Francesca Caminoli, Viaggio in requiem

 

“Viaggio in requiem” di Francesca Caminoli è il diario del viaggio che l’autrice ha compiuto da Lucca, dove abita, a Otranto dove un anno prima il figlio Guido, pittore, decise, a 26 anni, di chiudere la sua vita.
Il libro è uscito in febbraio e da allora Francesca ha iniziato un altro viaggio in giro per l’Italia per presentarlo: da Lucca a Milano, da Roma a Torino, da Forlì a Carrara, da Firenze a Cesena, "Viaggio in requiem” è stato quasi sempre presentato da donne, amiche di Francesca ma anche no. Un viaggio faticoso quasi come il primo, ma come il primo forte, intimo, commosso, un viaggio che continua a cercare di tenere insieme la vita e la morte e che è stato di aiuto a molte persone.
Presentiamo gli interventi di Lidia Campagnano, Maddalena Gasparini, Simonetta Melani e Assunta Sarlo.

 

Lidia Campagnano
Casa Internazionale delle Donne, Roma, 6 maggio 2010

Come si trasforma, un diario personale, in un vero libro? Ricordo la riflessione condotta in un gruppo femminista di tanti anni fa su questo argomento: il diario, questa scrittura ambiguamente segreta che moltissime donne hanno tenuto nei loro cassetti, si rivelava spesso il non-libro per antonomasia. A una rilettura critica, specie se sperimentata dopo anni dalla loro scrittura, i diari sembravano parlare una lingua inadatta a “dire la verità”, proprio quell’intima verità alla quale aspiravano. Nel parlare dei sentimenti, quei quaderni perdevano per strada proprio il lato più personale del vissuto e prendevano a prestito vocaboli e frasi del repertorio letterario più scontato. Eppure quel rapporto complicato con la tradizione letteraria ( e amorosa) esprimeva un desiderio, attorno al rapporto tra scrittura e vita, al limite dell’utopia.
Viaggio in requiem nasce con l’intenzione di fare un diario: l’autrice, in viaggio per strade secondarie da Lucca a Otranto, dove il giovane figlio si è suicidato un anno prima, lo scrive di sera negli alberghi dove fa sosta. Scrivere, forse, per imbrigliare nella rete del linguaggio l’impulso potenzialmente folle e torturante di fare che una morte insopportabile non sia avvenuta. O per prestare la propria voce al desiderio di rimettere al mondo – sul foglio-mondo – tutto ciò che, insieme a un figlio, ha avuto vita, vitalità. Ma questo diario, spontaneamente, è subito un libro, nel senso più pieno: è un racconto, un racconto di viaggio e un racconto di un lutto tra i più tragici, di quelli che sembrano impossibili a dirsi e a compiersi. Del viaggio e del racconto ha il ritmo, l’amorosa cura dello spazio, un tempo di andata e ritorno, la meditazione, la bellezza descrittiva, i personaggi, la qualità della scrittura, alcune figure: i girasoli, il mare, i buoni cibi pregustati nelle soste.
Come è avvenuta questa metamorfosi, e perché?
In una pagina l’autrice ricorda che, un giorno, il figlio l’aveva esortata a decidersi: voleva fare la scrittrice sul serio o no? Lei era restìa, forse perché non voleva che scrivere fosse il suo lavoro, o la sua identità, o forse perché in quella definizione – scrittrice – c’è qualcosa di retorico, di ridondante e dunque di fasullo. Non aveva risposto. La risposta è questa metamorfosi del diario, questo fare un libro.
Ovvero: perché nasca un libro bisogna sentire che questa nascita è necessaria, e non solo a sé, bisogna poter sognare una committenza imperiosa. Bisogna stare in una relazione nella quale il libro si colloca come risposta di fatto a domande essenziali, attraverso le quali l’interlocuzione e l’interlocutore prendono forma.
Domande come queste: chi sono io, chi sei tu.
Mi sembrano queste le domande che attraversano questo libro. Domande anomale, all’interno di un rapporto del quale sembra sia stato detto tutto – il rapporto tra madre e figlio – e che, invece, si presenta alla volontà di prendere e dare parola come non ancora detto, o non detto soprattutto dove la tragedia e la morte volontaria sono intervenuti a lacerarlo.
Chi sono io, chi sei tu sono le prime domande che si presentano quando quella tela discontinua eppure tenace che tesse il senso di ogni vita viene lacerato Sono dunque domande che si ripresentano più volte nel corso della vita: ad ogni svolta significativa, ad ogni età (si può dire che segnino il succedersi delle varie età) chiamando a una trasformazione che è il risultato di tentativi, di ricuciture, di rammendi dall’esito finale imprevedibile in partenza.
La tragedia è una di queste svolte, e la tragedia di cui si parla in queste pagine è tra le più violente e impedisce la risposta scontata a quelle domande: La risposta sono tua madre, sei mio figlio non basta a nessuno dei due, in questa relazione, per trovare il senso della vita, o della morte. Tanto più perché si tratta di una relazione piena d’amore. L’amore esige il rispetto, l’amore di fronte alla morte vuole rendere onore (sta scritto, qui), cioè una forma di rispetto estremo.
E’ il rispetto ad avviare il racconto che narra di due persone ben distinte: c’erano una donna in permanente trasformazione e ricerca e un giovane uomo, suo figlio, in permanente trasformazione e ricerca. Ora rimane lei, sulla scena della vita, a reggere anche il desiderio di trasformazione (la vitalità) di lui che non può più cercare. E’ lei a trasformare lui, sulla base delle tracce che il figlio ha disseminato, e delle quali è lei a fare la ricerca, è lei a crearne-scoprirne la mappa.
La mappa di un viaggio. La mappa del viaggio nel mondo così com’è: un paesaggio, fatto di colori e materie e persone e vicende E’ con questo viaggio e questo racconto del mondo-mappa-figlio che si recupera l’amore, e anche molti amori. Perché, tra l’altro, è cosa rara leggere in un viaggio tutto italiano, dal centro al sud, un così forte e semplice amore per questo nostro pesante paese, per questo paesaggio che “appartiene” all’autrice, a suo figlio (che è pittore) e a tutti e tutte noi che lo percorriamo e lo guardiamo. Non la Patria, concetto irrecuperabile per la mia generazione, ma un continuum familiare di cose, persone, tracce di persone passate da riconoscere e reinterpretare perennemente, o da ereditare creativamente.
Riconosco nell’autrice una donna della mia generazione. La riconosco soprattutto attraverso questo imperativo: trasformazione. Trasformazione del soggetto insieme alla trasformazione del mondo attorno, delle sue leggi, delle sue relazioni, della sua struttura. Così che l’autocoscienza da recuperare e da formare, avviene immediatamente anche come coscienza dell’altro e di altro. In una nuova interpretazione, vorrei dire, degli antichi ideali di libertà, uguaglianza e fratellanza, ridefiniti continuamente e molto in profondità, nelle loro radici personali e antropologiche.
Riconosco una storia di femminilità nella quale ci siamo misurate ogni volta “volando” (un verbo caro alla scrittrice) verso una trascendenza – oltre sé, oltre il corpo che siamo nelle sue vicende obbligate, e ogni volta tornando a quel corpo così presente e segnato dalle sue necessità, corpo che cresce, che parla, si ammala, guarisce un po’, si esprime, vive e muore.
Corpo e paesaggio attorno, che qui si incontrano in momenti di dolore e in momenti di gioia: in momenti di bellezza nei quali “non ci sono pensieri”, forse perché costituiscono la scoperta sconcertante, sconvolgente se avviene nel mezzo di un lutto, che il dolore e la gioia più acuti scaturiscono dalla medesima fonte, non separati.
Un’ultima notazione, sul linguaggio: è la sua sobrietà, la sua asciuttezza a essere commovente. Si sente il tono della voce, con le sue note di umiltà e di fierezza, così da consentire a chi legge di riconoscere, nella voce narrante, qualche nota anche della propria stessa voce, ricevendo così un aiuto a prendere la parola su temi che hanno bisogno di coraggio per essere trattati, e sono cruciali.

 

Assunta Sarlo
Casa della Cultura, Milano, 3 marzo 2010


Il libro di Francesca, che è giornalista e scrittrice, che lavora con i ragazzi di strada in Nicaragua , che lì ha aperto una scuola di pittura cui andranno i diritti di Viaggio in requiem , che ha scritto nel 1999 Il giorno di  Bajram che è stato tradotto anche in serbo e poi La neve di Ahmed che è stato letto in moltissime scuole e  portato anche in teatro, ecco questo libro di cui oggi parliamo richiede che vi si entri dentro in punta di piedi, con discrezione e che se ne esca, poi  quasi in silenzio.
Questa almeno è l’impressione che ha fatto a me che non ho conosciuto Guido, il figlio di Francesca che questo libro racconta e onora, che non l’ho visto bambino, adolescente, giovane adulto, alle prese con una vita che mi sembra sia stata tanto ricca quanto faticosa. 
Le poche cose che dirò per introdurre le letture di brani di Viaggio in requiem e poi gli interventi “amici” di Maddalena Gasparini e Giovanni Lanzone rispondono in qualche modo alla domanda: “Perché questo libro mi riguarda, come incontra e come interroga la mia esperienza materna?”

Per appunti sparsi. Che cos’è, a mio avviso, questo libro?
Viaggio in requiem è la cronaca di un viaggio  avvertito come necessario e insieme privatissimo.  Francesca non racconterà a nessuno di coloro che incontrerà il vero motivo del suo viaggio verso sud.
E’ il viaggio di Francesca da Lucca verso Otranto, un anno dopo la morte di Guido,  deciso e realizzato per essere in quel giorno di settembre proprio lì dov’era lui, sui bastioni del castello di Otranto dove ha scelto di andarsene. E’ un viaggio in cui lei attraversa un’Italia del margine,  quella che resta fuori dalle rotte autostradali quanto dal racconto  dei media – ho copiato tutti nomi dei  bei paesi che Francesca incontra  e cita, si chiamano San Clemente, Pietrapertosa, Pescocostanzo, insieme riempiono una pagina e sono lo sfondo animato e vivo di un viaggio che cerca una misura di tempo diversa, più lenta, non certo da casello a casello.  Anche un modo di vivere diverso: Francesca dirà ad un certo punto che è meglio, se un meglio c’è, che Guido sia morto a sud, che lì loro, quando sono andati a riprenderlo, hanno trovato una compassione antica, un sentimento che altrove forse è più difficile da incontrare.

Su e giù per altipiani e strade, colline e il mare in lontananza,  montagne severe e rocce, calanchi, argille... su e giù lasciandosi alle spalle e reincontrando  stati d’animo, piccole osai di quiete e raffiche di un dolore che lascia senza fiato. “Tutto, anche poco, è troppo per me” scrive Francesca ad un certo punto del viaggio,  quasi scappando via da una festa di paese , quasi che l’armonia di quella scena fosse per lei insopportabile.
E’ un dialogo a due, serratissimo,  a tratti molto teso, a tratti ironico, a tratti tenero e pieno di nostalgia : “ il mio bambino felice che dipingeva sempre” scrive Francesca perché giustamente non ci sta a schiacciare la vita di Guido sul fotogramma della sua fine o, peggio, del suo disagio di vivere. Un dialogo alto, esigente,  che continua: “sei stato prima il bambino, poi il ragazzo, poi il quasi uomo, anzi l’uomo che mi ha obbligato  a guardare e a guardarmi nel profondo”.
Un dialogo che a me, lettrice e madre di un figlio e di una figlia, ha confermato una sensazione che spesso provo:  di una signoria tutta speciale, che ha a che fare con la differenza di genere, che il figlio, il figlio maschio proprio perché è altro da sè – non così una figlia, che ci è simile nel corpo, nei riti femminili, nella potenzialità materna -  esercita sulla madre. 
Questo libro è anche un rito del lutto,  anche questo necessario a chi ha voltato le spalle o non ha mai fatto sue le cerimonie con cui le religioni accompagnano l’ultimo saluto a chi se ne è andato.  Un lungo rito, se è vero e nella mia esperienza è vero che i riti, i cimiteri  servono a tenere insieme, a non separare, a dedicarsi interamente a chi non c’è, a obbligarsi a guardare un’altra dimensione. Quella del mistero, scrive Francesca, rimproverata da Guido per non avergli indicato una dimensione spirituale, ma che sa bene che non tutto può essere spiegato e compreso: “il tempo di dirmi che ci sono misteri  che non possiamo e non dobbiamo comprendere, perché la parola mistero non deve scomparire dal nostro vocabolario” scrive Francesca.

Viaggio in requiem
è un racconto di paesaggi: città, paesi, montagne e valli ma anche paesaggi interiori e paesaggi umani: tutte le persone della vita di Guido,  i suoi amici, i suoi amori, i nonni e i nipotini sono le presenze del viaggio di Francesca, sono l’indizio della ricchezza di relazioni che stava intorno a Guido, a lei stessa.
E infine, ed è la parte più difficile da dire, è la parte più difficile da guardare, questo libro è una scelta di coraggio perché ce ne vuole di coraggio per esplorare la ferita materna che la morte di un figlio provoca, per trovare le parole per dirlo, per non chiudersi in un silenzio incomunicabile, per non darsi l’alibi del pudore, per entrare “nell’intimo delle madri” , titolo di un bel libro dedicato al materno, firmato da Sophie Marinopoulos e che in tante abbiamo letto.

“C’è sola una cosa peggiore  della morte di un figlio. Che voglia morire” è la frase che Francesca ha scelto dal film Mare dentro di Amenabar. Dietro c’è la domanda più difficile: possiamo noi pensare, riusciamo a pensare che i nostri amori trovino pace lontano da noi, se a noi, in ogni momento, sembra impossibile trovarla senza di loro?
E riusciamo a  dirci che l’amore materno, l’amore che protegge, che tiene per mano- certo anche l’amore che fa male, che  sbaglia, che danneggia come o più di altri amori -  non è capace di fare  quello che pensa essere il proprio compito fino in fondo, trattenere chi se ne vuole andare. Per chi legge, per me che ho letto, è questo il nodo più dolente del libro.

Lo sappiamo, lo sa Francesca e lo scrive, siamo imperfetti genitori, facciamo quello che sappiamo o che ci sembra giusto e chissà se lo è: ecco il viaggio di Francesca, che è anche terapeutico è anche un viaggio nel proprio essere genitori, nel faticoso venire a patti con il proprio desiderio di onnipotenza e di mai finita protezione del figlio.
Ma in ultimo: se è vero che i bravi genitori sono quelli che, poi alla fine, regalano la libertà di andare, ecco il saluto di Francesca a Guido è nel dargli proprio quello che mai avrebbe voluto concedergli: l’autorizzazione a lasciarla.

 

Maddalena Gasparini
Casa della Cultura, Milano, 3 marzo 2010

Partire è un po’ come tornare. Non so quanti anni fa con Francesca si compilava uno di quei giochi estivi, del tipo “che viaggiatore sei”.

Il senso che entrambe davamo al viaggio l’ho ritrovato in questo libro che narra di un doppio ritorno: al luogo dove Guido era morto un anno prima, e poi a casa, da Sara, la figlia e dai bambini.
Un ritorno lento il primo, scandito dai nomi dei paesi che attraversa, dei luoghi dove si ferma; che incuriosiscono senza distrarre, dell’Italia dove “tutto va adagio”.

Ho fatto la lista dei luoghi nominati, è lunga 2 pagine. Ho scoperto che la pasta all’amatriciana prende il nome da Amatrice, il paese, e mi è rimasta la curiosità del nome: amatrice, amante. Ho riconosciuto Castel del Monte, “astronave atterrata sulla collina più alta” e il “Tavoliere delle Puglie immenso e giallo”, la luce dei paesi lontani dal turismo e degli spazi aperti che sorprendono, l’Elba che ha visto giocare le nostre figlie ragazzine e Guido del cui ultimo viaggio all’isola ci restano foto sorridenti. “La bellezza che non permette pensieri né tristi né allegri … ti lascia in apnea”. La bellezza consola.
Un viaggio che non esclude una sosta dagli amici, un’immersione nelle acque termali, la passeggiata nel parco dove tutto è proibito. E’ un viaggio da sola, e non poteva essere altrimenti, ma non esclude l’incontro, l’ascolto: dei vecchi che discutono di come si preparano i peperoni col tonno, dei pescatori che parlano un dialetto pugliese così stretto, che si rivela essere marocchino. Storie leggere, da sorridere.
E’ un avvicinamento lento che attraverso i paesi attraversa il dolore, finchè diventa possibile il saluto che era mancato un anno prima: “ti lascerò andare perché ho potuto salutarti”.

La prima lettura mi ha consolato; è generosa la condivisione della perdita: molti altri hanno conosciuto e perso Guido. Così la seconda lettura ho potuto piangere. Finalmente. Perché di fronte al dolore della madre, ogni altro dolore è trattenuto, come per pudore.

Mi è difficile andare a Musocco, il cimitero dei milanesi dove girano i bus dell’ATM e le ruspe lavorano alle fosse; ma non c’è paese d’Italia che visito dove non vada a fare un giro al cimitero. Perché assomigliano ai paesi di cui accolgono gli abitanti. Non fa eccezione il cimitero di Torre, che accoglie le ceneri di Guido, sul pendio di una valle che guarda verso il mare della Versilia; o il “cimitero barbarico” di Matera, dove trova senso il pianto del giorno prima nella chiesa cui fa da tetto; un cimitero antico, dove è possibile immaginare raccolte e sepolte vicine le persone care. E vicine a Guido: nel non-luogo dove ha voluto andare saranno importanti per lui come lo sono state per lei in una vita ormai remota. Il legame fra generazioni e tempi si fa trama del racconto, accenna all’origine, forse una radice ebraica, forse un’ascendenza slava.
Quando siamo andate a trovare Guido al cimitero di Torre, in una giornata grigissima e piovosa è misteriosamente uscito il sole: un messaggio dalla “latenza” come la chiama l’amico nel biglietto infilato al margine della lapide. Latenza come latitanza, un luogo da cui si possono mandare solo messaggi in codice: il sole di quel giorno e il nubifragio a chiudere il funerale sulle note di Redemption song, la neve il giorno del compleanno e il giorno che può essere trascritto l’ultimo capitolo del diario, l’aria “scherzosa” che spinge giù per il sentiero dei Monti Sibillini.
“Ci sono misteri che non possiamo e non dobbiamo comprendere”- scrive Francesca. Sono i misteri che permettono di sentire oltre l’esperienza dei sensi, di amare oltre la presenza, di “trovare i segni”, ombre di quella “prima e totale felicità” che unisce la madre e il suo piccolo. Nel mistero c’è spazio per la libertà, per immaginare nuove strade: il viaggio del resto prende le mosse da un richiamo, quella neve di marzo, amata da Guido, inviata alla madre il giorno del compleanno.

Il 12 settembre è l’anniversario, è il giorno dell’attesa e della ricerca. L’incontro non avverrà sui bastioni del castello da cui Guido ha preso il volo, ma sotto, nel prato che l’ha accolto senza troppo ferirlo; nel prato dove saranno deposti i girasoli; come l’anno prima, come a Torre da Sara, la sorella, come al cimitero degli Schiavoni a Matera. I girasoli sono volti al sorgere del sole, come l’ultimo sguardo di Guido.

Dunque la consolazione, il pianto che scioglie il dolore, ma anche un pensiero che va oltre. La modernità ha prima spostato i cimiteri fuori dalla città, poi la morte lontano dai nostri discorsi. Viviamo “un’immortalità provvisoria” (Jonesco) e abbiamo affidato alla medicina il modo e il tempo della morte e del lutto. Il diario di Francesca ricolloca la morte e il lutto nelle storie della vita: è difficile lasciare, forse di più lasciare andare. Ma si può tenere imprigionato chi si ama? “Non siete onnipotenti né eterni” ci dice il gesto di Guido, che da un mondo che disperava potesse essere migliore ha preferito “emigrare”.

E’ la luce del tramonto di Otranto, che richiama Francesca verso casa; dove il diario prenderà la forma di questo straordinario “taccuino di viaggio”, di cui non possiamo che esserle grate.

 

Simonetta Melani
Fondazione I Care, Fucecchio, 28 marzo 2010

Questo libro di Francesca Caminoli ha due forze: una forza sta nella rievocazione e cioè nella memoria del figlio e quindi nel riaffiorare continuo della sua figura nel senso stretto del termine, direi proprio una materializzazione; l’altra sta dentro nella sua scrittura limpida, come lei è, trasparente,  ma impietosa, che affonda dritta, che non distoglie lo sguardo.

A Lucca, non so se anche altrove, si è fatta, e giustamente dato il luogo di vita di Guido, una presentazione assembleare che era lettura di pagine scelte liberamente da parte degli amici di tuo figlio e tuoi. Quindi si è resa memoria collettiva, un rito laico, una commovente restituzione della figura di Guido in un’assemblea familiare di affetti.
Il libro si faceva veglia e viatico. La memoria, appunto. Il primo elemento forte e immediato che emerge.
Ma ciò non deve confondere e deviarci, anche se il rischio c’è e non è banale, da un’attenta lettura del libro che è anche soprattutto altro.

Il libro è interessante per altri versi, e vorrei provare ad entrare nelle qualità della tua scrittura, sollevando anche e naturalmente aspetti d’interiorità, di emotività, e di personalissima tensione e facendone a te interrogazione di conferma o meno.
Quindi vorrei cercare di  lasciare da parte tutto ciò che riguarda direttamente tuo figlio e come il dolore si faccia qui esemplare maestro di vita (anche  se prometterlo mi è difficile per quanto la sua presenza nella tua scrittura è connaturata)

La scrittura di Francesca è semplice e bella. Cosa di per sè eccezionale perchè estremamente rara. Il libro è prezioso per una qualità di scrittura diretta, immediata, che non conosce trucchi, va in naturalezza e tutto funziona a meraviglia. Il libro è una confessione piana, e il lettore è accolto in quella, è incorporato.

La bellezza, dice Dostoevskij, ci salverà.
E la bellezza salva Francesca. Tutto il libro è una ricerca di bellezza.
Il mistero della bellezza si presenta fin dall’inizio, con una citazione a tal proposito di Guido,  e poi torna molto spesso nelle pagine del libro, direi che segue il percorso del libro. 
Addirittura tu, Francesca, parli di bellezza riferendoti al prato che ha accolto il corpo di Guido nel tuffo dal castello, perché, soffice come un tappeto, te lo ha restituito intero.
La bellezza del paesaggio è talora così esclusiva che in sè basta e non sopporta altro, neppure la musica della radio. Altre ti fa piangere, come a Matera.
La bellezza sta nei quadri di Guido, che si fanno ricordare dal paesaggio attraversato ed è anche nella forza della vita (la figlia e i suoi bambini)  che ti richiama nei momenti di disperazione.

Questo concetto di bellezza che ricorre variegato nelle pagine del libro, anima il tuo viaggio. In un certo senso è consolatorio, cioè predispone te ma anche il lettore ad un’accoglienza rilassata di un racconto che potrebbe essere devastante per la sua drammaticità. Quindi sorprende, avvisa, dà forza e vibra, ma anche conforta.

La tua scrittura ti riflette. Tu scrivi e parli senza mediazioni. La tua scrittura è il tuo specchio. Non ci sono grossi misteri e se ci sono sei pronta a svelarli guardando l’altro negli occhi, senza pudori.
Se il mistero della bellezza di cui ho detto segue il libro e ce lo dona e lo segna come un tatto, come un crisma, molto più intrigante e interessante è invece l’uso che fai del “viaggio”.

Ho tentato di entrare nella tua scrittura in un viaggio nel tuo viaggio, in quel viaggio reale che fai, come spostamento su terra, che nella narrazione si fa paesaggio ma anche si denuda dell’immagine oleografica e si fa altro.
Voglio dire che la descrizione ambientale si sottomette ad altre funzioni. Non sempre, perché a volte è pura descrizione, cosa che in sè è già affascinante.
Funzioni che aprono scenari interni, interiori ed usano il paesaggio, lo scenario, come uno scalpello che apre la memoria e non solo, scolpisce altri paesaggi interiori.
Ho così registrato alcune funzioni del viaggio, del suo uso, nel tuo libro, Francesca.

Francesca per me, fai del “viaggio” un alimento, un cibo, cioè assumi il viaggio, inteso come spostamento nel reale, e te ne alimenti.
Lo assumi nel tuo corpo, ne fai materia. E non a caso tu, come persona, ami il movimento, ami il ritmo, il ballo, e senti il mondo come tua città e penso al Nicaragua dove spesso sei. Quindi il viaggiare fa parte della tua alimentazione.
E non è un caso il fatto che tu sei nata come giornalista: si riflette in modo chiaro, anche qui, dove il viaggio esteriore è in realtà un susseguirsi di paesaggi e visioni: entra dagli occhi e si muove in ogni organo del tuo corpo, dando benessere e malessere, come un cibo, appunto.
Questo vien fuori in modo chiaro anche in altri tuoi libri, dove il viaggio si presenta sempre, come momento fondante, di snodo, in un nucleo narrativo. Il viaggio si fa protagonista, entra e si fa sangue della narrazione.

In questo libro è il protagonista assoluto: il viaggio fa vivere te e il figlio, è un potente conduttore, non è un momento della storia, è la storia, è il corpo della storia.

Abbiamo detto il viaggio come alimento.
Attraverso tappe ora obbligate ora estrose si avverte l’odore fresco dell’appunto, dell’annotazione di corsa, di una cronaca compulsiva, quasi una calligrafia veloce che riporta ad una dimensione, se non scolastica, adolescenziale certamente molto di pancia e anche di piacere ( si parla anche di cucina tipica, e torna l’alimento).

Questa giovinezza, che ritrovo anche in te come persona, conserva una distanza, uno schermo di timidezza nell’avvicinarti al reale.
Ne vien fuori un elenco di località più o meno obbligate che il lettore potrebbe davvero seguire e ritrovare come in una guida turistica. La lettura geografica del percorso stradale è in realtà anche una pennellata che non ricorda gli affreschi dei grandi viaggiatori romantici perché non sei un flâneur:  il fine del viaggio infatti non è questo bel vagabondare, non è una segnalazione colta, una visione paesaggistica romanzata, un reportage letterario,  ma è un’ansia, è una caccia, è il dramma d’amore di una donna che deve risolvere un dubbio di vita nella morte, di un’ansia di riappropriazione carnale, materica appunto,  di una ragione spirituale.
Sei istintiva, ma anche insicura, c’è una paura, una tensione, come se tu avessi paura di scottarti.
La bellezza può far male, infatti, come trovare ciò che si cerca può deluderci.

Il viaggio è quindi anche descrizione, ma in questa linea d’ombra.

Tornando alla tua sincerità di carattere, che si riflette nel libro senza alcun infingimento seppur letterario, rimbalza un sussulto nel linguaggio che si fa rivelatore di un rapporto che in genere un genitore tende a non ammettere o addirittura a non riconoscere, ed è quando presa dalla paura chiedi apertamente al figlio aiuto: il figlio si fa allora guida del viaggio, si fa fratello maggiore con un’autorevolezza che forse  tu  hai sentito reale nel vostro rapporto.

È lui che ti porta dove lui vuole ed in ogni luogo si fa riconoscere per un segno. Questa tua sottomessa debolezza, questo tuo abbandono a seguire una scia cambia  la percezione del viaggio che, oltre a profilarsi come una panoramica di paesaggi di cui ci doni scorci e meraviglie come pure assaggi di intimità, oltre ad esser cibo, si fa percorso di memoria e catarsi liberatoria: come per magia, un cammino di segnali, come coi sassolini di Pollicino, ci guida fino alla fine: il segnale si fa motivo di riferimento al passato, ai ricordi familiari, alle persone.  Soprattutto Guido, ovviamente - e anche in modo apparentemente bislacco cioè per associazioni assurde, senza fondamento logico nell’immediato che par sorprendere anche te, come per esempio il condurti in luoghi che tu faticosamente poi riallacci  ai suoi deliri, come la  discendenza giudaica della vostra famiglia.

Ma questo VOLER VEDERE ALTRO insinua il sospetto di un tuo delirio, di una tua sana forma di follia (cosa tipica dei visionari, dei folli, vedere elementi, cose che si trasformano in  “segni”, in stigmate, presenze reali anche se impossibili, come in un transfert).

Quindi il viaggio, oltre che alimento e descrizione, si fa devianza, apre scenari diversi, un altro paesaggio spacca il paesaggio, usi le allucinazioni in un viaggio già allucinante fin dall’inizio per la sua ferocia contro te stessa e che per telefono, come ricorderai, ti sconsigliai di fare.
E in questa deviazione surreale si fa magico. Non è una magia soprannaturale, inaspettata ma è una magia grezza, umana, terrigna, un recupero dati da una memoria familiare che soccorre e si fa riacciuffare per la coda.
Il viaggio si fa delirio nel delirio del figlio, s’incunea nella sua stessa strada

Questo viaggio d’amore ha un appuntamento: il castello di Otranto alle 17,30 del 12 settembre. Il giorno e l’ora del suicidio di Guido.
Il libro si apre con una ferita, una perdita che si fa caccia al tesoro, si cerca il figlio perduto, appaiono segni che si fanno sostanziali presenze: la spinta ad andare là, dove il figlio ha preso il volo, è un tentativo di riacchiappare quel senso di perdita. L’ultimo tentativo per dare pace alla domanda di questa perdita.

Che cosa chiede Francesca al figlio? una riappacificazione con sè stessa per la sua scelta di morte.
Riappacificazione che avverrà dopo essersi perdonata come madre.
A Ostuni, sente entrare il figlio in lei come un parto rovescio. Riappropriandosi della sua persona, rifacendolo cosa propria, in una simbiosi totale, Francesca sente che il figlio torna a lei, alle origini, e lei se ne riappropria.

Francesca ricorda al figlio, gli amici, le amiche, le possibili risorse, le innamorate... gli dà le nuove, lo informa. Inoltre invita il figlio a riprendere un rapporto col padre che ha lasciato con la cornetta in mano per ben tre volte e in silenzio prima di uccidersi. Quindi il viaggio le riconsegna un potere genitoriale: riprende il suo ruolo di madre, lo informa, lo invita, lo brontola, lo mette davanti alle sue debolezze. 
Quindi il viaggio oltre che cibo e descrizione letteraria e delirio, si fa dunque terapia

Ora una curiosità. Riappacificata, io ne son certa, che finito il libro, ti sei riappacificata. Vorrei chiederti, se c’è dell’altro.
Per esempio: esiste una coincidenza cronologica fra lo scriverlo e certe tue ultime scelte di vita? Il tuo ritorno recente alla casa dei tuoi genitori, vicino a loro e a tua figlia, è maturato con la scrittura di questo libro?
Credo infatti che il libro sia nato non solo per trovare una tua pace con Guido ma anche per riconciliarti con i tuoi, in una tua serenità come figlia: non solo Guido è entrato di nuovo in te, ma anche tu, Francesca, sei entrata di nuovo nella tua famiglia, ti sei riavvicinata al corpo della famiglia, con l’ultimo recente trasloco sei entrata in un appartamento che sta sotto quello dei tuoi genitori e vicino a tua figlia, ai suoi bambini.
Quindi la tua vita fa ritorno in piena maturità all’origine.
E non credo sia una scelta dettata soltanto dalle necessità dei tuoi, quanto da un bisogno tuo, di respirare in una rinnovata pienezza familiare, di rilassarti, ricucendo in bellezza, appunto, i ritagli della tua vita. Una ricomposizione cui accenna Guido nell’esergo: “Quando la necessità incontra la bellezza trovo lo spazio che tutti i sensi in sé raccoglie”

 

 

Francesca Caminoli, Viaggio in requiem
Jaka Book, gennaio 2010, € 12

 

22-06-2010

home