Alice Munro ha vinto il Nobel per la Letteratura 2013

di lei proponiamo questa lettura tratta da Enrica e le sue amiche di carta

 


Alice Munro, Le cose dentro le cose

di Enrica Tunesi

 

Alice Munro nasce nel 1931 a Wingham, nell’Ontario. L’Ontario è uno stato del Canada orientale, la cui città principale, dove vivono anche molti italiani, è Toronto, capitale economica del Paese, dotata di un’amplissima città sotterranea dove praticamente i cittadini vivono durante l’inverno. Facendo spesso freddissimo nell’università sono appesi cartelli che spiegano che cosa si debba fare in caso di congelamento, il che dà la misura del freddo. Altra caratteristica, un enorme campo da baseball coperto con tetto apribile e una torre altissima da cui si contempla la città e il lago su cui si affaccia. Il paesaggio intorno ha immense foreste, laghi scavati dai ghiacciai, piccoli villaggi sparsi qua e là. Proprio in uno di questi villaggi si stabilì nel 1850 il nonno di Alice che si chiamava di cognome Laidlaw, di origine scozzese, che faceva l’agricoltore. Anche la famiglia della madre veniva dalla Scozia, ma era molto meno abbiente; i genitori di Alice erano tra loro cugini in terzo grado. Wingham, dove nasce Alice, è nella contea dello Huron, lago da lei molto amato e molto descritto nei suoi racconti. Il padre, quando la scrittrice nasce, aveva già costruito un allevamento di volpi argentate, fallito con la crisi economica del 1929.
Alice studia alla scuola di Wingham, nascono un fratello e una sorellina e il suo primo viaggio, a dieci anni, col padre lo fa andando a trovare la madre a Muskoka, dove vendeva ai turisti americani le pelli delle volpi. Nel 1943, a quarantacinque anni, la madre si ammala di una strana malattia, all’inizio non diagnosticabile, ma che poi si rivelerà essere un Parkinson devastante, che la renderà invalida in brevissimo tempo. Alice la sostituirà nella gestione della famiglia. Nel racconto “La pace di Utrecht” narra il ritorno di Alice da adulta nella casa di famiglia, dove una vecchia zia le mostra la biancheria e i vestiti della madre, invitandola a prenderli e a usarli. Al suo rifiuto, la zia quasi si offende e non  capendo il motivo continua a ripetere che è roba buona, ma la protagonista afferma: “Io mi ricordo che sono andata in giro per anni con i vestiti rifatti da quelli di mia madre, perché dopo la guerra abbiamo attraversato un periodo di grande indigenza”.

Ho citato questo racconto che fa parte della raccolta Danza delle ombre felici perché, come dice la Munro, segna lo spartiacque in termini di uso di materiale autobiografico nella sua scrittura. Mentre prima scriveva usando solo materiale autobiografico, dopo questo racconto scrive prevalentemente storie inventate, benché in un’intervista dica: “Le situazioni non sono autobiografiche, tutte le emozioni certamente lo sono”. Nel 1982, Alice scrisse un saggio nel quale tentava di spiegare il metodo con cui creava una storia: “Parte del materiale posso già averlo dentro di me in memorie e osservazioni; parte lo invento, i dettagli li cerco intorno a me accuratamente, mentre gli aneddoti e i brani di conversazione sono depositati nel mio grembo. Studio come questo materiale possa andare insieme e poi comincio”. Scrive anche che il modo più semplice per spiegare che cosa sia per lei scrivere un racconto è paragonarlo a una casa: “Una casa racchiude spazi e crea connessioni tra uno spazio e l’altro e con l’esterno. E dall’esterno presenta sempre nuove prospettive”.
Sappiamo che la sua fama è internazionale, ma almeno all’inizio, non è stata amata dai suoi concittadini di Wingham, che consideravano le sue storie degli scandalosi pettegolezzi in quanto vi si riconoscevano con esattezza, ma a questa critica lei rispondeva: “Un sacco di gente pensa che io sia una scrittrice regionale ed io uso moltissimo la regione in cui sono nata e cresciuta, ma certo non scrivo per mostrare che certe cose sono accadute proprio lì. Il posto ne fa parte incidentalmente, ma la gente di Wingham vive nello stesso modo che ovunque. Le persone sono profonde caverne coperte da un linoleum da cucina”.

E’ un’esperienza comune abitare in una famiglia e partecipare a quell’intreccio di voci, oggetti, cose taciute, odi profondissimi, tensioni nascoste che è una famiglia. La Munro è bravissima non solo nel sondare le profondità dell’animo umano, ma anche nella descrizione dei mobili, degli oggetti, delle poltrone, dei lampadari e dei sofà che fanno parte della vita quotidiana. Siamo certi che a Vancouver, come nelle piccole città dell’Ontario di quarant’anni fa, le cose si svolgessero esattamente come le descrive lei, che racconta storie che possono capitare a tutti, soprattutto dal punto di vista femminile: sa descrivere la preparazione dei cibi, come si stiri una camicetta, come si fronteggino le urla di un poppante. In un’intervista dice: “Facendo la cameriera, si vedono cose che i padroni non mostrano ai loro pari perché la serva ideale non ha né occhi né orecchie, ma io li avevo!”.
Il padre, non potendo evidentemente star lontano dall’agricoltura, mette in piedi un allevamento di tacchini e Alice, nel 1950, lavora, sempre come cameriera, in un albergo a Muskoka e pubblica il suo primo racconto intitolato “Le dimensioni di un’ombra”.

Nel 1951 sposa Jim Munro di cui manterrà il cognome, forse perché il marito rispettò sempre il suo lavoro di scrittrice. Lei era al secondo anno di università, aveva un accento campagnolo, era povera, era sexy e si vestiva come una puttana. Lui era di famiglia signorile e stava intraprendendo una carriera manageriale. La famiglia di lui – anche queste sono parole rilasciate  in un’intervista – era preoccupata, non tanto per le origini modeste, quanto perché aveva capito che non sarebbe stata una moglie come tutte le altre: era percepita dai famigliari come un grosso rischio per il figlio. Racconta che il suocero ogni tanto le chiedeva: “Perché non vai mai dal parrucchiere?” Gli sposi vanno a vivere nel British Columbia, stato che ha per capitale Vancouver e un clima tutto diverso dall’Ontario, molto dolce perché il mare è attraversato da correnti calde. La città è bellissima e si affaccia su un mare costellato di isole e di profondi fiordi. In questa zona vi è una forte presenza cinese perché durante il maoismo gli imprenditori cinesi trasportarono a Vancouver i loro capitali e vi costruirono anche una metropolitana che viaggia senza conducente.

I primi tempi sono molto duri per la giovane coppia e di quel periodo Alice dice: “Vivevo in un quartiere dormitorio, ho avuto tre figlie, nessuno all’epoca accettava il fatto che una madre di famiglia scrivesse, ma io non ho mai smesso di farlo”. Se qualche sua vicina la chiamava per prendere un caffè, rispondeva che doveva cucire piuttosto che dire che stava lavorando a una storia … insomma ha sempre protetto il suo lavoro come faceva Jane Austen, che metteva un fazzoletto ricamato sul manoscritto quando qualcuno entrava. Il grosso problema della sua vita è stato sempre conciliare il matrimonio e la scrittura. Nel 1963 Jim e Alice si trasferiscono a Victoria  e aprono una libreria chiamata Munro Books. Alice ricorda quegli anni come i più felici della sua vita matrimoniale, perché il lancio della libreria fu un’impresa pionieristica e molto coinvolgente.
Nel 1968 esce la prima raccolta di racconti, intitolata Danza delle ombre felici, che vince un importante premio letterario. Alcuni di questi racconti, come “La pace di Utrecht” e “Domenica pomeriggio” sono autobiografici e anche molto divertenti come quello intitolato “L’ufficio”, nel quale descrive appunto la ricerca di un ambiente dove poter scrivere in santa pace. Nel 1971 vince un importantissimo premio con la sua seconda raccolta Vite di ragazze e di donne. Nel 1973 si separa dal marito e torna a vivere nell’Ontario non lontano dal luogo in cui era nata. La sua fama è in continua ascesa, riceve premi e riconoscimenti ed è sempre più richiesta dalle università per tenere corsi di scrittura e conferenze mentre, per quanto riguarda la sua vita privata, rincontra un vecchio compagno di scuola, Gerry Fremlin, e lo sposa andando a vivere con lui  a Clinton nell’Ontario. In quel periodo diventa anche nonna completando, credo, la sua felicità famigliare.

La Munro fino a vent’anni fa’ era conosciuta in Italia da venti o trenta persone al massimo, mentre da alcuni anni la pubblicazione delle sue opere ha avuto un’accelerazione notevole grazie a Susanna Basso, sua splendida traduttrice per i tipi dell’Einaudi. Il primo racconto della raccolta Il sogno di mia madre, intitolato “Una donna di cuore”, può essere considerato un capolavoro assoluto (mi ha addirittura turbato), è molto lungo, più di ottanta pagine, ma la scrittrice preferisce i racconti lunghi e concentratissimi, densi di personaggi che riescono a contenere storie di intere famiglie. La Munro ha capito una cosa importantissima, che la prima qualità di un racconto è l’enigma: ogni storia è un mistero, ogni storia contiene un enigma, anzi spesso più d’uno, e lei accompagna il lettore a scoprirlo.

Facciamo ora l’analisi di questo racconto: l’inizio descrive dettagliatamente la scatola da optometrista del dottor Willens, conservata nel museo locale di una piccola città agricola intorno agli anni ‘50. Poi si parla del ritrovamento del cadavere del dottor Willens, affondato in macchina nella gora del fiume che scorre vicino all’abitato. Il ritrovamento è opera di tre ragazzi che si potrebbero ritenere personaggi chiave e invece non lo sono: infatti questa è solo una divagazione che serve a introdurre i personaggi principali, Enid e la signora Quinn. La Munro ha la passione per le divagazioni, perché vuol raccontare non tanto il fatto quanto quello che vi sta a lato. Subito dopo il ritrovamento del cadavere, viene raccontata l’agonia e la morte della signora Quinn e la storia della sua infermiera Enid. Poi capiremo che i due fatti, la morte della signora Quinn e quella precedente di tre mesi del dottor Willens, sono in qualche modo collegati e in perfetta sequenza cronologica. Ma per ora non facciamo collegamenti di sorta perché gli stacchi temporali sono un’altra passione della Munro. Al centro della storia dunque c’è la relazione tra due donne che sono l’una l’opposto dell’altra: la malata e la sua infermiera. Enid, l’infermiera, è una donna ottimista che dichiara di fare la sua professione con slancio e amore, la sua è una missione, fa la buona fatina che è poi quello che la società si aspetta da lei … non necessariamente pensa di fare la buona moglie o no, questo no ... L’altra, la malata, è al contrario la personificazione del disordine e della trascuratezza. Ci sono molti particolari che lo denunciano: bicchieri opachi, tazze da the tra il ketchup e la carta igienica ecc.: con la Munro bisogna stare attenti ai particolari perché, se chi legge li perde, si perde anche la bellezza della scrittura. E’ infatti una scrittrice del quotidiano, basti pensare alla raccolta che racconta i pianti di una bambina che rifiuta le cure della madre: sono orchestrati in modo assolutamente geniale. La signora Quinn oltre che disordinatissima è permalosa e villana: Enid è meravigliata della sua mancanza di compassione e in più la signora Quinn si rifiuta di fare una buona morte chiamando un prete o ricevendo il marito e le bambine, almeno come conforto. In più ricambia l’ostilità che l’infermiera sembra avere per lei. E’ Enid però che soffre di incubi notturni (sognando per esempio amplessi con partners impensabili) e questo succede quando Enid dorme nella stanza dell’ammalata, come se l’aria fosse appestata e contaminata dalla malattia che per di più manda cattivo odore. Enid si stupisce di questi sogni che non le appartengono e si domanda se sia la malattia della signora Quinn a oscurare il suo ottimismo o se sia la sua mente a essere posseduta dal demonio. Infine liquida tutto come “lerciume mentale”, ricordando le parole della confessione anglicana: “Pentitevi poveri peccatori, pentitevi” e decidendo di buttarsi sul lavoro che, come lei pensa, è il modo migliore per esercitare il pentimento.
Un giorno, e siamo quasi ormai all’agonia della malata, la signora Quinn trascina Enid in una tremenda complicità confessandole che il signor Willens è stato assassinato dal marito, proprio in quella stanza, e le racconta il perché. Il racconto termina con queste parole: “Si diceva che avesse battuto la testa contro lo sterzo, si diceva che fosse ancora vivo nel momento di entrare in acqua. Che ridere!”
Enid rimane sconvolta e sveglia tutta la notte, all’alba va al fiume e vede la vecchia barca. Domanda alle bambine di chi è e loro rispondono che è del padre. Subito rasserenata, fa di quel giorno, che immagina giustamente sarà quello della morte della madre, un giorno memorabile per le bambine: biscotti con lo zucchero colorato, bolle di sapone in giardino, bagno nella tinozza all’aperto, insomma un giorno raro e ricco di avvenimenti. Sotto la potente influenza della storia della signora Quinn, Enid  sviluppa una sua fantasia, quella di forzare Rupert, il marito, a confessare il delitto portandolo fuori in barca con la scusa di una gita e poi, succeda quel che deve succedere, caso mai andrà in prigione a trovarlo. E’ questa fantasia di strana devozione per il colpevole che ci illumina sul ‘mistero’ della sua antipatia per la signora Quinn e del carattere celebrativo che lei, Enid, ha voluto dare al giorno della sua morte. Morte cui lei non assiste o meglio non vuole; tanto è vero che, quando entra in camera, la trova che si sporge dal letto nel tentativo di cercare aiuto. Particolare che non sottoporrà al dottore, rimettendola a posto prima che lui ne constati la morte.
Enid e Rupert sono stati compagni di scuola e, inframmezzate con la storia della morte sono le conversazioni della loro ristabilita amicizia, a sua volta costruita su uno strato più lontano, cioè sugli scherzi che Enid e le sue compagne gli facevano e che lei desidera fargli dimenticare.
Come in molte storie che appunto somigliano a case, come dice l’autrice, anche in questa il presente è la superficie di molti strati del passato: ogni casa porta le tracce delle sue storie precedenti nei segni che le persone lasciano in cantina.
Quando però l’organizzazione della gita in barca è avviata, Enid pensa con grande sollievo: “Perché non devo lasciar tutto come tutti credono che sia? E fare in modo invece di sposare il vedovo? Può nascerne un beneficio per tutti … E allora facciamo finta che il delitto sia la fantasia di una donna malata …” Il racconto si chiude su una probabile storia d’amore e mentre lui va a cercare i remi, Enid “riusciva a sentirsi come se ogni cosa nel raggio di un ampio spazio all’intorno fosse sprofondata nel silenzio”.

Ci sono parentele molto strette tra questo racconto e alcuni film noirs degli anni cinquanta che probabilmente hanno ispirato la Munro. Sono quelli che hanno al centro della trama il triangolo, la complicità di una coppia nell’assassinio del marito o di una terza persona scomoda. I più belli di quegli anni sono a mio parere: Il postino suona sempre due volte, di Jay Garret con una strepitosa Lana Turner, dark lady vestita sempre di bianco; La fiamma del peccato di Billy Wilder con Barbara Stanwyck, altra celebre dark lady con il braccialetto a forma di serpente alla caviglia, indimenticabile, secondo i più, e Brivido caldo di Kasdan, che è del 1981 e ricupera i tempi e le atmosfere dei primi due.
                                                                                   

10-10-2013

 

 

 

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