Noi donne, la medicina, la famiglia.
Quando abbiamo perso la presa?

di Susanna Camusso


Marina Abramovic


Quando la cronaca tace, in attesa di sapere a settembre, tra commissioni di inchiesta interne, ministeriali e delle procure, cosa ne sarà delle sperimentazioni al Sant’Anna di Torino e di Pontremoli e quali sviluppi avrà il caso del milanese Buzzi, forse è il momento in cui si può fare qualche libera riflessione.

Partendo da una constatazione - forse neanche tanto lombarda, ovvero non tanto condizionata dalla persistenza di giunte di centrodestra a Milano e in Lombardia - cioè partendo dall’idea che l’attacco alla 194 non è finito, anzi continua a venir alimentato da tante piccole azioni che mettono in causa non la legge in astratto ma la certezza del diritto, quindi l’effettiva possibilità di usufruire della legge, di poter decidere (o almeno codecidere) le terapie da utilizzare e, da ultimo ma non meno rilevante, dalla progressiva destrutturazione, quando non privatizzazione, dei consultori.

Abbiamo scoperto tutte insieme, il 14 gennaio, che la parola d’ordine della difesa della 194, dell’autodeterminazione, il principio di libertà e di responsabilità hanno grande consenso tra le donne e non solo, e attraversano tutte le generazioni.

La domanda è: possiamo fermarci a questo? Quale continuità ci propone il tempo trascorso da gennaio, o meglio da novembre a oggi?

Intanto personalmente mi rendo conto che non sopporto più, mi infastidisce, mi sembra ipocrita e “fuori da me” il fatto che ogni volta che parliamo di 194 dobbiamo ricominciare col dire che l’aborto è una sofferenza per le donne, che nessuna sceglie con faciloneria, che l’aborto non è una forma di contraccezione e ancora e ancora.

Come a dire che abbiamo le carte in regola per… parlare del tema. Come a dover ogni volta riaffermare che comunque dalla 194 un po’ le distanze dobbiamo prenderle. Allora penso che non dobbiamo più esordire così, non tanto tra di noi, che abbiamo smesso da tempo di usare questa sorta di giustificazione, quanto sulla scena pubblica.

In altre parole, dobbiamo osare di più, essere meno difensive.

Ancora dobbiamo provare ad andare oltre la parola d’ordine della difesa della 194. Certo, nessuna sponda a qualsiasi tentativo di revisione della legge: non c’è il clima,  non c’è, secondo me, neanche la necessità, ma applicazione vera, questo si. Vertenze dunque, per la mediazione culturale, perché l’obiezione non determini le possibilità, e trasparenza, conoscenza dei termini della sperimentazione, possibilità di decidere quale terapia, se ricorrere ai farmaci o all’intervento chirurgico, senza diventare preda della ricerca farmaceutica.

Ovvero ricominciare a ragionare esplicitamente, direi impudicamente, di “noi e il nostro corpo” di noi e del nostro rapporto con la medicina. Grande rispetto per la scienza e per la ricerca, ma forse anche un po’ meno di paura, di subalternità a saperi spesso maschili.

Questo riporta immediatamente alla domanda: quando abbiamo perso la presa? Dov’è che è cambiata la storia innescata dal movimento degli anni ’70? Forse quando, a un certo punto, si è dato per certo che i consultori fossero luoghi ormai acquisiti di prevenzione e di tutela della salute delle donne. O forse - e non appaia sacrilego - nell’averli visti progressivamente trasformarsi in servizi per la famiglia, perdendo la funzione originaria di attenzione e di evoluzione dell’aspetto legato alla contraccezione.

Si apre qui il tema, lungo da sviluppare, di come in questi anni le donne siano rimaste “donne di” e non persone a tutto tondo; e in questo essere “di”, la famiglia è diventata il centro di  tutto. Per esempio quando servirebbe garantire processi di autonomia per i ragazzi e le ragazze si pensa ai bonus fino ai 18 anni: strana lettura della costruzione di un futuro proprio, progettato, elaborato, vissuto come conquista della propria crescita.

Tutto ciò ci porterebbe troppo lontano, allora torniamo al punto.

Giustamente abbiamo criticato l’attacco al Buzzi, salutato positivamente le sperimentazioni: abbiamo dato una risposta politica netta e coerente, ma forse non basta, non dà il segno della crescita dell’elaborazione. E del resto è difficile elaborare in assemblea, sotto la pressione della notizia, ma è una necessità inderogabile per riprendere, intanto nel territorio, la capacità di avere risultati concreti che diano senso e sfondo all’iniziativa di mobilitazione.

Riprendere a riflettere collettivamente anche per comprendere se e come la legge 40 potrà tornare tema attuale oppure no. Adesso assistiamo allo scontro centrodestra centrosinistra intorno al Ministero della Salute o alle commissioni etiche del Senato. Eppure quante volte ci siamo domandate se proprio la legge 40 non sia stata una somma di eventi che ha saltato il tema delle scelte delle donne e dell’invasività della medicina, della funzione della ricerca. Da un certo punto in poi, c’è stato bisogno solo di schierarsi, ma si può ripetere lo schema?

Tutto legittimo, per carità, ma sopravviene un’altra domanda: la politica si considera del tutto autosufficiente? L’esperienza dice che le migliori mediazioni sono quelle intervenute con la partecipazione di tanti soggetti, movimenti. La lontananza della politica, che abbiamo visto dalla formazione delle liste alla formazione del governo, fino alle mille interviste, ad elaborazioni di temi così pregnanti nel chiuso di torri d’avorio, è tema che interroga anche noi.

Abbiamo detto e ci sono tutte le ragioni per ribadire che non c’è una politica di serie A, quella delle istituzioni, dei partiti, e una politica di serie B, quella dei movimenti. Detto questo però il tema della relazione continua ad essere inesplorato, soprattutto rischia di essere frammentato dalle storie di ognuna, non cogliendo che Usciamo dal Silenzio non è e non può essere la somma delle storie di ieri, ma la domanda e il desiderio di partecipazione che attraversano storie diverse, e chiedono di guardare in avanti.

Sono domande impegnative, ma penso che non possono essere ignorate, bisogna immaginare come aprire un confronto vero, che certo ci pone il problema delle proposte, ma rilancia anche l’attualità della domanda che facemmo all’allora candidato e ora Presidente del Consiglio Romano Prodi: quale discontinuità? Qualche affermazione anche brusca, l’idea che a settembre molto si affollerà… perché non approfittare della pausa per provare a parlarne?

 

questo articolo è apparso su Liberazione del 10 agosto 2006