|   Maschilismo di Stato, morte  della democraziaMaria Grazia Campari
 
 Riprendiamo il testo di un appello comparso nel  giugno 2009 sul sito della Libera Università delle Donne, sottoscritto da circa  ottocento cittadine/i italiane/i sdegnati e preoccupati della deriva  istituzionale indotta dai comportamenti dell’”utilizzatore finale”, già ben  visibile all’epoca dell’affare D’Addario.
 
 Lo sprezzo maschilista del potente in carica si  è ulteriormente aggravato, le istituzioni sono ormai al limite di rottura,  molte donne e associazioni femminili manifestano ora pubblicamente, sostenute  da partiti e media di opposizione, esigendo che, finalmente, Berlusconi liberi  della sua presenza la cosa pubblica che ha svilito forse irrimediabilmente.
 Per i nostri e, in parte, per i loro motivi non  possiamo che sostenere la richiesta.
 
 I nostri motivi sono quelli sinteticamente  illustrati nell’appello del 2009 e nel volantino che distribuiamo aderendo alla  manifestazione del 13 febbraio 2011, ai quali vorrei, però, aggiungere personali  motivi di perplessità.
 Mi rende perplessa il fatto che nell’ambito  delle associazioni femministe la nostra parola sia stata ignorata e ora il  discorso parta come da zero. Eppure anche quella parola è parte della storia  del femminismo e ignorare la propria storia impedisce la coscienza di sé come  soggetto agente in grado di sottrarsi alla prassi dell’obbedienza e  dell’allineamento alla narrazione altrui.
 E’ appunto un percepibile allineamento alla  narrazione altrui quello che mi disturba in molte prese di posizioni relative  all’attuale “insorgenza” delle donne.
 
 Quando leggo negli articoli di fondo che “Berlusconi può cadere anche grazie alla  dignità delle donne”, quando un’esponente di vertice del maggior partito di  opposizione (Anna Finocchiaro, capogruppo PD al Senato) dice “La dignità delle donne corrisponde per una  volta a quella del Paese”  o che “il problema è la concezione che Berlusconi  ha del mondo femminile” (La Repubblica 9.2.2011) sorge in me forte il  sospetto che il valore menzionato della dignità (sempre quella altrui,  beninteso) sia usato come una clava per forzare una situazione politica  rispetto alla quale si è mancato nel proprio dovere di efficacia istituzionale.
 
 Mi sorge il convincimento che la dignità delle  donne sia un termometro della civiltà di un Paese non una tantum e in relazione ad un singolo attore, per quanto  esorbitante e ridicolo nella sua pericolosa iattanza, ma vada misurata  quotidianamente rispetto alle possibilità di partecipazione ai poteri che  determinano gli assetti della polis che vengono offerte alle singole esistenze  femminili.
 
 Mi sorge, inoltre, il convincimento che essere  tanti in piazza “per urlare basta” con “gli uomini amici” costituisca un  evitamento di molte responsabilità contestuali che riguardano gli assetti oligarchici  della politica, le relazioni dispari di potere fra donne e uomini, il segno di  disvalore che accompagna normalmente il femminile pensato da uomini normali.
 
 In ogni caso, mi pare certo che la lotta per la  democrazia per tutti coloro che hanno cariche istituzionali in rappresentanza  di molti, si debba giocare efficacemente nelle istituzioni che occupano. Hic  Rhodus, hic salta.
   11-02-2011 home
 
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