in cui ad attraversare il testo, dall’inizio alla fine, è la lucida coscienza dell’autrice sullo stato attuale delle cose fra cui si muove, inquieta, alla ricerca di interlocutrici e delle poche strade di salvezza rimaste: la creazione di uno spazio pubblico non istituzionale e non privato - in cui, conformemente alla linea di pensiero di Hannah Arendt, da Lipparini giustamente ricordata. - sia possibile porre le basi per un dibattito critico.
Ebbene, credo sia proprio questo “silenzio che inghiotte ogni sasso lanciato nello stagno”, questa apatia diffusa e incombente, la vera malattia di cui i moderni curatori d’anime dovrebbero occuparsi se non avessero loro stessi imparato, per un malinteso senso della formazione, a fare della neutralità, ovvero del diniego difensivo di ogni passione, lo strumento sgangherato di una cura.
A dar conto in modo non meno doloroso di questa indignazione - per un “chiasso confusivo”, questa volta, che non è altro che l’altra faccia del silenzio stagnante e catatonico che inghiotte, - è l’urlo di Maria Micozzi che molti di voi già conoscono e che sarà, come sempre, con noi:
Ho aperto il blog per non implodere, per difendermi dalla massa di polvere senza forma che fa sostanzialmente da contesto, cerco di scappare dal rischio di trovarmi catatonica e bloccata dal chiasso di stimoli confusivi, assolutamente e appositamente privi di informazione: ansiogeni.  Se qualcuno/qualcuna non ne può più di concetti ridotti a una pellicola di plastica, con il senso finito a luogo comune…se non ne può più di pseudo teorie chiuse in uno slogan o ritagliate in una figura retorica, della logica ridotta a cortigiana dei deliri di onnipotenza, se, in poche parole, si rifiuta di riempire il cervello di ovatta ed è disposto a pagarne il prezzo, insomma se non può fare a meno di sentirsi urlo, allora sarebbe il caso di trovarci, insieme, per darci una mano… (Maria Micozzi, blog)

E… per discorrere appassionatamente, come cercheremo di fare, sintonizzandoci con il pensiero di queste e altre donne eccellenti da noi scelte, non a caso, per l’occasione. Lo faremo - come ben si può comprendere dalla sterminata mole bibliografica sottintesa dal programma, dalla complessità e ricchezza del pensiero di queste donne e, ancora, dai diversi campi epistemici convocati, Filosofia, Psicanalisi e Politica e dalle loro intime connessioni - compatibilmente con i tempi e gli spazi previsti,   privilegiando l’inserto, la citazione, come fonte di trasmissione diretta del loro pensiero.
Lo faremo senza alcuna pretesa di esaustività, limitando i nostri contributi alla considerazione di alcuni aspetti della produzione teorica di queste figure femminili paradigmatiche - mossi e mosse, più che da intenti filologici e storiografici, dalla nostra empatia e dal nostro interesse nel mettere a fuoco un tratto particolare della loro teoria, esperienza e/o personalità che più ci cattura, lasciandoci guidare, nella scelta, dalle nostre singolari differenze e competenze formative, esperienziali e, considerata la presenza in questo seminario di persone appartenenti a due differenti generazioni, generazionali.
Consapevoli dunque dei limiti del nostro lavoro, sarà demandato a un Gruppo di Studio e di Ricerca già attivo all’interno della nostra Associazione, il compito di approfondire le tematiche affrontate con coloro che ne faranno  richiesta. 
La sola cosa che vorremmo evitare, considerata l’elevata temperatura degli argomenti e la direzione del percorso per nulla estraneo, evidentemente, all’ambito di quelle tematiche oramai ritualmente definite “questioni di genere”, è la noia.
Dovrebbe bastare, a risparmiarcela, la varietà dei temi suggeriti dal programma, lontano dallo stile rampante-replicante che sta generalmente caratterizzando le iniziative centrate sulle tematiche di genere e sulla violenza contro le donne e che già incombe, qui come altrove, con il rischio di azzerare - attraverso una visione spesso  propagandistico-istituzionale del problema - quel valore irriducibile e quel significato in sé culturalmente e socialmente rivoluzionario che tali tematiche pure conservano.
Considerato inoltre il criterio di scelta delle figure femminili al cui pensiero siamo interessate e a cui vogliamo dar voce - un criterio non uniforme per via delle loro differenti posizioni non omologabili e liquidabili con la facile etichetta di “femministe”, come forse piacerebbe allo scopo di meglio screditarle, - penso all’eloquente distinguo: “non fui femminista, fui femminile, non cedettii” di Maria Zambrano, penso alla scrittura rigorosamente neutra di Arendt - risulterà altresì chiara la distanza di Oikos-bios da certe forme appassite di revival rivendicativo anni ’70, votato oggi all’insuccesso, per vivere, come suggeriva Arendt, il presente.
Che vuol dire, per le donne - quale che sia la generazione di appartenenza - aver maturato la coscienza che l’identità uomo-nemico ha esaurito il suo tempo e che ogni sforzo residuo in questa direzione non fa che sottrarre energie all’effettivo affrancamento da un nemico ingombrante - la cui presenza - reale o fantasmatica poco importa - impedisce di affrontare, con mente libera, quel nodo cruciale rimosso che infesta il rapporto della donna con l’ altra donna impedendo quella svolta soggettiva e trasformativa il cui anelito condanna le donne a una condizione di risentimento e di frustrazione permanente.
Essere unite contro… non è né può essere una modalità di relazione femminile all’altezza di un pensiero e di un modo di sentire femminili e di quella nuova politica delle donne - di cui molto si parla - che da tale modo di sentire e da tale pensiero può nascere, paralizzati come sono, entrambi, dall’incapacità di misurarsi con il mito trapassato di un solidarietà e di un’unità femminili improbabili e con la rimozione delle ragioni delle difficoltà profonde esistenti, di fatto, nei rapporti fra donne.
Non mi sono scostata dal tema perché di questo, anche di questo, ossia di un tratto comune alle donne che sembra condannarle a un’impossibilità strutturale a costituirsi come insieme destinandole - come diceva Lacan - all’ “una per una”, avremo modo di pronunciarci.
Lo faremo tenendo conto, al riguardo, oltre che dell’originale contributo teorico formulato da Irigaray sul rapporto madre-figlia e sulla revisione dell’Edipo, anche dell’autorevolissima opinione di Rossana Rossanda, una delle donne eccellenti citate in programma suggerendo, al tempo stesso,  le condizioni per una via d’uscita a nostro avviso praticabile: l’elaborazione di un solido patto di coesistenza fra unità e differenza, fra Uno e Diverso, su cui il pensiero maschile occidentale, malgrado i suoi reiterati sforzi, è fallito.
A proposito delle presenze generazionali differenziate, contemplate nell’articolazione degli interventi che prevede, oltre ai contributi di relatrici e relatori della mia generazione - che ringrazio per aver accettato l’invito - gli interventi di alcune giovani donne che operano come psicologhe e psicoterapeute all’interno di Oikos-bios, colgo questa occasione per ringraziarle pubblicamente, sia per aver accettato l’impegno di esserci e di contribuire attivamente a questo evento, sia per il coraggio mostrato a suo tempo nel fondare assieme a me questa Associazione.

Ebbene, fedeli alla tradizione delle iniziative organizzate da Oikos-bios in questi anni sulle tematiche di genere, non ci resta, allora, che lasciarci guidare dal pensiero di alcune delle donne eccellenti menzionate nella locandina, Arendt. Braidotti, Irigaray, Butler, Zambrano, Weil, Rossanda, dando voce a queste  filosofe, teoriche della politica e psicanaliste non di professione, come loro stesse si autodefiniscono, ciascuna delle quali, a suo modo e forte del proprio inconfondibile stile di vita e di percorso, ha messo radicalmente in atto un vero e proprio démontage dell’intero impianto di pensiero filosofico e politico antropocentrico e androcentrico coltivato dalla cultura dell’Occidente: dalla logica formale con le sue operazioni “infernali”, al Logos astratto senza vita, al sapere disincarnato dal corpo, mostrandone i limiti e gli effetti letali, quegli effetti che “noi (che) ci ritroviamo in questo tutti insieme” - come non cessa di ricordarci Braidotti in Trasposizioni - stiamo raccogliendo in eredità ad ogni livello della nostra esistenza, ambiente compreso, e per i quali è urgente approntare quell’”etica della cura” su cui l’ecofemminismo ha posto da tempo l’accento. (Braidotti, Trasposizioni, p. 139)
Il riferimento critico alla filosofia, in particolare alla funzione di “camicia di forza” della Logica evocata nel titolo e alle sue operazioni “infernali” - così Zambrano le definiva, così Arendt ne dà conto là dove, analizzando con estremo rigore gli esiti dell’ideologia evoca l’Inferno di Auschwitz (Forti, p.XLII9) - valga come richiamo anticipato all’orizzonte di genere  su cui vorrei muovermi ritornando, con maggior forza e convinzione, e con l’’apporto dei preziosi contributi di queste donne, sulla tesi di una vocazione suicida del patriarcato, sulla cultura di morte da esso veicolata, per affermare l’esistenza di una radicale differenza fra uomo e donna nel loro rispettivo modo di rapportarsi alla Vita e alla Morte. Come si rapporta l’uomo alla morte? Come la donna?? E’ possibile individuare, all’interno di questa modalità, una differenza in relazione al genere? E in che misura a segnare questa differenza sono, rispettivamente, il rifiuto o l’accettazione della propria finitudine, della propria condizione mortale?
Ebbene, credo che uno sguardo attento al pensiero di queste donne eccellenti il cui impatto critico con la tradizione filosofica e politica è davvero essenziale per poter comprendere ciò che è accaduto nella storia dell’Occidente, rappresenti la migliore risposta a questa domanda.. “Occorre” -  scrive Buttarelli  riferendosi a L’uomo e il divino, uno dei testi forse più importanti di Zambrano  - “un punto di vista e un punto di lettura fuori dalla lunghissima tradizione che dice e disdice su ciò che è accaduto” (Buttarelli, Una filosofa innamorata, p.143). Un punto di vista, per Zambrano “amoroso e pietoso”.
Modificare dunque l’assioma di un Soggetto unico e unigenere di questa tradizione di pensiero, lavorare alla costruzione e alla diffusione di una nuovo modo di pensare la Vita e le umane relazioni, guardandosi bene dal cadere nella trappola di una visione vitalistica decadente e dai suoi noti legami storici con la filosofia organicista del fascismo europeo, per intenderla come apertura ai campi del molteplice e del divenire (Cfr. Braidotti, Trasposizioni, p. 210-211)  in un momento in cui tutto sembra scivolare verso una catena di morti senza fine - fine della storia, fine delle ideologie, fine della metafisica, fine della coppia, fine delle emozioni, fine della speranza di incidere su alcunché - ebbene contrastare questo nichilismo passivo, esige una certa dose di coraggio, il solo antidoto forse, che possa oggi funzionare da anticorpo contro una normalità tanto più asservita, pericolosa e sospetta quanto meno se ne riconosce il risvolto patogeno.
Mi chiedo, sempre più spesso, se ci siano e quali siano, in questa apathia  cui ci siamo consacrati che congela e narcotizza le nostre migliori energie, le responsabilità della medicina della psichiatria, della farmacologia, della psicologia e anche di certa psicanalisi e - quale che sia la risposta a questo interrogativo - certo è che a scuoterci dall’ignavia,  può essere soltanto la dinamite, la dynamis - cosi Greci chiamavano la potenza - della passione, qualcosa, insomma, che abbia a che fare con l’eccesso con quel “di più” tutto  femminile cui allude Zambrano:
La donna ha di più, è più vicina alla natura e per questo appare meno forzata nella creazione all’inseguimento e alla cattura di ciò che le manca.(…).La sua vita è meno dolorosa e non cade mai nella solitudine terribile, la solitudine metafisica dell’uomo da cui nasce la filosofia. (M. Zambrano, All’ombra del dio sconosciuto. Antigone, Eloisa, Diotima, a. c. di Elena Laurenzi, Nuova Pratiche Editrice, Milano, 1977, p. 67 corsivo mio)
Si tratta di quel “di più” di vita, di passione civile, di desiderio e di gioia che mitologia e letteratura, psicanalisi e religione, sono propensi - sia pure più nel male che nel bene - a riconoscere all’essere della donna in misura sensibilmente maggiore rispetto all’uomo e che le parole, i pensieri e i corpi di queste donne hanno saputo trasmettere per non aver rinunciato alla loro parte di eu-daimonia, di felicità: insomma, per dirla tutta,alla loro parte positivamente demoniaca.
A fronte di un’ideologia della narrazione di una supposta “mancanza” attribuita alle donne, diffusa ad opera del pensiero fallocratico ossessionato dal terrore di questo “di più” che caratterizza il femminile, Zambrano rivendica eccesso e passività quali valori femminili primari.
E vediamolo all’opera, allora, questo eccesso, a cominciare da un tratto comune a queste donne, ossia dal loro eccedere - dal loro ex cadere, letteralmente: cadere fuori dalle istituzioni, a cominciare dunque dalla loro posizione tutta femminile del “dentro e fuori”, potrei dire con una formula a me cara che è il marchio distintivo della nostra Associazione, di un Oikos-bios, una Casa-Vita che si propone come  “una Casa per tutti e per nessuno”.
Così e non altrimenti, mi sembra di poter definire topologicamente la travagliata posizione di queste figure femminili in rapporto alle istituzioni accademiche tradizionali e alla loro ortodossia, all’interno delle quali hanno comunque temporaneamente operato.
Temo di dover protestare - dice Hannah Arendt al giornalista Gunter Gaus durante corso di una conversazione-intervista trasmessa nell’ottobre del 1964 dalla televisione della Repubblica federale tedesca.
Io non appartengo alla cerchia dei filosofi. La mia professione, se si può considerarla tale, è la teoria politica. Non mi sento affatto una filosofa e non credo di essere stata accolta nella cerchia dei filosofi…(Hannah Arendt, Antologia, p. 1)

Dichiarazione che, si badi bene - enunciata da una donna per la quale lo studio della filosofia si era presentato, sin dall’età di quattordici anni, come una questione di vita o di morte e che, malgrado avesse dichiarato la sua estraneità alla filosofia pura, aveva portato a termine poco prima di morire, parte della sua più importante opera teorica La vita della mente - ci mette sulla via per intendere la forza di questa antica passione ma anche l’insistere di un dolore, mitigato solo dall’orgoglio di chi rifiuta di essere parte di una cerchia dalla quale si sente oltremodo distante.
(…) Per me le cose stavano più o meno in questi termini: o studiare filosofia o farla finita, per così dire: Non perché non amassi la vita! Al contrario! Come ho detto in precedenza avevo questo bisogno di comprendere…(Ibid., p. 9).
Comprendere per Hanna è davvero essenziale per fare di un luogo una casa tutte le volte che gli altri comprendono nello stesso senso in cui lei ha compreso.(Cfr., Antologia 3). Ciò che vuole comprendere è “la corrente sotterranea della storia occidentale”, è la genesi del totalitarismo e la struttura dei regimi totalitari - nazista e comunista - sia pure con i necessari distinguo.
Ciò su cui indaga senza sosta fino alla fine della sua vita, sono le eventuali responsabilità della tradizione filosofica sugli esiti disastrosi della politica, ciò che si domanda è se questa tradizione contenga “degli elementi che alla fine si cristallizzano nel totalitarismo” (A. Le origini ..XXXV Simona Forte).
Elemento fondante - e terribile -  di questa tradizione, è l’Uno della metafisica, è la “pulsione metafisica dell’ipostasi” con il suo orrore per la finitezza, l’imprevedibile, l’incalcolabile, con il rifiuto di tutto ciò che vive e si muove e si trasforma e che dunque è, in quanto Vita, In metamorfosi - come titola uno dei libri di Braidotti.
E Maria Zambrano, alludendo criticamente all’insegnamento impartitole dai suoi due Maestri, Ortega e Zubiri,  si muove, nel dar conto del suo rapporto con la filosofia accademica, sulla stessa linea di pensiero - critico e conflittuale:
Io la pietà non la vedevo da nessuna parte, trovavo due assoluti impenetrabili: la chiarezza ortighiana e l’impenetrabilità del pensiero di Zubiri che mi venivano offerti con poca pietà (…). Non comunicai a nessuno la mia decisione di abbandonare lo studio della filosofia, finché un giorno indimenticabile…
Maria, come sappiamo dalla lettura delle sue opere - in cui questa parola “pietà”, intesa come il “saper trattare adeguatamente con l’altro” assume, assieme all’amore, un posto determinante - finirà per trovare la sua strada filosofica non in una pre-filosofia, non in percorso a-filosofico ma in una filosofia altra, (Zucal, p. 13?), al di là dei due “assoluti impenetrabili” proposti dai suoi maestri: la troverà nell’ottica del chiaroscuro - cui allude il titolo del suo testo iniziatico Chiari di bosco - la troverà in quella visione del mondo, che rigetta la logica delle opposizioni, del: o bianco o nero.
E, incredibile a dirsi!... non aveva forse in mente qualcosa di affine a questo chiaroscuro, l’eminentissimo professore di Marburgo, Martin Heidegger, innamorato della sua allieva Hanna e da lei ricambiato, allorché, in una delle lettere raccolte in una corrispondenza durata cinquant’anni, le dedicava queste parole: “Ci sono “ombre” solo dove c’è il sole. E’ questo l’intimo della tua anima.” (Lettera 2 Aprile 1925).
Ci pensate? Anche se sarà proprio “l’intimo” dell’anima di Hanna - attenta alla pluralità, alla contingenza, alla fenomenicità - a discostarsi, sia pure con alterne e sofferte vicende, da un uomo imprigionato, suo malgrado, in un pensiero “egocentrico” e solipsistico”, in quella stessa metafisica che voleva oltrepassare, e a permetterle di volare. (Cfr. Simona Forti, Hannah Arendt tra filosofia e politica, p. 37).
E, ancora, a dire di questa posizione peculiare, tutta femminile, del “dentro e fuori”, sono le parole con cui Judith Butler - filosofa femminista di fama internazionale, ancora poco nota in Italia, autrice - rivendica la sua estraneità all’ “istituzione ritualizzata della filosofia”, secondo la felice espressione di Bordieu. Di Bordieau e del suo testo Il dominio maschile, ci parlerà il Professor Spano, certo felice, assieme a Mambriani - che sostituirà Padre Pirola - di essere in mezzo a tante donne. Ma ascoltiamo Butler:
Non vivo, non scrivo né lavoro all’interno della disciplina filosofica, ormai da parecchi anni, e del resto ormai è passato molto tempo da quando mi sono posta la domanda: cosa se ne farebbe un filosofo di quel che scrivo?..La filosofia ha scandalosamente duplicato se stessa.. . Essa si chiede se non sia assediata, espropriata distrutta dall’uso improprio del suo nome, ossessionata dal suo doppio spettrale. …Desidero dunque cominciare con lo spirito di Edmund Husserl, il quale sosteneva che la filosofia rappresenta, dopotutto, un cominciamento infinito, e far riferimento ai miei inizi, modesti e tormentati. (Butler, La disfatta del genere, p. 264-265).
Vi suggerirei, per inciso, di memorizzare questo concetto di “cominciamento”  così’ caro ad Hanna, questo “inizio” che, evocando la natalità in aperto contrasto con la dimensione dell’ “essere per la morte” teorizzata dal suo compagno e maestro, ritroveremo insistente - quasi un’ossessione - nel pensiero di Hanna come conditio sine qua non dell’azione etico-politica. (Cfr. Simona Forti, Hannah, Arendt tra filosofia e politica, p. 42)
Chiuso l’inciso, veniamo al “tormento” di cui parla Butler  nelle cui opere colpiscono sensibilmente il dolore, l’estraneità e l’alienazione inseparabili da una condizione femminile di marginalità come la sua  -  di cui ogni donna, indipendentemente dalla propria scelta omo o eterosessuale  ha fatto esperienza - dalla condizione di donne, insomma, irrimediabilmente costrette ad abitare, comunque, territori a loro alieni, a vivere in casa d’ altri.
E senza nulla togliere alle altre che avremo modo di ascoltare, vorrei aggiungere a queste voci, la voce di Luce Irigaray, filosofa e psicanalista nella cui esperienza di vita la dolorosa esperienza vissuta con l’istituzione psicanalitica conclusasi con la sua espulsione dall’Ecole freudienne fondata da Lacan su cui avremo modo di tornare più in dettaglio - occupa un posto ben riconoscibile:
La donna deve percorrere un itinerario doloroso e complesso, una vera e propria conversione al genere femminile…Le difficoltà che le donne incontrano per entrare nel mondo culturale maschile hanno come conseguenza che quasi tutte, comprese quelle che si dicono femministe, rinunciano alla loro soggettività femminile e ai rapporti con le altre donne, e ciò le conduce in un vicolo cieco, individuale e collettivo, dal punto di vista della comunicazione. (I., Io Tu, Noi, pag. 19, corsivo mio)
“Conversione” al genere femminile, ecco una parola che merita attenzione.  Di qui nessuna indulgenza, anzi, una ferma condanna di Irigaray al femminismo anglosassone e tedesco che ha ridotto le donne a sentirsi libere per il solo fatto di aver conquistato una cattedra o per aver scritto il loro piccolo- grande libro. Condanna inflitta con un enunciato tra l’amaro e l’ esilarante:…”in quei paesi una donna può avere il sua fallo, se non il sua pene”. (Ibid., 63).
Solo in quei paesi? - mi chiedo - e da noi, come vanno le cose da noi? Dove sono le donne in questo difficile ma fecondo momento storico in cui, il venire allo scoperto della violenza maschile sembra confermare in pieno l’esattezza e l’affidabilità delle loro diagnosi sulla violenza sistemica e simbolica insita nel paradigma di pensiero patriarcale?
Di qui la necessità di riflettere su una domanda attuale posta da Irigaray, una domanda che potrebbe-dovrebbe vederci impegnate tutte quante e quanti siamo, in uno sforzo teorico e pratico rinnovato sui costi e benefici, oltre che sul senso, della presenza delle donne all’interno dei luoghi istituzionali, all’interno di quelle strutture che Simone Weil ne Il Manifesto per la soppressione dei partiti politici - che abbiamo commentato Convegno del Dicembre 2008, pensava dovessero essere eliminati.
Diventare uomini, avere “il sua fallo”, come viene loro richiesto dall’universo maschile è per le donne una scelta o una necessità?. (Ibid. 67) - si chiede Irigaray. E che si inclini per l’una o per l’altra, nulla cambia, nella sostanza, quanto al dato di fatto della “scomparsa delle donne” - meglio direi del femminile - una scomparsa determinata dall’avvenuta riduzione dei generi a uno, maschile e singolare con la vittoria definitiva del programma patriarcale e con buona pace delle donne che, nell’illusione di contrastarlo imitandone il modello, ne garantiscono infelicemente la durata.
Ma il misconoscimento dell’identità e del valore femminile cui Irigaray allude, non è affatto una vergognosa prerogativa maschile perché a non riconoscersi e a “prevaricarsi l’una sull’altra per mancanza di soggettività propria” sono le donne stesse per prime. (Ibid. p. 82).
Questo è il punto: mancanza di soggettività propria - e dunque misconoscimento e prevaricazione dell’altra e sull’altra, e riduttivismo politico rivendicazionista, sono due facce  della stessa medaglia.
Ebbene, nella speranza che i brani riportati zig-zagando da una pensatrice all’altra siano serviti a dare un’idea della posizione conflittuale di queste donne rispetto all’istituzione e al sapere accademico, possiamo ora dedicare il tempo che ci resta per entrare nello specifico del tema suggerito dal titolo Le figure del Male e la “camicia di forza” della Logica. Processo alla storia della metafisica, rivolgendo in particolare la nostra attenzione a due di queste donne, Hanna Arendt e Maria Zambrano, due figure femminili per molti aspetti assai diverse, ma il cui pensiero ci offre materiale esplosivo in abbondanza per mettere in luce l’incidenza della pulsione di morte, la sua costante presenza e l’azione da essa esercitata sul pensiero filosofico e politico che ha dato vita e alimento alla cultura dell’Occidente. Per una migliore comprensione del percorso di queste donne, è utile ricordare, per inciso, che filosofia e politica restano, all’interno del loro pensiero, inseparabili.
Di qui il processo di smantellamento-disfacimento avviato ad opera di Hannah e di Maria, di quella “scienza terribile” che va sotto il nome di metafisica, disfacimento cui allude il sottotitolo La disfatta del pensiero androcentrico per la cui ricognizione mi sono ispirata al libro di Butler La disfatta del genere.
La parola “disfatta”, potrebbe essere fuorviante se non sapessimo, al di là di ogni ragionevole dubbio, che il nichilismo, lungi dall’appartenere allo stile di vita e di pensiero di queste donne - la cui opera di disfacimento è finalizzata a ripensare altrimenti il rapporto fra filosofia politica e vita - è invece il presupposto fondante di ogni metafisica, inclusa quella che ha accompagnato l’intera storia del pensiero occidentale, per prendere la distanze dalla quale Zambrano “ribattezza” la sua metafisica dandole il nome di “metafisica sperimentale”.

E qui, a questo punto del nostro percorso, non si può non fare almeno un cenno alla visione tragica che fa da sfondo e attraversa il pensiero di queste donne, precisando tuttavia che per Tragico non si intende affatto - come  erroneamente  si crede -  un rapporto negativo con la vita, ma, al contrario, un rapporto gioioso e affermativo che ha origine dalla capacità di dire SI all’esistenza con tutto ciò che essa comporta: dolore, morte, contraddizione, differenza, molteplicità e pluralità, acerrime nemiche della metafisica dell’Uno, della dialettica e del suo programma riconciliativo e nichilista.
Ed è proprio il riconoscimento del primato del Plurale sulle pretese di onnipotenza dell’Uno, che porterà Hannah a concepire l’idea di una felicità pubblica e a dare risalto alla “gioia dell’azione”, dando della “felicità” contenuta nella dichiarazione d’indipendenza americana, la sua originalissima interpretazione. (Cfr. S. Forti, Hanna Arendt tra filosofia e politica, p. 247-249).
E quale che sia la complessa posizione di queste due donne nei riguardi della filosofia di Nietzsche, resta il fatto che ciascuna ne porta, a proprio modo e in una certa misura, le tracce... Penso alla parentela fra le donne e Dioniso - il Dio ibrido dell’Alterità, lo Pseudanor (Pseudomaschio) tanto caro a Nietzsche, il dio del dentro e fuori, cittadino del Pantheon e divinità straniera al tempo stesso - penso al fatto che questo dio quando deve affermare la vita ha bisogno di una donna, di una sposa, Arianna (Cfr. Deleuze, Nietzsche, p. 22).
Ed è a Dioniso che Zambrano si riferisce quando ci ricorda che Dioniso è un 
“dio non dell’uno, ma della trasmigrazione e della pluralità, libera i tanti che sonnecchiano imprigionati sotto l’apparenza immutabile della condizione umana, concedendo col suo delirio la liberazione dei condannati per l’opera dell’uno che si sono scelti o che la vita ha imposto… La vita umana trascorre in un’unità che nasconde la molteplicità prigioniera: le possibilità che l”uno” non ha potuto liberare e allo stesso tempo far sue...Quando Dioniso si infonde nell’anima umana, la fa uscire da sé, la fa danzare in una metamorfosi liberatoria, le dà, insomma, il dono dell’espressione, l’ebbrezza - il furore e l’oblio - affinché abbia il coraggio di esprimersi. E’ la virtù medicinale di Dioniso, e la radice sacra della medicina più umana, quella che oggi finisce sotto i domini della psichiatria.” (Zambrano, L’uomo e il divino, p. 50-51).
Di questa virtù medicinale di Dioniso, di questa medicina più umana abbiamo forse bisogno donne e uomini, di questa “metamorfosi liberatoria” che ci dia “il coraggio di esprimerci” per dire finalmente e insieme, che non solo noi donne - come diceva Lacan - ma anche gli uomini sono pazzi. Pazzi, sì, ma non del TUTTO, non di quell’’UNO-TUTTO escludente, al quale i mali più terribili - passati e presenti - vanno imputati.
Che cosa vogliono disfare, dunque, queste donne “testimoni del demone e dunque della felicità?” (Galimberti, Il gioco delle opinioni, p. 32). Non certo la filosofia che assieme alla politica - ma anche alla letteratura e alla poesia - è la passione cui hanno dedicato la vita intera, ma una certa concezione della filosofia, un paradigma di pensiero che ha lavorato contro la vita e ha promosso una cultura di morte, una filosofia  che sin dal suo atto di nascita Arendt  descrive così:
L’atto di nascita della filosofia è inscritto nell’impossibilità, per il pensiero, di sopportare la maledizione del finito,nella sua incapacità di accettare il mondo segnato dal lutto della contingenza (…). I fondamenti della metafisica non sono altro che la manifestazione di un desiderio ossessivo di durare, che rimuove la morte, il tempo. (Flores, cita Simona Forte pag. 62)
Abbiamo capito bene? La diagnosi di Hannah va direttamente al cuore del problema - fuga dal negativo e dalla temporalità, “denegazione nevrotica” di entrambe - di cui coglie lucidamente il paradosso: l’angoscia che, comunque declinata, è sempre è solo angoscia di morte generata dalla “maledizione della finitezza”, è quell’angoscia che l’uomo cerca di combattere attraverso il desiderio ossessivo di immortalità che comporta senza una fuga dalla realtà, un No alla vita, insomma, una morte anticipata. Come dire che l’unico modo per fuggire la morte è essere già morti…
A questa ossessione per l’immortalità, al “sogno ossessionante “di Platone allude anche Maria::
Il greco non ha avuto vocazione per la vita.; l’ha avuta per la ragione, per la bellezza, per cose che raggiungerebbero il loro essere soltanto in un luogo che non è né la vita né la morte, ma l’immortalità. (Zambrano, L’agonia dell’Europa, p. 59 corsivo mio)
“Gli uomini che per natura schivano la morte come il più grande dei mali” - incalza Arendt facendo riferimento al Fedone di Platone -“ora si volgono ad essa come al bene supremo” e il fatto che la maggior parte dei filosofi non siano suicidi, non impedisce loro di esserlo metaforicamente.(A., La vita della mente, p.168) aggiungo io, nella stessa misura in cui lo è, metaforicamente, ogni nevrotico ossessivo la cui caratteristica è di fare il morto per evitare la morte.
La psicanalisi si è sempre preoccupata troppo, e non per caso, delle donne, della loro isteria invece che delle patologie maschili e della portata distruttiva della pulsione di morte che attraversa da un capo all’altro la storia del pensiero filosofico, se persino di un pensatore ribelle come Kierkegaard - che non si era certo trattenuto dallo spodestare la ragione dal suo trono - Hannah può dire che in lui:
il pensiero della morte diventa azione…l’uomo si ritira dal mondo e dalla vita quotidiana degli altri uomini. (cit.. da Simona Forti, Hanna Arendt tra filosofia e politica, p. 46)
E, aggiungerei, dalla relazione troppo umana con la sua amatissima Regina, da lui sacrificata.
Ma, a quanto pare, a non voler fare i conti con la  morte, la caducità e la malattia, la filosofia è in buona compagnia. Ce ne informa è il genio di Virginia Woolf che descrivendo nel suo saggio Sulla malattia i travagli quotidiani cui un corpo malato soccombe, ci ricorda  che di esperienze di tal genere non si trova, in letteratura alcuna traccia perché
guardare simili cose in faccia richiede il coraggio di un domatore di leoni, una vigorosa filosofia una ragione radicata nella viscere della terra. (V. Woolf, Sulla malattia, p.9).
“Viscere della terra”- dice Virginia - e sembra davvero di ascoltare il suono delle parole di Maria quando evoca la “ragione delle viscere” e la ratio poetica e materna quale unico accesso ai territori del sacro
Tuttavia Hanna, pur andando alla radice del problema della distruttività e pur affermando che “gli uomini rimangono padroni del mondo che hanno costruito”, pur riconoscendo, insomma, che “mantengono la padronanza del potenziale distruttivo che hanno prodotto”, non ne ha mai tratto in modo esplicito le conseguenze sul piano del riconoscimento della responsabilità storica del genere maschile nella costruzione del mondo, (A. Che cos’è la politica?, p.66).
Hannah  ripete a più riprese uno dei suoi enunciati, afferma che “non l’Uomo” - universale,  maschile e singolare - “ma gli uomini” - maschile plurale - “abitano questo pianeta. La pluralità è la legge della terra”, (A. Vita activa, XIII), una pluralità in cui le donne risultano automaticamente incluse.
Di qui alcune critiche  dal versante femminista, nonostante la fioritura, per contro, di letture interessate a una Arendt proto-femminista e anticipatrice del pensiero della differenza. (Cfr. Flores, 211).
In verità, la sola differenza che per Arendt conti, è la differenza,  singolare e irrepetibile fra ciascun individuo, maschio o femmina che sia.
Sempre in merito alle critiche rivolte ad Arendt, vorrei anche ricordare che i rilievi più aspri - “vaniloquio utopistico”, “provocazione demente”, “miraggio moralistico” (Flores, 178) - non le sono giunti dal versante femminista ma anche - e per tutt’altre ragioni - dall’ortodossa intellettuale marxista e dai circoli intellettuali ebraici statunitensi in ordine allo scandalo filosofico e politico suscitato dal suo libro La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, scritto dopo aver seguito nel 1961, il processo Eichmann come corrispondente del New Yorker e averne fatto il resoconto.
Ma Arendt ci sorprende ancora nell’ultima delle sue opere, La vita della mente, la più importante, secondo alcuni, sotto il profilo filosofico, destinata a saldare un sorta di debito con quella filosofia dell’aut-aut, senza la quale non sarebbe valsa per lei la pena di vivere, in cui ci dice senza troppi preamboli, che il greco non ha avuto alcuna vocazione per la vita:
Lungo tutta la storia della filosofia persiste l’idea davvero singolare di un’affinità fra la filosofia e la morte (Arendt, La vita della mente, p. 162)                                                                                    
Riguardo a questa incapacità strutturale dell’uomo di fare i conti con la realtà della morte, credo sia interessante riportare un esempio assai significativo che Hannah ci fornisce nell’Appendice a La banalità del male, dedicata alle polemiche sul caso Eichmann, ricordandoci che Eichmann - che non era, a suo dire, né “uno Iago” “né un Macbeth”  ma un banalissimo uomo “normale”:
di fronte alla forca, anzi ai piedi della forca non sappia pensare ad altro che alle cose che nel corso della sua vita ha sentito dire ai funerali altrui, e che certe “frasi esaltanti” gli facciano dimenticare completamente la realtà della propria morte.(Arendt, La banalità del male, p. 291)

Ne conclude che un tale distacco, una tale scissione dalla realtà è molto più temibile dei peggiori istinti malvagi che abitano l’uomo e Dio sa se, nel dirlo, aveva ragione. In effetti, è proprio la figura di Eichmann, la sua normalità-banalità a turbare Hannah e a ridare ossigeno ai suoi pressanti interrogativi su una possibile connivenza fra filosofia, politica e totalitarismo, dando loro però una svolta nuova, centrata sull’esistenza di un “male radicale” tutto individuale.
E qui, a proposito di questa connivenza fra filosofia politica e totalitarismo, il commento di Simona Forti al libro di Arendt Le origini del totalitarismo, assieme a quanto troviamo esposto nel suo libro Hannah Arendt tra filosofia e politica,  resta, a mio avviso, davvero insuperabile se non altro per quel che ci dà da pensare. Sentiamo:
Così come il totalitarismo può essere considerato una sorta di filosofia parossisticamente realizzata, Eichmann può venire presentato come l’inveramento caricaturale - se ne potesse ridere - di alcune deformazioni professionali della figura del filosofo, anche se nella fattispecie di un filosofo assai poco dotato.
Già. Sul piano caricaturale - ma di un caricaturale patologicamente segnato - l’aveva messa, a dire il vero, anche Freud quando suggeriva l’ipotesi che la  paranoia fosse una caricatura della filosofia, l’ isteria una caricatura dell’arte e la nevrosi ossessiva una caricatura della religione.
Ma a sollevare qualche interrogativo e qualche dubbio diagnostico e a farci riflettere, è il riferimento di Simona Forti ad alcuni autori che si richiamano ad Arendt e a detta dei quali il totalitarismo non sarebbe riconducibile a una “patologia” ma sarebbe il “disvelamento” di quella verità che la politica e la filosofia della nostra tradizione tenevano custodita” (A. Le origini…, XXXVII). Come dire che “lo sterminio è per l’Occidente la terribile rivelazione della sua essenza. (P. Lacoue -Labarte, La finzione del politico, cit. da Simone Forti).
E qui la faccenda si fa seria perché, una volta eliminato ogni residuo patologico dal quadro di un’abiezione che ha reso possibile e legittimo uno sterminio di massa, dovremmo concludere che gli agenti in carne e ossa responsabili della distruzione di oltre sei milioni di ebrei, erano persone non perfettamente sane - tesi, questa, insostenibile - ma perfettamente “normali”, esattamente come Eichmann, per l’appunto, e come tutti coloro che compiono ogni giorno i più efferati delitti di cui la cronaca ci informa, attuati nella più assoluta normalità.
E’ quanto basta  per interrogarci non più, come in passato, sul rapporto fra normalità e follia ma sul rapporto fra normalità e salute, ma questo è un altro capitolo.
A favorire il distacco dal reale che abbiamo riscontrato in Eichmann, è il principio della coerenza logica che fa dell’ideologia - la logica di un’idea - una vera e propria “camicia di forza”:
Un’ideologia è letteralmente quello che il suo nome sta a indicare: è la logica di un’idea(…) L’ideologia tratta il corso degli avvenimenti come se seguisse la stessa “legge” dell’esposizione logica della sua “idea”… Le ideologie non si interessano mai del miracolo dell’ essere…. Si suppone che il movimento della storia e il processo logico del concetto corrispondano l’uno all’altro…Tuttavia l’unico movimento possibile nel regno della logica è il processo di deduzione da una premessa. (Arendt, Le origini del totalitarismo, p.642-643)
Il risultato di questo processo logico-deduttivo è la distruzione di ogni legame con la realtà. Ma vediamo quali sono le conseguenze per la libertà:
La tirannia della logicità comincia con la sottomissione della mente alla logica come processo senza fine, su cui l’uomo si basa per produrre le sue idee. Con tale sottomissione egli rinuncia alla sua libertà interiore… La libertà in quanto intima capacità umana si identifica con la capacità di cominciare, come la libertà in quanto realtà politica si identifica con uno spazio di movimento fra gli uomini…Come il ferreo vincolo del terrore è inteso a impedire che, con la nascita di ogni nuovo essere umano, un nuovo inizio prenda vita e levi la sua voce nel mondo, così la forza auto costrittiva della logicità è mobilitata affinché nessuno cominci a pensare, un’attività che, essendo la più libera e pura fra quelle umane, è l’esatto opposto del processo coercitivo della deduzione. (Arendt, Le origini del totalitarismo, p. 648)
E ora proviamo a seguire Maria Zambrano nella sua opera di destrutturazione del sistema di pensiero androcentrico.
La critica rivolta da Maria a tale pensiero  -  da Platone a Heghel fino al suo maestro, Heidegger, è - non diversamente da Arendt - critica alla dicotomia fra  un Lògos, una ragione astratta che nella sua folle rincorsa verso l’ideale, ha finito per perdere ogni contatto il reale, con il lògos delle “viscere”, riducendo il sapere a sapere disincarnato:
L’uomo crea obiettivamente, (….)va oltre il proprio peculiare sentire , e (…) in qualche modo annulla se stesso a forza di violenza, a forza di sostenere una forma trascendente. (…) Universalizza le sue situazioni le proietta fuori di sé rendendole impersonali per quanto personali possano sembrare.(…). Una creazione (femminile è invece) incorporata alla vita, amalgamata con le sue ore, una creazione non eterogenea, in cui l’oggetto creato non annienta il sentimento perché consiste nella vita stessa. (Zucal, 18)
Di qui la distinzione su cui Zambrano insiste fra parola filosofica e parola poetica, la parola aurorale,  tema su cui non mi soffermo perché di questo aspetto ci parlerà Annarosa Buttarelli che ho pensato di invitare proprio la sua profonda conoscenza sul pensiero di Zambrano.
Un secondo passaggio - da cui emerge la critica di Zambrano al pensiero filosofico occidentale - prende direttamente di mira la figura tradizionale del filosofo:
Il filosofo è quell’uomo la cui intimità  si eleva a categoria razionale; i suoi conflitti sentimentali, il suo incontro con il mondo si risolve e si trasforma in una teoria. (Zambrano, Verso un sapere dell’anima, Zucal, 35).
Come dire di una sorta di acosmia, di incapacità di vivere e di abitare la realtà del mondo,  ridotta a mera astrazione, a vuota rappresentazione da un pensiero disincarnato tutto dedito a rimuginare “sulla vita invece che “con la vita”. (Zucal, 35).
Ma il passaggio forse decisivo, quello in cui il sistema di pensiero androcentrico riceve l’attacco più duro, è  quello in cui a diventare oggetto della critica di Zambrano, sono le operazioni “infernali” della logica formale che:
parte da un giudizio universale per giungere a uno singolare, va dall’astratto, dunque, al concreto (…) facendoci sentire e sapere che questo qualcosa di concreto e vivente non sarà mai in grado di trascendere questo involucro astratto (…) Come se il concreto e il vivente non potesse sostenersi da solo, non potesse né riposare in se stesso, in ciò che esso è, né trovarvi la propria ragion d’essere. (Zambrano, Chiari di bosco, p. 45)
Di qui la conclusione che “la deduzione, operazione logica, conduce agli inferi”, o, inversamente e stupendamente detto  “che l’ inferno è qualcosa di dedotto”. (Ibid. p. 44)
Come quello di Auschwitz.
Ma dopo la diagnosi - terribile di queste due donne - la cura: la capacità di cominciare insita per Arendt, nell’esperienza della natalità di ogni essere umano e nella ricerca di uno spazio di movimento fra gli uomini. E’ questo il senso della politica, ed è questo senso della polis a far dire ad Hannah:
(…) entro la sfera della faccende umane…c’è un taumaturgo e l’uomo stesso, in maniera alquanto meravigliosa e misteriosa, sembra avere il talento di compiere miracoli (…). Nel linguaggio corrente e trito questo miracolo è chiamato agire…Il miracolo della libertà è insito in questo saper cominciare che a sua volta è insito nel fatto che ogni uomo in quanto per nascita è venuto al mondo che esisteva prima di lui, e che continuerà dopo di lui, è un nuovo inizio. (Arendt, Che cos’è la politica?, p. 26)
Ebbene che cosa possiamo farcene noi, oggi, di tutto questo?
Che cosa possiamo farcene dei pensieri di Hannah, un’intellettuale ebrea, cosmopolita, apolide, sradicata, di una pariah testimone di una tragedia del suo tempo, internata come sospetta e poi dislocata a New York per metà della sua vita, che cosa di questa donna ostinata, decisa a comprendere le vicende del nostro secolo, a comprendere come ciò che è accaduto sia potuto accadere, decisa a dar voce all’orrore di Auschwitz anche a costo di pagare con l’isolamento riservatole dai suoi migliori amici? Di una donna caparbia che vuole comprendere una catastrofe che lacera ogni continuità con il passato ma che non essendo senza legami con la nostra tradizione, per questo - solo per questo - non si  dà - e non ci dà - pace?
E che possiamo farcene delle elucubrazioni  di un’altra figura militante del novecento, Maria, che a quattordici anni vive l’esperienza della prima guerra mondiale, che vede stroncate dalla guerra civile le speranze della sua generazione di rinnovare la Spagna ed è costretta a fuggire dal proprio paese e a vivere quarantacinque anni di esilio girando, nomade, per il mondo - dall’America latina in Europa, dall’Avana a Puerto Rico, al Messico, a Buenos Aires a Parigi, a Roma? Che ce ne facciamo di una donna che ci parla di sacro e di viscere e di chiaroscuro e della vergine Maria di cui porta il nome e de L’agonia dell’Europa?
Forse niente. Se non riusciamo a comprendere che queste donne hanno scritto con il proprio sangue - come Nietzsche diceva che bisogna scrivere - con il loro corpo fatto pensiero. 
Potremmo servircene, forse, per uscire dal nostro privato individuale per sentirci - come i Greci - un po’meno “idioti” per il solo fatto di “poter discorrere con altri”e di fare esperienza della realtà del mondo in cui viviamo, invece che estraniarci, melanconici o rassegnati, stupefatti o impasticcati nel privato. Ma questo non basta.
Potremmo imparare che l’azione di cui parla Hanna in Vita activa e altrove, è altra cosa dal fare come vano agitarsi, è potenzialità della sfera pubblica, è stare insieme in uno spazio pubblico abitato dall’identità, dalla differenza, dalla pluralità.
Così solo così e non altrimenti, il politico si manifesta.
Potremmo sorprenderci imparando che potere e violenza si escludono.
Ma potremmo anche  servircene per continuare a interrogarci, per sapere se sia davvero possibile pensare al totalitarismo come all’”estrema conseguenza sempre in agguato (ma solo in agguato) della promessa non mantenuta della democrazia”. (Flores, p. 20).
E, visti i tempi, lo potremmo fare, magari, con quello stesso spirito tragico fatto di “ottimismo” e di “disperazione” - pessimismo della forza, avrebbe detto Nietzsche - con cui Hanna si appresta al suo compito di comprendere le origini del totalitarismo nel suo libro:
Questo libro è stato scritto su uno sfondo di ottimismo e disperazione sconsiderati. Esso ritiene che progresso e rovina siano due facce della stessa medaglia… E’ stato scritto nella convinzione che sia possibile scoprire il segreto meccanismo in virtù del quale tutti gli elementi tradizionali del nostro mondo spirituale e politico si sono dissolti in un conglomerato in cui ogni cosa sembra aver perso il suo valore specifico ed è diventata irriconoscibile per la comprensione umana (….) Comprendere significa insomma affrontare spregiudicatamente, attentamente la realtà qualunque essa sia. In questo senso deve essere possibile affrontare il fatto straordinario che un fenomeno così piccolo (e nella politica mondiale così insignificante) come la questione ebraica e l’antisemitismo sia potuto diventare il catalizzatore, prima del movimento nazista, poi di una guerra mondiale, e infine della creazione delle fabbriche della morte… La corrente sotterranea della storia occidentale è finalmente venuta alla superficie usurpando la dignità della nostra tradizione. Ecco la realtà in cui viviamo. (Arendt, Le origini del totalitarismo, p. LXXX-LXXXII)

E la nostra realtà, quella in cui viviamo qual è? Comprenderla è compito nostro, forse un dovere non delegabile ad altri.
Che la democrazia - che dovrebbe essere, come suggerisce Flores D’Arcais - “l’aristocrazia per tutti” sia in pericolo e che l’analisi precoce di Arendt sulla crisi della democrazia non abbia nulla di “apocalittico” ma vada presa terribilmente sul serio, è il minimo su cui si possa concordare così come è fuori discussione che la sua filosofia politica rappresenti oggi un potente antidoto contro il pensiero unico e l’ideologia insidiosa e ricorrente della “fine della storia”, il cui unico scopo è secondo Flores, quello di “imporre al mondo degli uomini l’unità coatta della propria volontà di potenza” (Flores, p. 197) - il liberismo - ovvero la democrazia di mercato- attraverso l’eliminazione della pluralità.
Ma c’è qualcos’altro che noi possiamo fare se lo vogliamo: potremmo considerare questi incontri come un inizio, l’inizio di qualcosa ed è questa, forse, la sola cosa da fare.

 

30-10-2009

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