Grande “tradizione” femminista alla prova delle
differenze
di Beatrice Busi
L’irruzione delle donne nei luoghi istituzionalizzati del sapere è un
fenomeno storicamente recente. Niente di concesso, tutto di conquistato.
Prima, da generazioni di lotta e protesta che hanno fatto da arieti contro
l’esclusione femminile dai gradi d’istruzione più elevati. Poi, da un
lavoro paziente e perseverante condotto come talpe laboriose contro il
sospetto delegittimamente operato a lungo dall’accademia nei confronti
della teoria prodotta da donne. Un tipo di teoria molto particolare, non
finalizzata alla costruzione di sistemi, perché come ha scritto Rosi
Braidotti è frutto della “passione”, risponde alla pulsione etica e
politica costitutiva del femminismo ed è «desiderio costante di forme di
ricerca, di espressione e di trasmissione di potere altre da quelle
costituite nel sistema discorsivo patriarcale».
Perché come diceva Teresa De Lauretis, il bisogno di teoria delle donne
deriva dalla «necessità di perseguire strategie di discorso che diano voce
al silenzio delle donne dentro, attraverso, contro, al di sopra, al di
sotto e al di là del linguaggio degli uomini». Ma a coloro che hanno
attraversato il Simposio dell’associazione internazionale delle filosofe
che si è svolto a Roma da giovedì 31 agosto a domenica scorsa,
probabilmente il tempo del silenzio delle donne deve essere sembrato
lontanissimo. Quattro giorni di discussioni fittissime, articolate tra
workshop e lunghe relazioni, tra le aule del Rettorato dell’Università di
Roma Tre e la Casa internazionale delle donne, hanno restituito l’immagine
di un pensiero consolidato e ormai maturo che non ha più bisogno di
denunciare le esclusioni ma che è tutto impegnato al suo interno a trovare
punti di equilibrio e traiettorie comuni, trasformando nel proprio punto
di forza quell’ambivalenza costituiva dovuta al “parlare il silenzio delle
donne con il linguaggio degli uomini”. Un paradosso e un’ambivalenza che
molte delle relazioni hanno indicato come un modo di stare nelle cose del
mondo, specifico del femminismo. Un’ambivalenza che determina un continuo
movimento delle donne tra “dentro” e “fuori”. Portando la cultura politica
delle donne dentro le università e rompendo lo schema mimetico di un
sapere neutro e falsamente universale. Portando la pratica della relazione
nelle istituzioni sociali e politiche, rompendo logiche di dominio e
potere. Portando le competenze affettive dentro il mercato del lavoro,
“femminilizzandolo” e rompendo la logica della competizione per insaturare
il principio della cooperazione. Portando l’etica della cura nella sfera
pubblica per mettere la “vita quotidiana” al cuore del governo. Portando
soggetti corporei ed incarnati nella politica dei diritti per renderla
strumento di libertà.
Nel Simposio le tracce di queste rivoluzioni locali hanno costituito una
trama di rimandi continui tra le relazioni di
Françoise Collin e di Luisa Muraro nel panel sul rapporto tra
esperienza e teoria, quella di Lia Cigarini sul lavoro, quelle di Tamar
Pitch e Ida Dominijanni su governo, regole e relazioni, di Chiara Zamboni
sulla vita quotidiana, di Manuela Fraire su sessualità e inconscio.
Ma il fatto che il Simposio, giunto alla sua dodicesima edizione, quest’anno
si svolgesse proprio in Italia, in parte ha pesato anche negativamente sul
taglio con cui sono stati affrontati alcuni temi. Se il tema generale era
il “pensiero dell’esperienza”, il filo conduttore implicito è stato
soprattutto il “pensiero della differenza sessuale”. In effetti, nel
femminismo italiano degli ultimi vent’anni, l’impegno è stato
prevalentemente profuso nella messa a punto o nella messa in discussione
della produzione teorica della Libreria delle donne di Milano e della
comunità filosofica di Diotima. Sono invece rimaste in ombra le altre
“differenze” che negli Stati uniti e nel Nord Europa hanno trovato uno
spazio pubblico di agibilità discorsiva, sia dentro che fuori dai “gender
studies”, come le soggettività lesbiche, queer e postcoloniali. Anzi,
l’obiettivo polemico che ha attraversato molte delle relazioni, è stato
paradossalmente proprio quella parte di pensiero femminista e non solo,
che ha fatto della decostruzione il proprio stile intellettuale, cercando
di superare le gabbie identitarie e mettendo l’accento più sulle
differenze tra donne che sulla differenza binaria tra uomo e donna. Uno
stile che spesso è diventato anche pratica politica nelle nuove
generazioni del movimento femminista, cresciute leggendo Donna Haraway,
Judith Butler e Teresa De Lauretis e che spesso preferiscono stabilire
alleanze di affinità con il movimento gay lesbico e transgender che non
con le femministe “venute prima” di loro.
A tratti il peso della “tradizione” della teoria femminista italiana si è
fatta sentire anche per quella tendenza a celebrare vittorie frettolose
che ha caratterizzato il femminismo della differenza dal 1996 in poi,
quando la Libreria delle donne di Milano proclamava la “fine del
patriarcato” nel “Sottosopra rosso”. Una celebrazione che rischia di
impedire un confronto schietto sulle nuove sfide globali che i femminismi
devono affrontare. Fatta eccezione per le relazioni di Aminata Traorè, che
ha denunciato la devastazione del continente africano operata dalle
politiche neoliberiste, e della studiosa georgiana Londa Esadze, che ha
ricordato come corruzione e scarsa rappresentanza femminile siano fenomeni
correlati, ci si è quasi dimenticate di esplorare ed indagare il lato
oscuro della luna. Perchè “portare tutto al mercato del lavoro” significa
anche che non c’è più distinzione tra tempo di vita e tempo di lavoro,
perché lo stesso bio-potere usa dispositivi di cura e presa in carico
della vita. Significativamente, è riuscito ad uscire dalla retorica della
vittoria del femminismo, anche il panel su scienze e tecnologie, nel quale
la discussione tra Elena Gagliasso, Caterina Botti e Gabriella Bonacchi
attorno alla relazione di Barbara Duden, ha sottolineato il rischio di una
“decorporeizzazione” del vivente, catturato tra l’invasività delle
pratiche della tecnoscienza, esercitate in primo luogo sulle donne, e
dell’uso strumentale che si fa del linguaggio scientifico nello spazio
pubblico.
Invece, nessuna vittoria da celebrare e nessuna reticenza sul lato oscuro
della luna, o meglio sul “lato B” come lo ha definito Federica Giardini di
Matri_x, durante il workshop “Genealogie al presente”, che sabato sera ha
visto confrontarsi proprio “quelle venute dopo”, la generazione delle
trenta-quarantenni, tra le quali i gruppi femministi Sexyshock, Sconvegno
e A/matrix, il laboratorio Sguardi sulle differenze, Matri_x, le webmaster
del sito della Libreria delle donne e la rete Sui Generis. L’accento è
stato posto sul disagio della precarietà, materiale ed esistenziale, e
sulla ricerca di un territorio di azione comune per trasformare le
strategie di resistenza individuali in azione collettiva. Ma se è proprio
l’esperienza che separa diverse generazioni di donne e rende diversi i
femminismi, troviamo altri luoghi e altri modi per discuterne, per far
parlare davvero queste differenze tra loro e “mettere al mondo” nuove ed
altre impreviste libertà.
questo articolo è apparso su
Liberazione del 5 settembre 2006 |