L’uso globale del corpo femminile:
gli anelli mancanti nella discussione sull’aborto
di Lea Melandri


Milano, 14 gennaio 2006

Domenica sera, intervistato dal Tg1  -non si sa a quale titolo-, Giuliano Ferrara apre la sua personale campagna elettorale con l’appello per una “moratoria sull’aborto”, che spera di far giungere fino alle Nazioni Unite.
Il giorno dopo, lunedì 28.1.08, sul quotidiano Repubblica, esce la risposta lucida, ampiamente argomentata di Gustavo Zagrebelsky, che riporta i termini della questione ai suoi presupposti giuridici, oltre che economici, sociali e culturali. Cade l’ipocrita copertura che vorrebbe far credere che l’iniziativa di Ferrara non abbia niente a che fare con la “revisione” della Legge 194.
Scrive Zagrebelsky: “Lo slogan ‘moratoria dell’aborto’, stabilendo una ‘stringente analogia’ (card. Bagnasco alla Cei, il 21 gennaio) tra pena di morte e aborto”, di fatto li accomuna “come assassinii legali…Una cosa è chiedere alle Nazioni Unite di condannare i Paesi che usano l’aborto come strumento di controllo demografico e di selezioni di ‘genere’…diverso, in riferimento alle società dove l’aborto non è imposto, ma è, sotto certe condizioni, ammesso. ‘Moratoria’ non può significare che divieto. Per noi sarebbe un tornare a prima del 1975, quando la donna che abortiva lo faceva illegalmente, e dunque clandestinamente, rischiava severe sanzioni”.

Sulla scena pubblica, la ‘crociata’ aperta da Giuliano Ferrara, e dalle più alte gerarchie della Chiesa, vede protagonisti quasi unici uomini contro altri uomini, accusatori o difensori di un ‘femminile’ che, in assenza di voci reali di donne, si colora inevitabilmente a tinte contrastanti: Bene e Male, Vita e Morte, vittima e aggressore.
Se il “mettere a tu per tu la donna e il concepito” permette a Ferrara di sostenere la necessità di una legge che protegga “l’inerme, l’incolpevole” dall’ “arbitrio del più forte”, l’analisi dettagliata che Zagrebelsky fa della “catena di violenze”  -“psicofisiche, morali, sociali, economiche”- che incombono sulla donna, lo porta alla conclusione inconfutabile che essa è a sua volta un “soggetto debole”, e che, caricarla integralmente “dell’intero peso della violenza di cui la società è intrisa”, vuol dire continuare a vederla come “strumento di riproduzione”.
Ma se andiamo poi a vedere il contesto entro cui si va a collocare questa “violenza dei deboli sui più deboli”, non è difficile accorgersi che l’aborto torna ad essere una questione essenzialmente ‘femminile’.

La “condizione umana”, che nessuna minaccia di pene è mai riuscita a cambiare, e che perciò grava come una fatalità sulla vita delle donne, ha a che fare, secondo Zagrebelsky, con “la crudeltà della natura e l’ingiustizia della società”, mentre richiama, per il credente, il senso profondo della maledizione divina: “Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze”.
Se la natura e le sue risorse non possono far fronte a una crescita demografica illimitata, la società a sua volta non sembra far molto per garantire occupazione, stabilità nel lavoro, servizi sociali e sostegni economici alle coppie che vogliono figli. A ciò si aggiunge il fatto che, se in “condizioni normali” una gravidanza è “onorata e protetta”, in “situazioni anormali” può diventare la vergogna o la pietra dello scandalo.

Nel discorso di Zagrebelsky, ci sono almeno due passaggi mancanti  -ma si potrebbe anche dire ‘rimozioni’-, che possono tuttavia aiutarci a capire perché sia così restia a venire alla coscienza storica una verità evidente: cioè il rapporto della gravidanza con la sessualità, e della sessualità con il dominio maschile  -appropriazione del corpo della donna, espropriazione della sessualità femminile, incanalata verso l’obbligo riproduttivo, esaltazione della virilità come potere fecondante.

“Questo atto, che nell’eterosessualità appare scontato, un percorso ‘naturale’ e preordinato il cui momento finale e unico orientamento è la penetrazione/eiaculazione/fecondazione, si rivela come uso globale del territorio corporeo femminile, indifferente alle esigenze delle donne, di ciascuna donna…Se un sesso ha più potere dell’altro, non si rifletterà tutto ciò sulla sessualità?” (Paola Tabet, La grande beffa, Rubbettino 2004). L’incitamento verso una sessualità riproduttiva al servizio di un uomo nel matrimonio, eredità di un passato tutt’altro che estinto,  non è forse la ragione prima di quel senso di colpa, di quella vergogna che intervengono, come dice Zagrebelsky, nelle “situazioni anormali”, come le gravidanze fuori dal matrimonio, i figli indesiderati all’interno di legami coniugali?

L’assenza, quando si parla del problema dell’aborto, dell’unico ‘soggetto’ a cui è stata riconosciuta una sessualità propria –una sessualità riproduttiva-, il potere di imporla anche con la forza, e quindi di provocare gravidanze indesiderate, dovrebbe quanto meno indurre a chiedersi dove è finito l’attore primo di quello che continua ad apparire come un “dramma” con una protagonista unica.

Forse, a leggere attentamente lo scritto di Zagrebelsky, ci si accorge che in realtà l’uomo c’è: c’è come figlio potenziale, promessa racchiusa in quel “tu” che “deve ancora diventare persona”, ma che la “tutela del concepito”, prevista oggi da una legge dello Stato italiano, ha fatto assurgere a soggetto titolare di diritti, primo tra tutti il “diritto a nascere”. Il che significa, di conseguenza, che la donna deve portare avanti la gravidanza, “costi quel che costi”.
Il fatto che Zagrebelsky veda nella Legge 194 la soluzione intermedia fra ‘due soggetti’, garantiti entrambi da diritti costituzionali  -da un parte i diritti inviolabili dell’uomo, dall’altra la salute della donna-, dice indirettamente che non viene messa in discussione la personalità giuridica dell’embrione, sancita dalla Legge 40, a cui fanno appello oggi tutte le ‘crociate’ contro l’aborto, in Italia e fuori. Ne è prova il fatto che, al primo posto nella “catene delle violenze”, Zagrebelsky nomina “la violenza sull’essere umano in formazione, privato del diritto alla vita”.

L’immaginario che cancella il rapporto uomo-donna, sovrapponendogli la coppia madre-figlio, deve essere una delle ‘invarianti’ più coriacee della cultura maschile, se può accostare senza turbamento l’iconografia cattolica delle Vergini Madri con Bambino allo scenario ‘irriverente’ delle biotecnologie, che trasferisce lo status di essere umano su un “fatto scientifico”, isolato in laboratorio –lo zigote-, mentre, come va ripetendo Barbara Duden, trasforma la donna nell’ “ambiente uterino” in cui dovrà svolgersi la “crescita fetale”.
Ma sono solo il desiderio e la nostalgia di figlio a tener lontano dalla cultura politica l’asservimento che l’uomo ha fatto del corpo che l’ha generato?
Una rimozione analoga è quella che si nota in molti comunicati, appelli e volantini  di donne, che in questi giorni si moltiplicano in difesa della Legge 194, preoccupati di salvare il diritto della donna a decidere del proprio corpo e della propria vita, ma silenziosi su tutte le condizioni storiche che hanno reso questa libertà impraticabile.
La ‘ribellione’ delle donne torna a farsi sentire, nelle vie delle città e nelle piazze virtuali dei blog, delle mailing list, ma rischia di presentarsi smemorata rispetto all’intuizione che ha sovvertito coscienze, pregiudizi antichi come il mondo, costruzioni sociali dell’uomo passate come leggi naturali o volontà divina.

Sulla “catena delle violenze”, che pesano sulle donne e che continuano tutt’oggi a renderne così flebile e sporadico il protagonismo sulla scena pubblica, manca ancora una parola articolata, estesa a tutti gli aspetti di un potere che unisce, come scrive Paola Tabet, “sfruttamento economico, oppressione sessuale, limitazione della conoscenza”.
E’ su questa ‘globalità’ del dominio più duraturo della storia che resta ancora molto da dire, mettendo insieme i tasselli dei tanti saperi che il femminismo va esplorando pazientemente da anni, riconoscendo i cambiamenti che ha prodotto e che oggi vede con sorpresa riaffiorare in una generazione più giovane.

 

questo articolo è apparso su Liberazione del 1 febbraio 2008

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