Attraversare
di Rossana
Rossanda
Vanessa Beecroft
Si dà grande rilievo all'emergere di figure femminili nei ruoli politici
di comando: Angela Merkel è cancelliere in Germania, Michèle Bachelet
premier in Cile e Ségolène Royal candidata alla Presidenza della
Repubblica in Francia, Hillary Clinton corre per la presidenza del 2008
negli Stati Uniti. Ida Dominijanni (il manifesto del 13 marzo 2007)
segnala una
riflessione di Luisa Muraro e Lia Cigarini: sarebbe un effetto del
femminismo.
Sì e no. Certo il ritardo con il quale approdano ai governi è la più
manifesta confessione che il sistema dichiarato di diritti universali non
è tale affatto, o che qualcosa di non detto è riuscito a eluderlo se
neppure i giuristi all´esclusione delle donne hanno dato grande
attenzione. Non è straordinario che, a oltre due secoli dalla
dichiarazione dei diritti del 1789, secondo la quale ogni uomo nasceva
«uguale in diritti» (per «uomo» si intendeva membro della specie umana),
ci si feliciti caldamente se qualche donna avanza nel governo della cosa
pubblica?
Già fra il 1789 e l'ammissione delle donne al suffragio universale,
diritto primo e elementare, era passato mediamente piu d'un secolo e
mezzo. Le donne erano uscite dalla casa e dai campi, dilagavano nel lavoro
e nelle reti sociali, ma filosofia e costume facevano come se non fosse. E
all'inizio del 2000 ci si stupisce che questo avvenga anche nella sfera
politica. Dove peraltro le donne restano assai minoritarie, come dimostra
la discussione fra quote e non quote, quasi che i sessi non fossero
manifestamente due e uguale dovesse esserne la rappresentazione.
Di fronte a questa macroscopica distanza fra principi e realtà degli umani
rapporti, alcune femministe hanno detto che il ritardo del diritto è stato
tale che le piu avvedute lo rifiutavano, stabilendo i veri e decisivi
rapporti solo fra di loro, in una comunità altra.
Sarebbe l'accumulo simbolico di questa comunità critica di donne ad avere
sfondato il muro dei poteri pubblici cui stiamo assistendo? Non so. Lo
sfondamento è denso di valori e di interrogativi. Fa riflettere che esso
si sia verificato nel secolo scorso, e prima che in occidente, in sistemi
che dire di democrazia imperfetta è poco.
E' con la fine del dominio coloniale inglese che si ha la prima donna capo
di stato - se non sbaglio - a Ceylon, Sirimavo Bandanaraike. E poi Indira
Gandhi in India e Benazir Bhutto in Pakistan. Sono contesti tumultuosi e è
determinante il carisma familiare; Indira Gandhi è figlia del Pandit Nehru,
seguace del Mahatma e primo capo dello stato indipendente. Benazir Bhutto,
pakistana, è figlia di Ali Bhutto, impiccato dal colpo di stato del
generale Zia.
La Bandanaraike vedova del leader dell'opposizione appena ucciso. Anche
Violeta Chamorro in Nicaragua e Cory Aquino nelle Filippine sono
ereditiere d'un capo.
Tuttavia se in tutte il nome che portano è stato decisivo nell'accedere
alla carica, nessuna di esse governa come schermo di un altro uomo. Indira
Gandhi diventa anzi una figura di rilievo nel secolo (finirà assassinata
come uno dei suoi figli), ma anche altre hanno governato i loro paesi da
sé e per sé.
Regine a parte (e anche queste poche, e madri o vedove) questo non era
accaduto sino a metà del Novecento, a indipendenze e borghesie nazionali
installate.
Nell'ambito occidentale, tolta Golda Meir che diventa premier in Israele
dopo la guerra dei sei giorni, nel 1969, ci vorranno altri dieci anni per
avere la prima donna premier in Europa: è il 1979 quando entra, a Downing
Street, Margaret Thatcher. Nel suo caso non contano affatto né padre né
marito e figli, come più tardi per la norvegese Gro Brundtland, oggi per
Michèle Bachelet e Angela Merkel e forse domani Ségolène Royal, cui
l'essere in coppia con François Hollande, segretario del partito
socialista nuoce più che non giovi.
Conta invece negli Stati Uniti, che non hanno mai avuto una donna
presidente, se Hillary Clinton si candida con il nome del marito piuttosto
che con il suo, Rodham. E soltanto da quest'anno una donna, Nancy Pelosi,
presiede il Congresso a Washington. In Italia sono molte e da un pezzo le
donne sindaco, ma non si delinea una figura di premier.
Se ne possono trarre delle conclusioni? Per esempio che una figura
femminile emergerebbe più facilmente in situazioni sociali arcaiche e nel
corso di acuti conflitti identitari? Che, salvo nel caso di Golda Meir,
proveniente dalla sinistra politica e sindacale del Mapai e dell'Histadruth,
sono i partiti conservatori a portare alle massime cariche una donna?
Qualche nostra femminista s'era innamorata dell'Irene Pivetti quando la
Lega l'ha imposta come presidente della Camera: giovane e bella, era
sembrata «diversa» da Nilde Jotti, che aveva coperto la stessa carica, o
di Rosy Bindi, che ha molto più protagonismo oltre che sale in zucca. E´
sicuro che Margaret Thatcher ha avuto più fegato del suo partito nel
demolire quel che poteva delle conquiste sociali del Labour, non per
niente l´hanno chiamata la lady di ferro. Ma questo vorrebbe dir solo che
le donne di destra hanno più chances di quelle di sinistra.
In un registro più soft è lo stesso per Angela Merkel, la cui ascesa è
stata contrastata con tutti i mezzi, e non i più puliti, da Gerhard
Schröder e Joschka Fischer. E in chiave antiprogressista sono passate
Violeta Chamorro in Nicaragua e Cory Aquino nelle Filippine.
Farebbe eccezione il Partito socialista in Francia - breve e infelice era
stato il passaggio di Edith Cresson su chiamata di Mitterrand - se
Ségolène Royal non si fosse scelta da sola come candidata alla Presidenza
della repubblica, creandosi una sua base attraverso il suo blog «Désir d'avenir»
e battendo i maschi di famiglia.
Infine, di queste donne femminista non è nessuna, eccezion fatta per Gro
Brundtland e per un iniziale impegno, smentito poi da quel che ha fatto al
governo, Benazir Bhutto. Ad avere la meglio è l'empowerment proposto da
Hillary Clinton, con tutte le sue ambiguità.
Non direi dunque che il femminismo - a stare alla formulazione degli anni
´70-´80 come movimento di liberazione della donna che ha denunciato l'emancipazionismo
come spinta a ottenere gli stessi ruoli dei maschi - sia stato l'elemento
decisivo. Esso ha avuto e mantiene un ruolo assai piu determinante nella
crisi della politica novecentesca che nella ascensione delle donne in
politica. Questa si deve ancora in grandissima parte a quell'emancipazione
femminile che è innestata nella crescita della borghesia occidentale.
Innestata e rispondente alla logica del sistema economico, ma incapace di
obliterare il conflitto sessuale. Esso domina esplicitamente nelle culture
estreme: i neocon strepitano contro il burka ma hanno tenuto fermo il
patriarcato in forme fin derisorie, come il giuramento di castità fatto
dalle figlie ai padri in cerimonie molto d'élite, fra fiori e nastri,
precluso l'ingresso alle madri, a mo´ di garanzia che la consegna della
fanciulla passi da uomo a uomo. La chiesa di Ratzinger si impegna
ossessivamente contro il sacerdozio femminile.
Tutti i fondamentalismi si basano sulla inferiorità della donna, e se mai
c'è da chiedersi perché oggi si manifestino più di ieri. Ma fuori di essi
non cessa una opaca misoginia, mista alla confusione degli uomini su di sé
e il timore d'un crescere di qualche potere femminile. Queste inconfessate
paure sono non meno cogenti del bisogno di forza di lavoro, fisica e
intellettuale, delle donne. In Francia, la candidata Ségolène Royal è
seguita dai media con un voyeurismo compulsivo, dagli abiti che porta alla
minima parola che dice o non dice, e le donne, che non votano mai con
giubilo per le donne, non si privano dei sé e dei ma - ma veste troppo
elegante, no troppo noiosa, ma fa troppo professoressa, no troppo madre,
ma è troppo femminista, no non lo è affatto, ma (e è il dubbio piu
seminato) sarà poi in grado di dirigere un grande paese? Domanda che
nessuno si porrebbe per un maschio con un curriculum come il suo, due
volte ministra, con Mitterrand e con Jospin, e presidente d'una grande
regione. Il patriarcato è incrinato, ma lungi dall'essere finito.
Soprattutto la macchina del governo trita tutto ciò che non sta già nelle
sue articolate maglie. E non perché vecchia e non funzionante, ma perché
complessa e coinvolgente. Molte sono state le donne portate avanti da
Mitterrand, incluse femministe storiche come Antoinette Fouque e Véronique
Néiertz, molte sono state ottime ministre in dicasteri essenziali come
economia e lavoro (Aubry) o giustizia (Guigou), ma nel sistema politico
nulla hanno cambiato, non dico le forme o il metodo, ma neppure nelle
proporzioni fra contenuti.
Esso è impermeabile: anche il presentarsi di Cicciolina a Montecitorio
nuda sotto la bandiera nazionale ha turbato un momento, è scivolata via
come la pioggia sulle piume di un´anitra. Se la società civile, quale che
sia il senso che si voglia dare alla parola, se ne ritira, esso continua a
macinare le decisioni, e è penoso sentir ripetere che esso sarebbe in
crisi.
Non è in crisi, l'astensione essendo un suo meccanismo di funzionamento
messo in conto. Così è anche quando se ne ritirano le donne dichiarandolo
inessenziale. O se ne cambiano i codici o si subiscono.
Ma come si cambiano? Il discorso sarebbe lungo. Mi ha colpito la morte di
Angela Putino, cui Luisa Muraro ha dedicato una bella e affettuosa
pagina sul manifesto del 17 gennaio scorso. Angela era esile come
un uccello e il suo ragionare era un volo di rondine che lasciava senza
fiato. Ma la sua riflessione sul farsi del soggetto, dell'idea di sé nelle
culture e nel tempo mi pare la più fertile; avviene, essa scrive, come
similmente all'evoluzione delle forme biologiche, vista più da Cuvier che
da Darwin, per attriti e inclusioni, non sorretta da un disegno finale ma
disegnando più fini, via via formantisi e formatori.
La «differenza» delle donne sarebbe «l'estraneità» alla storia, guidata
finora da un solo sesso, e oggi affiorata alla coscienza e non più subita.
Così ne parlava Virginia Woolf e Putino reinterpreta: essa produce uno
sguardo diverso, una lettura altra.
Nella «società delle estranee» avevo, a suo tempo, veduto un rifiuto di
ingerirsi. Putino lo vede un'ingerenza permanente, uno sguardo da un altro
punto di fuga, un approccio via via modificato da quel che vede e che a
sua volta modifica. E' un farsi, una storicità senza alcun determinismo,
che liquida il dilemma fra omogeneizzarci al pensato politico o voltargli
le spalle.
A condizione che non pensiamo a noi stesse come un progetto finale ma
inattuato, quale è suggerito dall'ordine della madre, o da chi ci vede
come portatrici di sentimenti e passioni che romperebbero con l'astrazione
del maschile (e quindi del politico, peraltro traversato fin troppo da
passioni e sentimenti, alti e bassi). Le soggettività di Angela sono
differenti e connesse per frizione, chiuse e aperte, mai ripetentesi tali
e quali.
E' una chiave per ricontrattare e riscrivere le regole del pensare e fare
politico. Che dunque dovremmo riattraversare tutto sempre da chi guarda
venendo da un punto diverso, ma guarda, non si distrae, vuol vedere tutto.
E nel farlo persegue, per così dire, umanamente, un conflitto che non
approdi a un suicidio o a una messa a morte, anche se molto deve cadere.
In questa chiave leggerei l'affermarsi di alcune donne dentro gli schemi
di un'emacipazione che ha modificato la scena anche per l'accumulo di
un´esperienza di sé femminista, andata oltre di essa. Anche e oltre.
Questo articolo è stato pubblicato da
il manifesto
il 23 Marzo 2007
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