Assemblea a Roma

 Noi, “uscite dal silenzio” rilanciamo il conflitto
di Lea Melandri

 

Sabato 17 e domenica 18 giugno 2006, presso la Casa internazionale delle donne di Roma, si terrà un incontro nazionale delle assemblee che sono sorte in varie città d’Italia a seguito della manifestazione del 14 gennaio a Milano, e che abbiamo ormai preso l’abitudine di indicare con lo slogan “Usciamo dal silenzio”. Le ragioni che ci spingono a tentare una riflessione collettiva allargata o, se si preferisce, il bilancio di sei mesi di intensa iniziativa politica, sono molte. Comincerò a indicarne alcune.

Non si vedeva da molti anni una volontà così esplicita di protagonismo politico da parte delle donne, riguardante la vita pubblica ai suoi massimi livelli istituzionali (parlamento, giustizia, governo delle città, economia, informazione, ecc.). I risultati sotto questo profilo deludenti delle elezioni politiche, amministrative, e della formazione del nuovo governo, non sembrano aver incrinato la determinazione a tenere aperto, ora più che prima, un conflitto - relativo al rapporto tra i sessi e ai pregiudizi di cui è ancora carico - che si preannuncia tanto più aspro quanto più si fa scoperto e duraturo, implicando sia la sfera privata che pubblica.

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Nuova è anche la presenza, nei gruppi, nelle assemblee cittadine, di donne con percorsi diversi: chi viene dal femminismo, chi da esperienze di partito, pratiche sociali, professioni, settori dell’economia e dei media. Questa mescolanza richiede ascolto e curiosità reciproca, disponibilità ad allentare appartenenze, preoccupazioni identitarie, irrigidite da anni di frammentazione e isolamento. Ha bisogno, soprattutto, di produrre un pensiero complesso, articolato su temi diversi, che oggi si intrecciano a prescindere dalla nostra volontà e consapevolezza. Basta pensare alla Legge 40 - che sta tornando di attualità -, alle sue molteplici implicazioni: sessuali, legislative, scientifiche, etiche, religiose, antropologiche. Riusciremo a intersecare saperi, esperienze e linguaggi diversi, senza alzare ancora una volta pregiudiziali barriere difensive, sospetti e contrapposizioni astratte?

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E’ stata riconosciuta da tutte come un fatto positivo, in questa ripresa di movimento, la partecipazione di donne appartenenti a generazioni diverse. Detto questo si profilano alcuni interrogativi: come evitare che un dato effettivamente interessante produca solo un sentimento consolatorio, la rassicurazione generica della continuità, o un affettuoso abbraccio familiare, trascurando l’impegno che esso ci chiede di tenere insieme memoria e riattualizzazione di sapere e cambiamenti che vengono dalla storia del femminismo? Come far dialogare la consapevolezza di alcune, maturata attraverso una lunga pratica collettiva, e la tendenza diffusa, anche nei movimenti giovanili, a rientrare nella neutralità?

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Abbiamo detto a gran voce, e scritto a varie riprese attraverso lettere e documenti, che condizione prima, imprescindibile, perché ispirata a principi di civiltà e di democrazia compiuta, sarebbe dovuta essere l’ «eguaglianza di statuto tra donne e uomini nella sfera della vita politica, istituzionale e sociale», cioè «pari presenza in tutti i campi decisionali a partire dal governo, consiglio superiore della magistratura, ecc.», e nella sfera privata: cura di bambini e anziani, tradizionalmente riservata alle donne. Non abbiamo visto alcun segnale che andasse in questa direzione. Anzi, a guardare bene, sembra esserci stato un arretramento, una chiusura e, in alcuni casi, episodi di aperta ostilità. Nei dibattiti che hanno accompagnato le due tornate elettorali e fatto seguito alle prime iniziative del governo Prodi, le donne sono scomparse del tutto, persino là dove il loro parere di persone direttamente interessate ed esperte in materia sarebbe dovuto essere imprescindibile. Ad esempio sulla Legge 40, di cui si è tornato a parlare dopo le dichiarazioni del ministro Fabio Mussi riguardo alla ricerca sulle cellule staminali embrionali. Per chi non si accontenta di un commento laconico e scontato - “Si sa, quando il gioco si fa duro…” - viene spontaneo domandarsi quali siano oggi i rapporti interni ai partiti tra uomini e donne, tra donne e donne, perché sia così difficile smascherare l’evidente ambiguità della dichiarata apertura dei partiti ai movimenti, perché le donne che operano nell’informazione siano ancora così esitanti a contrastare la ormai grottesca monosessualità italica del panorama culturale e politico, perché si limitino a fare da intermediarie - vallette o conduttrici che siano -, sempre e comunque un “medium” per gli uomini, una “risorsa” preziosa, indispensabile nella casa come nella città.

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La “femminilizzazione” del lavoro, della politica, della cultura, tanto enfatizzata anche da sinistra, è in realtà l’ultimo baluardo, insidioso perché meno riconoscibile, data la confusione tra “femminile” e donna, di prerogative che il sesso maschile continua a riservare a sé: pensare e decidere, intelligenza, responsabilità politica e senso morale. Tacitate con la dichiarazione di diritti formali e con l’attribuzione di grandi “valori” - esaltazione immaginaria che non è mai mancata storicamente -, le donne restano lì dove le ha collocate una mai tramontata misoginia. Consiglierei di leggere nelle scuole, a distanza di un secolo, *Sesso e carattere* di Otto Weininger per capire con quanta violenza la tanto decantata cultura occidentale, greco-latino-cristiana, bianca e androcentrica abbia parlato e parli tuttora dell’ “essenza”dell’uomo e della donna: «La donna non sta in alcun rapporto con l’idea, non l’afferma né la nega…è amorale, così come è alogica», «Si può ben prevedere l’equiparazione giuridica dell’uomo e della donna, senza perciò credere nella loro eguaglianza morale e intellettuale».

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Siamo testimoni ogni giorno di omicidi e stupri, che restano vergognosamente “fatti di cronaca”, mentre la dicono lunga sull’appropriazione maschile del corpo della donna e sul nodo tragico di amore e odio che si annida fin nei rapporti più intimi. In modo analogo, assistiamo incredule a una quotidiana messa sotto silenzio della cultura e dei cambiamenti di coscienza, di visione del mondo, che abbiamo prodotto nel corso di faticose battaglie di emancipazione e di liberazione. Quanto riusciremo a sopportare questa snervante altalena che ci costringe a identificarci ora con la vittima di un sacrificio cruento, ora a recitare la parte di sagge e inascoltate Cassandre?

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Con queste ultime elezioni, politiche e amministrative, sono entrate in parlamento e nelle amministrazioni donne - pochissime! - che vengono dall’esperienza del femminismo, e con gioia e sorpresa abbiamo sentito pronunciare in quelle arene grondanti di agonismi maschili parole, concetti, linguaggi a molte di noi familiari, perché cresciuti nel crogiuolo di vite raccontate ad altre, fatte oggetto di analisi e di considerazioni più generali. Che le stesse donne, a pochi giorni dalla loro elezione, siano poi ricomparse per riprendere un normale, comune lavoro politico con le singole, i gruppi, le associazioni che le hanno sostenute, è il ponte che aspettavamo perché la “società delle estranee” si sentisse un po’ meno estranea, ma soprattutto perché il femminismo tornasse a lanciare la sua “sfida” alla politica, a partire da tutto ciò che essa continua ciecamente a cancellare, o a regalare alle peggiori inclinazioni del potere: il populismo e il fondamentalismo.
 

questo articolo è apparso su Liberazione del 6 giugno  2006