dal sito www.donnealtri.it

Aborto: riparliamo di depenalizzazione

di Letizia Paolozzi


Laurie Anderson

 

In un testo sul quale, nel 1989, avevo lavorato insieme a altre donne (*), insistevamo (ne avevamo già parlato negli anni Settanta) sulla possibile depenalizzazione dell’aborto. Una parte del femminismo è rimasta affezionata a questa idea come la più rispondente alla diversità nel modo di vivere quel tempo terribile della vita femminile: per alcune una liberazione; per altre il velo scuro del lutto; per altre ancora una pratica sconosciuta.
Da sempre noi donne sappiamo che l’aborto è una necessità, legata “alla costrizione della sessualità maschile, che non separa piacere e riproduzione“. Così, in quel documento: rispetto ai rapporti di sesso e di amore tra donne e uomini.
Questa necessità non pesò al momento della legge 194. Si doveva operare un compromesso per legalizzare l’aborto. Non per depenalizzarlo. Anche se quel compromesso introdusse una contraddizione pesante: il rischio che fosse attribuita allo Stato – quanto meno da una parte del mondo cattolico - l’identità di Stato abortista.
Non solo. Con quel compromesso, che invece di riconoscere la competenza femminile, metteva la decisione nelle mani del legislatore, si convenne con l’immagine che il legislatore ha della donna, intesa come “individua di una specie irresponsabile, alla quale si deve far ridire ciò che lei ha già deciso, per controllarne la consapevolezza“.

Tuttavia il compromesso c’è. E non significa stravolgimento, come invece sta intrinsecamente accadendo con la legge 40 che allude al diritto dell’embrione. Capisco che legalizzare non equivale a depenalizzare. Che la donna sia responsabile, che possa scegliere autonomamente, che possa decidere se continuare o interrompere la gravidanza –generalmente consultandosi con altre donne – appare insopportabile. Legiferare sull’aborto (come appunto è avvenuto) è “un modo per gli uomini di assicurarsi simbolicamente il controllo sul corpo femminile fecondo“.
Occorre ancora un grande lavoro. Innanzitutto, bisognerebbe nominare la condizione in cui viene a trovarsi la donna che sa “di aver subìto, quando decide di abortire, la regola della sessualità maschile“.

Dovrebbero rifletterci quanti citano l’aborto come “omicidio“ o come “desiderio“ illimitato. Dovrebbero capire che si tratta di un crinale simbolico “in cui la donna sperimenta la sua libertà e la sua non libertà“.
Ognuna di noi, ripeto, ha camminato lungo questo crinale. Qualcuna non ha mai avuto bisogno di abortire; altre hanno sentito quel gesto come un sollievo; altre ancora come una terribile deprivazione di una parte di sé. La politica delle donne ne è sempre stata consapevole. Continua a rifletterci.

Non capisco proprio quali voci femminili abbia ascoltato la storica Emma Fattorini (sul Corriere della Sera del 15 febbraio 2005) quando descrive gli anni 70 e “il radicalismo autistico di un certo femminismo“. Così, fatico a trovare un filo conduttore nella discussione (riesplosa con l’articolo su Genesis di Anna Bravo) tra storiche e militanti femministe; tra storiche e storiche. Quasi che il femminismo si considerasse detentore della buona memoria e le storiche, invece di stare alle regole classiche del mestiere, si dividessero su una lettura del passato nella quale ha la meglio lo strumento ideologico-politico.

Oggi, nella discussione intorno alla legge 40 e alla procreazione assistita, si pone nuovamente il problema della speciale relazione madre-figlio. E di un’idea della libertà fondata sulla persona, basata sulla storia degli individui. Per me una libertà relazionale, certo. Che vuol dire attenzione, rapporto, produzione di legame. Non sono forse i genitori potenziali a cercare, senza onnipotenza, senza sfrenatezza desiderante, un senso alla costruzione del loro progetto femminile-maschile di famiglia?
Questa idea di libertà ha legato a proposito della legge 40 culture politiche diverse, dai Radicali a pezzi importanti del femminismo, da una parte (certo ridotta) di Forza Italia alle molte donne Ds che si sono attivate nonostante le remore filocattoliche, fino all’anima liberal dei Diesse.

E poi Fausto Bertinotti, con il Prc e molti che a sinistra sono pur decisamente contro le posizioni mercatiste e liberiste sostenute dai radicali. Ciò che mi chiedo è se l’incontro abbia creato solo delle momentanee convergenze, con un carattere di occasionalità. Capisco che con le loro esagerazioni i Radicali non hanno facilitato le cose. Tuttavia, il risultato non cambia. Non si arriva mai a verificare possibili contaminazioni.
Di fronte a un gesto che reputo sbagliato e umiliante come quello del centrosinistra che non ha voluto ospitare le liste Radicali-Luca Coscioni per le prossime Regionali, continuo a chiedermi se sia stato davvero così importante (da parte di tutti e tutte) non cedere nulla della propria cultura, politica, identità, storia.

( il testo è pubblicato nel sito libreriadelledonne.it/rassegna stampa: "parlano le femministe mute")