Alle
cinque della sera
Presentato allo scorso Festival di Cannes e vincitore del Premio della Giuria, questo bel film è la terza opera di Samira Makhmalbaf, figlia d'arte di Mohsen Makhmalbaf (autore di Viaggio a Kandahar). A ventitre anni, dopo aver realizzato La mela nel 1997 e il premiatissimo Lavagne, girato in Kurdistan nel 2000, l'autrice torna sul difficile tema della condizione della donna nei paesi musulmani. "Alle
cinque della sera" è il primo film girato a Kabul
dopo il crollo del regime talebano e racconta le aspirazioni di Noqreh
- ragazza afgana che si muove tra gli orrori della guerra e il desiderio
d'evasione - e anche il suo difficile rapporto con la tradizione e il
ruolo femminile nella società islamica. La giovane vive con il
padre, anziano carrettiere, profondamente rispettoso delle leggi coraniche,
che cerca di guadagnare qualche soldo per mantenere la famiglia, formata
anche da una cognata da poco madre di un bambino. Nell'attesa di ricevere
notizie del figlio camionista, scomparso da mesi e probabilmente morto
in uno dei bombardamenti, il vecchio accompagna tutte le mattine Noqreh
a seguire le orazioni coraniche. La ragazza, che sogna di diventare
il primo presidente di sesso femminile dell'Afghanistan, si reca invece
di nascosto alla scuola dello stato, mostrando liberamente il viso
e indossando scarpette bianche con il tacco. La sua storia è solo il punto di partenza per una riflessione profonda sul disagio e sulle contraddizioni di un popolo sconvolto e confuso da un conflitto inutile: gli anziani che si segnano e fanno penitenza se scorgono il viso delle ragazze con il burka sollevato e i giovani che scalpitano per farsi radere la barba sono solo uno degli aspetti mostrati. Quando la situazione a Kabul peggiora per l'arrivo dei profughi pakistani in cerca di un alloggio, la famiglia di Noqreh comincia a spostarsi di luogo in luogo per trovare un posto sicuro, sino a quando il carrettiere decide di portar via le due donne dalla città, dove imperano il peccato e la perdizione, intraprendendo un disperato viaggio verso le montagne. Annullando
il filtro dei media, la regista mostra, attraverso gli occhi pieni di
speranza della giovane donna, una Kabul disperata e colorata; lancia segnali
di fiducia, ma racconta anche una profonda crisi. Per un bambino che muore
di stenti e freddo, c'è una ragazza come Noqreh che scopre di avere
almeno una possibilità di riscatto. Nessun giudizio sull'operato
dei talebani o degli angloamericani, posti sullo stesso piano. L'unico
messaggio evidente sta scritto nella ripetizione ipnotica dei versi della
poesia di García Lorca che dà il titolo al film:
Noqreh, che li ha imparati da un giovane poeta, sarà padrona di
se stessa nonostante tutto.
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