Lettera
di Emma Baeri


Frida Kahlo


Cara Lea, il tuo intervento e quello di Angela Azzaro su "Liberazione" mi hanno fatto venir voglia di uscire fuori dalla mia  pigrizia per comunicarti alcune mie riflessioni sui temi che puntualmente, quasi rispettando le tue trentennali previsioni, tornano ad essere al centro del dibattito politico: il corpo femminile e la parola maschile su di esso.

E' stato opportuno richiamare una delle posizioni femministe sull'aborto nel dibattito interno al movimento negli anni Settanta, la depenalizzazione; ma riportare questa posizione come l'unica femminista, attribuendo solo alle donne dei partiti la scelta della legalizzazione, mi sembra non aiuti a capire fino in fondo i termini della discussione in corso, e soprattutto,  rischi di privarci di alcune risorse che la nostra Costituzione ancora ci fornisce. 

Il dilemma depenalizzazione/legalizzazione fu interno al movimento femminista, che su questo si divise e si aggregò in forme nuove: penso che se quelle divisioni furono dolorosamente utili, le ragioni di quel dilemma erano e restano indivisibili, poichè il rapporto tra il corpo femminile, il diritto e le leggi è ab origine problematico, non può essere rimosso anche se  esso è forse irrisolvibile nell'attuale ordine simbolico, giuridico e politico, ma è un problema da affrontare.

Forse per ragioni legate al mio "mestiere di storica", forse perché vivo in una città del sud, l'attenzione ai contesti mi fece optare in quegli anni per la legalizzazione, ritenendola la scelta più vicina ai bisogni concreti di tutte le donne, che potevano - pensavo allora - accedere a un servizio pubblico a testa alta, sperimentando forse per la prima volta la possibilità di essere cittadine di sesso femminile.
Nacque allora un movimento trasversale, che - ripeto - non era solo delle donne dei partiti, ma includeva donne di varia provenienza ed esperienza. Ho chiamato quell'aggregazione intelligente e lungimirante "movimento lesbofemminista delle donne", perchè donne con diverse storie politiche scelsero di farne parte strategicamente, direi anche generosamente, vista la presenza in esso di molte donne impegnate fino a quel momento esclusivamente nella pratica politica dell'autocoscienza.

Naturalmente molti erano i dubbi e i dissensi, ma obtorto collo difendemmo quella legge,  che aveva molti difetti e qualche pregio.
Alla distanza, i difetti hanno preso il sopravvento, i pregi sono stati continuamete messi in discussione.
I difetti, come è noto, erano soprattutto quelli che avrebbero portato a una crescente e opportunistica obiezione di coscienza di massa da parte dei medici, e al perdurare della clandestinità per le minorenni.
I pregi sono l'autodeterminazione della donna e la tutela della sua salute psicofisica.

Nel corso degli anni Ottanta, la forza di un pensiero della differenza sostanzialmente disinteressato ai contesti storici ed esplicitamente ostile a stabilire un nesso tra donne e democrazia ha indotto in molte della mia generazione politica una sorta di reticenza femminista a parlare di "diritti delle donne", che pure vanno nominati per quello che sono, oggi e qui, concretamente.

Quando nel 1791 Olympe de Gouges scrisse la sua Dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina fece un'operazione politica tanto geniale quanto necessaria: poichè i "diritti dell'uomo" proclamati a grandi lettere due anni prima non riguardavano le donne, prese uno per uno i 17 articoli dell'89 e li declinò al femminile, come diremmo adesso.
Arrivata all'articolo 11, quello che, affermando che "la libera comunicazione dei pensieri e delle opinioni è uno dei diritti più preziosi dell'uomo"  iscriveva la libertà di coscienza nello statuto del cittadino, Olympe continuava così: "....è uno dei diritti più preziosi della donna poichè questa libertà assicura la legittimità dei padri verso i figli. Ogni cittadina può dunque dire liberamente 'io sono la madre di un figlio vostro' senza che un pregiudizio barbaro la forzi a nascondere la verità; salvo a rispondere dell'abuso di questa libertà nei casi stabiliti dalla legge".

Allora era questione di una libertà di coscienza e di parola da esercitare contro il diffuso disconoscimento di paternità, oggi è questione di libertà di coscienza e di parola nella scelta di diventare madri: si tratta in entrambi casi di una declinazione dei diritti civili astratti rispetto a un corpo femminile che ad essi sfugge da tutte le parti, ma che vanno comunque affermati come diritti civili individuali, indiscutibili.

La 194 non afferma quindi un fantomatico "diritto all'aborto" ma applica puntualmente la Costituzione repubblicana nelle parti che riguardano la libertà individuale (in particolare gli articoli 2,3,13,19, 21) e il diritto alla salute (articolo 2). 
Nel corso di questi trent'anni, di fronte alla ripetuta minaccia della reversibilità dei diritti civili quando essi incontrano il corpo femminile  ho pensato più volte, alternativamente, di aver fatto la scelta giusta e di aver fatto quella sbagliata: se la legalizzazione mi è parsa contenere il rischio grave che oggi vistosamente si presenta.  Non so se la depenalizzazione avrebbe schivato questo rischio: ancora me lo chiedo.

Forse solo l'iscrizione dell'inviolabilità del corpo femminile e della sovranità procreativa delle donne nel patto costituente (undici anni addietro avevo pensato un Preambolo alla Costituzione...) potrebbero fare argine a questa continua rimessa in questione dei diritti civili delle donne quando si riferiscono al loro corpo e alla loro sessualità.

 

8-02-2008

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