Presentazione del 4 dicembre 2015 a Siena

del libro

Femminile e maschile nel lavoro e nel diritto. Una narrazione differente
a cura di Maria Dolores Santos Fernàndez



Intervento di Maria Grazia Campari


La lettura di quest’opera collettanea nelle sue varie narrazioni di esperienza, mi ha molto interessato. Mi ha anche dato un senso di sollievo che deriva dalla seguente constatazione: in tempi molto bui per il diritto del lavoro, quindi per la società nel suo complesso, alcune giuriste e giuristi si interrogano con indagine acuta a livello teorico e ripercorrono anche attualizzandoli spunti di elaborazione che mi hanno visto coinvolta.

La mia speranza è che abbiamo saputo elaborare almeno spunti iniziali nel tentativo di operare vuoti nel pieno dell’ordinamento giuridico monosessuato maschile.

Perché da questo libro comprendo che per alcune/i giuriste/i la risposta al quesito che venti anni fa ci sentivamo rivolgere provocatoriamente (dopo il numero monografico di Democrazia e Diritto cui si fa riferimento nel testo) “diritto sessuato”? esiste? è la seguente: certamente esiste ed è, appunto, rappresentato dall’ordinamento giuridico vigente.

Su questo aspetto vorrei tornare in seguito con una proposta.

Cito dal libro secondo un ordine mio che non è necessariamente quello dei vari apporti che vi figurano.

Privilegio gli spunti di riflessione che sento più prossimi alla mia esperienza esistenziale come avvocata specializzata in diritto lavoro, cioè un diritto che, come annota Laura Mora Cabello nel pezzo su”Lavorare all’Università oggi, ti attraversa” e che, quindi, “deve mettere al centro la vita: Primum Vivere” come ricordato opportunamente nella “Introduzione” (da Maria Dolores Santos Fernàndez).

Non potrebbe essere più distante la legislazione attuale, neoliberista, frammentata, postmoderna, come bene lascia intendere la vulgata della “flessibilità delle risorse umane”, sussunte in una prospettiva di precarietà distante dal “diritto antagonista” (cioè di stretta attuazione costituzionale) degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso (Lorenzo Gaeta “Io,io,io…. e il diritto del lavoro”)

Quindi, quello attuale non è un “diritto del lavoro degno” (Michela De Rosa) poiché non offre quella certezza di stabilità che è garanzia di vita libera e dignitosa, secondo il precetto costituzionale.

La prospettiva precaria soprattutto per le/i giovani, rende sterile anche il dibattito sulla conciliazione fra tempi personali/lavorativi e famigliari, che certo non può essere considerata appannaggio solo femminile, ma che si riferisce prevalentemente a una tipologia lavorativa tipica del passato, “cioè stabile e giustamente retribuita in cui sia ipotizzabile una pianificazione preventiva e coerente dei tempi di lavoro”(“Il precariato e la conciliazione di vita e lavoro: dalla contraddizione teorica all’insostenibilità pratica”, Milena Bogoni)

Viene meno la capacità di controllo sulla propria esistenza e si determina una percezione generazionale di autoesclusione che si riverbera nella sfera pubblica e pregiudica l’esercizio dei diritti di cittadinanza (ivi).

La flessibilità oraria pensata come possibilità di autogoverno individuale della prestazione lavorativa si è rivelata in realtà come estrinsecazione della pretesa imprenditoriale di decidere l’organizzazione del tempo in modo da piegare il tempo della vita alle esigenze della produzione” (“Riflettendo su Immagina che il Lavoro”, Giovanni Orlandini)

Emerge una problematicità lavorativa/esistenziale che mi pare, purtroppo, autentica e che, del resto, combacia con molti casi che ho dovuto affrontare nella mia pratica professionale, in particolare dagli anni Duemila. Casi che evidenziano una sorta di anticipazione di precarietà giocata, però, nella cornice garantista del diritto di allora.

Ne riferisco analiticamente in due scritti degli anni 2009 e 2010: “Donne ai confini dello stato sociale” e “Donne sull’orlo della crisi: casi di lavoro femminile fra produzione riproduzione” nel testo collettaneo L’Emancipazione Malata edito dalla Libera Università delle Donne di Milano.

Si faceva allora presente che il futuro ha un cuore antico, cioè si affacciava la possibilità concreta di un regresso nella trama dei diritti e delle garanzie per tutti coloro (la maggioranza degli umani) che la lotteria della nascita ovvero le scelte personali collocano assai distanti dalle leve del potere. Respingono, cioè, ai margini della società, opulenta o in crisi che sia.

Molti dei casi riferiti (episodi di conflitti agiti in aziende metalmeccaniche, della grande distribuzione, del c.d. terziario avanzato, quando ancora esistevano più o meno in buona salute) mostravano un intreccio fra conflitto di classe e conflitto di sesso per l’aggiudicazione di risorse via via sempre più scarse.

Si era reso evidente che, anche in situazioni (oggi impensabili) di lavoro stabile tutelato da un apparato di leggi garantiste, nei casi di licenziamenti collettivi e sospensioni in Cassa Integrazione Guadagni per ristrutturazioni aziendali, le donne apparivano penalizzate, dequalificate nelle mansioni, espulse in via prioritaria, essendo carente già allora un sostegno efficace alla lotta da parte dei sindacati confederali; il che ci ha fatto pensare che molte erano iscritte a quelle associazioni, ma certamente non erano rappresentate.

Più precisamente, anche in molte grandi imprese, già prima della legislazione che ha favorito la precarietà del lavoro, nella vigenza di leggi garantiste di attuazione costituzionale, la mano d’opera femminile è stata penalizzata in termini di permanenza al lavoro, qualificazione e livelli retributivi; questa svalorizzazione di sesso in alcuni casi era persino favorita da accordi sindacali in deroga alla legge.

Oggi poi, anche se i dati non sono facilmente scomputabili per sesso, alcuni studi dimostrano che dell’enorme disoccupazione e inoccupazione giovanile, della gran massa di tipologie contrattuali flessibili, la parte più rilevante è rappresentata da esseri umani di sesso femminile.

In particolare, Valeria Solesin (giovane ricercatrice presso la Sorbona assassinata il 13 novembre 2015 da terroristi islamici) nel suo recente studio Asimmetrie del mercato del lavoro e ruoli di genere, rileva come il lavoro femminile sia nell’anno di grazia 2014 ancora strumentale alle diverse fasi della vita, nel senso che la maggioranza delle donne mette da parte la propria attività professionale quando si trova ad avere figli in età prescolare. Una scelta volta a garantire il benessere famigliare che significa “segregazione in ruoli di genere”.

In Italia, infatti, secondo statistiche ufficiali, si registrava un tasso di occupazione femminile inferiore di circa il 25% rispetto a quella maschile. Dati che risentono di aspetti tradizionali e anche, massicciamente, della mancanza di servizi pubblici per l’infanzia.

Uno svantaggio rilevante che sembrerebbe destinato a produrre tensione tra la responsabilità delle vite e le costrizioni di un lavoro frammentato, più che mai subalterno (nella realtà, nonostante le definizioni mistificatorie), fino al punto di sollecitare un nuovo conflitto per conquistarsi una vita degna.

Un conflitto che mi auguro giocato congiuntamente da due sessi non divisi, all’interno della classe, da collocazioni fra loro antagoniste nel conflitto di sesso, attivato per ottenere il primato nella aggiudicazione delle (magre) risorse esistenti.

E’ mia opinione, infatti, che il conflitto di classe sia stato depotenziato dal conflitto indotto da pratiche egoistiche di stampo patriarcale entro la classe. Ne conseguono responsabilità politiche precise, ancora da analizzare compiutamente.

Quali le ipotesi di un possibile percorso.

Poiché le teorie e le pratiche del femminismo non sono esistite invano, mi sembra di capire che per le giovani generazioni il conflitto di sesso sia non dissolto, ma posizionato a un livello più alto; sia meno diffusa e pesante la (pur esistente) inferiorizzazione del sesso femminile.
Il che potrebbe agevolare la ripresa di un conflitto di classe per la giustizia e la libertà dal bisogno di ogni soggetto sessuato.

L’emancipazione dal bisogno e la riacquisizione dei diritti fondamentali, che sono la precondizione per la partecipazione alla cittadinanza, penso richiedano di fare vuoto nell’attuale ordinamento che oggi mette in atto la violazione costante dei principi e dei valori della Costituzione repubblicana.

Il percorso è tutto in salita e inizia, secondo me, da un conflitto serio per ottenere l’attuazione della Costituzione italiana e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Ad esempio, il lavoro come fondamento della nostra democrazia deve riprendere vigore, dotato di quelle connotazioni di stabilità e sicurezza che sono il pilastro della libertà e del pieno sviluppo della persona umana e concorrono alla emancipazione individuale e collettiva (art. 1 e 3 Cost.).

Occorre fare vuoto di tutte le norme che sviliscono la qualità e quantità della retribuzione la quale deve finalmente essere adeguata e sufficiente a garantire una esistenza libera e dignitosa (art. 36 Cost.) riconoscendo al contempo la formazione e la elevazione professionale di lavoratrici e lavoratori (art. 35,2 c. Cost. attuato dall’art. 13 S.L. ora obliterato).

Inoltre va data attuazione all’art. 30 della Carta Europea dei Diritti che offre tutela contro i licenziamenti ingiustificati, all’art. 31 che prevede condizioni di lavoro giuste ed eque e così via.
Si può pensare a ricorsi in giudizio fino alla Corte Costituzionale e alle Corti europee.

La pratica del processo è lo strumento da utilizzare per contrastare un apparato di regole conformate sulle esigenze esclusive dei potenti, per affermare un diritto dotato di legittimità sostanziale perché “prodotto con relazione al mondo della vita.” (espressione di Giuseppe Papi Bronzini in “L’autonormazione dei soggetti individuali e collettivi per un ordine giuridico che abbandona l’universalismo”, Atti del seminario “Le Donne soggetto di diritto, soggetto di contrattazione” promosso da Osservatorio sul Lavoro delle Donne, Milano 28.1.1994).

La pratica del processo può essere incardinata come pratica politica; è una pratica che si è già sperimentata in passato come strumento di creazione di un diritto di origine giurisprudenziale che si colloca in prossimità delle esigenze di coloro che si rivolgono alle Corti di giustizia e tentano di far valere spunti di trasformazione evolutiva del diritto vigente.

Il che ci dice che questa pratica non sostituisce né, tanto meno, contrasta pratiche conflittuali di tipo politico-sindacale. Al contrario, spesso le supporta determinando spostamenti che favoriscono esiti progressivi (per i casi v. “L’Emancipazione malata” cit.)
La situazione attuale richiede il massimo sforzo per la modificazione più radicale e la pratica del processo può ben essere uno degli strumenti da porre al servizio del cambiamento, per la creazione di un diritto che renda visibili le pratiche e le relazioni che concorrono alla sua creazione.
Un diritto che mantenga nelle sue forme il processo relazionale e comunicativo che vogliamo porre alla base e che derivano da una sfera collettiva di pratiche politiche e di autoriflessione.

La sovranità statale è attualmente un fantasma, dissolta nella sovranità del mercato a livello sovranazionale, può essere un buon momento per tentare di dare vita a un pluralismo giuridico che contempli la compresenza di più sfere di produzione giuridica concorrenti: un diritto flessibile in cui ci sia il più possibile “coincidenza fra chi norma e chi è normato” (Bronzini, ivi).

 

Ritornando al libro, dopo la lunga digressione che mi ha sollecitato, vorrei sottolineare che il pregio dell’opera consiste nella polifonia di riflessioni sulle diverse esperienze che vi sono illustrate. Diverse, ma egualmente indirizzate a una acquisizione di consapevolezza che mette a frutto vari aspetti del pensiero e della pratica politica della differenza sessuale, fino alla recente iniziativa denominata Agorà del Lavoro, un esperimento di politica femminista plurale che si è giocato a Milano, per iniziativa del Gruppo Lavoro della Libreria delle Donne e che ha coinvolto fin dall’origine alcuni gruppi “storici” del femminismo milanese (Libera Università delle Donne , Cicip e Ciciap ecc….).

Il merito della complessiva armonia fra le narrazioni del libro va certamente attribuito in special modo alla curatrice, Maria Dolores Santos Fernàndez.

Per concludere, ne consiglio la lettura a quanti- giuriste/i e non- desiderano respirare un’aria meno inquinata di quella creata dalla controriforma del diritto del lavoro, dal cosiddetto pacchetto Treu fino al Jobs Act.

 

Femminile e Maschile Nel Lavoro e Nel Diritto. Una Narrazione Differente
a cura di Maria Dolores Santos Fernàndez,
Ediesse, Roma, 2015, p.296, € 14

 


15-12-2015


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