E' stato opportuno richiamare una delle posizioni femministe sull'aborto nel dibattito interno al movimento negli anni Settanta, la depenalizzazione; ma riportare questa posizione come l'unica femminista, attribuendo solo alle donne dei partiti la scelta della legalizzazione, mi sembra non aiuti a capire fino in fondo i termini della discussione in corso, e soprattutto, rischi di privarci di alcune risorse che la nostra Costituzione ancora ci fornisce. Il dilemma depenalizzazione/legalizzazione fu interno al movimento femminista, che su questo si divise e si aggregò in forme nuove: penso che se quelle divisioni furono dolorosamente utili, le ragioni di quel dilemma erano e restano indivisibili, poichè il rapporto tra il corpo femminile, il diritto e le leggi è ab origine problematico, non può essere rimosso anche se esso è forse irrisolvibile nell'attuale ordine simbolico, giuridico e politico, ma è un problema da affrontare. Forse per ragioni legate al mio "mestiere di storica", forse perché vivo in una città del sud, l'attenzione ai contesti mi fece optare in quegli anni per la legalizzazione, ritenendola la scelta più vicina ai bisogni concreti di tutte le donne, che potevano - pensavo allora - accedere a un servizio pubblico a testa alta, sperimentando forse per la prima volta la possibilità di essere cittadine di sesso femminile. Naturalmente molti erano i dubbi e i dissensi, ma obtorto collo difendemmo quella legge, che aveva molti difetti e qualche pregio. Nel corso degli anni Ottanta, la forza di un pensiero della differenza sostanzialmente disinteressato ai contesti storici ed esplicitamente ostile a stabilire un nesso tra donne e democrazia ha indotto in molte della mia generazione politica una sorta di reticenza femminista a parlare di "diritti delle donne", che pure vanno nominati per quello che sono, oggi e qui, concretamente. Quando nel 1791 Olympe de Gouges scrisse la sua Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina fece un'operazione politica tanto geniale quanto necessaria: poichè i "diritti dell'uomo" proclamati a grandi lettere due anni prima non riguardavano le donne, prese uno per uno i 17 articoli dell'89 e li declinò al femminile, come diremmo adesso. La 194 non afferma quindi un fantomatico "diritto all'aborto" ma applica puntualmente la Costituzione repubblicana nelle parti che riguardano la libertà individuale (in particolare gli articoli 2,3,13,19, 21) e il diritto alla salute (articolo 2). Forse solo l'iscrizione dell'inviolabilità del corpo femminile e della sovranità procreativa delle donne nel patto costituente (undici anni addietro avevo pensato un Preambolo alla Costituzione...) potrebbero fare argine a questa continua rimessa in questione dei diritti civili delle donne quando si riferiscono al loro corpo e alla loro sessualità.
8-02-2008 |