Racconto una storia, una storia del secolo scorso

Barbara Mapelli


Malvina Hoffman, Couple

Anni Settanta del Novecento: sono con alcuni amici e amiche in uno dei tanti festival che si tenevano al Parco Lambro o in altri luoghi simili, un po’ politici, un po’ musicali. Facciamo cerchio tra noi e scende la sera, c’è una coppia, sposata, e lei visibilmente flirta con un altro uomo finchè vedo che parlotta un po’ col marito, si alzano dal plaid su cui erano seduti, lui lo raccoglie, lo scuote e va a stenderlo più in là, distendendone bene le pieghe. Allora si alza anche il secondo uomo e con la donna vanno a sdraiarsi sul plaid, con l’intenzione evidente di fare l’amore, il marito torna tra noi apparentemente tranquillo dopo aver approntato l’alcova per i due.

Benchè si fosse negli anni della dichiarata libertà sessuale e io sia, come molti e molte assolutamente persuasa che mio dovere sia allinearmi, non posso non avere un momento di stupore, però mi guardo intorno, nessuno dice niente, mi reprimo anch’io. Il ‘marito’ è seduto non lontano da me, lo guardo meglio, è un uomo come tanti, forse un po’ più vecchio di noi, un tic però attraversa ogni tanto il suo viso e ha le unghie della mani mangiate fino a farle sanguinare.

Allora mi chiedo, ma è questa la libertà sessuale? Non so che fine abbia fatto quella coppia, non li ho più frequentati e poi ero allora nel mezzo della mia personale crisi e sulla soglia del divorzio: forse anche loro, come tanti, si saranno separati o forse no, non so.

Quello che allora accadeva lo conosciamo: noi donne volevamo scrollarci dalle spalle e dalla vita il pesante basto di una sessualità non riconosciuta, non consentita, repressa e considerata illegittima, come il nostro stesso desiderio, volevamo buttare all’aria la coppia, avevamo orrore delle famiglie borghesi da cui provenivamo, decretavamo la morte di tutto ciò e, con noi, ma talvolta, spesso, nostre vittime, i nostri compagni, o fidanzati o mariti. Ciò che volevamo era più che legittimo, ma vissuto e praticato con ingenuità e presunzione, come se bastasse girare una pagina…e allora prevaleva l’ideologia, il dover essere. La coppia deve essere aperta, tutti devono avere le chiavi di casa di tutti, niente porte chiuse, si fa il bagno nudi tutti insieme e se ci sono i bambini anche meglio e…non bere coca cola perché così uccidi un vietnamita.

Ci siamo accorte di quanto l’ideologia possa far danni: certamente ora le donne godono di una libertà sessuale impensata per il passato, ma i pregiudizi sono ancora potenti, i due pesi e due misure albergano allegramente nelle menti, anche nostre, a proposito del diverso significato della sessualità per donne e uomini. Anche nelle nuove generazioni. Ed è questa un’area di riflessività che occorre affrontare, continuare a farlo perché è qui che principalmente si formano e attecchiscono le radici della violenza, si sviluppano qui le paure e i timori degli uomini, il senso di inadeguatezza rispetto alle scelte delle donne e il desiderio di sottrarsi alla prova facendo ricorso alle pratiche e ai valori del maschio predatore e violento.

Ma, proseguendo il discorso su quegli anni, la mia riflessione, condivisa peraltro da molte che come me li hanno vissuti, trova un altro elemento di criticità. Scrivo in un testo di alcuni anni fa.

Il femminismo del secondo Novecento, se pure ha riconosciuto le disimmetrie tra donne e uomini a proposito del discorso d’amore, ha però privilegiato nelle sue analisi teoriche e politiche l’ambito della sessualità, la denuncia di una morale diffusa e imposta che ha sempre negato alle donne la libertà e il diritto al piacere.

Forse questa è stata una mancanza che non ha consentito, allora e successivamente, di dare pieno valore alle capacità, competenze e sapienze d’amore delle donne, opera che invece si è compiuta nel riconoscimento di qualità che indubbiamente appartengono alle virtù dell’amore – la cura, l’attenzione, la sensibilità – ma non ne toccano a fondo i significati centrali, forse solo lambiscono la forza e l’intelligenza che le donne hanno espresso (possono esprimere?) nell’amore.

Forse lo stesso pensiero e la ricerca delle donne non ha saputo sopportare e sciogliere l’ambiguità che ha sempre legato l’amore femminile alla subordinazione, ha combattuto soprattutto la seconda e trascurato il primo, pensando bastasse – ed è stata una grande illusione – cercare la libertà sessuale.

L’eredità per le donne più giovani è un patrimonio non elaborato, che mantiene irrisolte tutte le proprie ambiguità, che faticano a trasformarsi in possibili valenze positive, virtù di ambivalenza, proprio perché mancano alcuni dei percorsi che potrebbero avviare consapevolezze individuali e collettive.

Il racconto d’amore non ha avuto seguito nella narrazione tra donne (B.M., Sette vite come i gatti, Ed.Stripes, 2010, pp 33,34).


Ancora un appunto critico, con l’attenzione al Movimento nella contemporaneità: non so se conseguenza di quanto ho detto prima però mi sembra che, soprattutto le donne e femminste della mia generazione, fatichino ad accettare e comprendere come i temi della sessualità e dell’amore stiano mutando, come i discorsi necessariamente comprendano altri piani, privilegiando non più e soltanto il tema dell’amore tra donne e uomini, ma piuttosto le fluidità, il divenire e i cambiamenti nelle identità sessuate e negli orientamenti affettivi. E le critiche che ci giungono dalle donne più giovani esprimono spesso il giudizio di un femminismo moralista, che ancora si abbandona, quasi inconsapevolmente, a stereotipi tradizionali: madri, più o meno simboliche, e puttane, donne cui affidarsi e donne che si espongono, che vendono il proprio corpo. E sottolineano, ‘le insidie moraliste che possono nascondersi in certe denunce’ (L’amore al tempo dello tsunami, a cura di Gaia Giuliani, Manuela Galetto e Chiara Martucci, ed Ombre corte, 2014, p.137).

L’affermazione si riferisce in particolare al documentario Il corpo delle donne, ma credo debba destare un’attenzione più generale da parte nostra e di tutte.

Per terminare vorrei proporre, anche disordinatamente, alcune considerazioni su cui credo si debba continuare a riflettere.

Forse ogni discorso sull’amore – ma anche sulla sessualità – è inadeguato, perché ogni parola, detta o scritta, fissa un momento, scatta un’istantanea che già è superata nel momento in cui viene pronunciata, perché l’amore è vivo, vivente, continua a mutare e il nostro stesso dire lo muta. Eppure non bisogna mai smettere di pensare, discutere e scrivere sull’amore - lì sta il centro del nostro essere e del nostro essere nel mondo - in una continua e perpetua narrazione, poiché, come scrive il filosofo Jean Luc Nancy, è proprio di ciò che non si riesce a definire che si deve continuare a parlare.

Non si deve smettere di spingere la parola, la lingua e il discorso contro questo corpo dal contatto incerto, intermittente, che si sottrae continuamente e che tuttavia insiste (J.L.N., Sull’amore, ed. Bollati Boringhieri, 2009, p.18)

Per cercare di avvicinarci – anche – a quell’irrisolta, e irresolubile, ambiguità dell’amore che ci unisce all’altro/altra in un modo che irreversibilmente ci muta, usciamo alterate e alterati da questo incontro nell’amore con l’alterità. E desideriamo la fusione e al tempo stesso la rifuggiamo, desideriamo per noi e l’altro/altra la libertà e la temiamo. Le nostre e altrui ambivalenze emergono con tale forza nel rapporto d’amore, irrisolte e irrisolvibili, ma ci avvicinano, senza che ci sia mai però una stazione d’arrivo, a noi stesse e stessi.

 

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