Caro Fausto Bertinotti
di Lea Melandri


Natalia Goncharova

non si può dire che il programma con cui ti presenti alle “primarie”, pubblicato alcuni giorni fa da Liberazione (16.9.05), non sia “volonteroso”, nel senso di quell’ “Io voglio” che campeggia sui manifesti del tuo partito e che per ingenuità o nostalgia avevo creduto avesse una sia pure lontana parentela con quell’idea radicalmente innovativa dell’agire politico che ha rappresentato, negli anni ’70, la rivista “L’erba voglio”. E’ vero che non si vedono in giro segnali di pratiche non autoritarie, e neppure si può confondere l’ “opposizione larga e diffusa” che tu speri di poter sottrarre alle ideologie populiste, antipolitiche della destra, con il “desiderio dissidente” che nel ’68, con sorpresa dei “bisognologhi” di fede marxista, spinse verso un processo rivoluzionario masse “che non erano ancora entrate nel sistema della produzione sociale, e che non erano quindi immediatamente e chiaramente inquadrabili in termini di classe” (Elvio Fachinelli, Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli 1974).

I tempi sono cambiati, l’onnipotenza si combina con una rassegnata passività, i bisogni indotti dalla società dei consumi e dello spettacolo si confondono con desideri e progetti, l’autoritarismo dei padri ha lasciato il posto a una virilità rozza, guerriera o arrogantemente “femminilizzata”, tanto da poter fare a meno di presenze femminili. Basta dare un’occhiata a riviste, seminari, incontri culturali e politici, dibattiti televisivi, per rendersi conto che il “separatismo” tra uomini e donne oggi non è più una scelta politica, quale è stata per il femminismo, ma la pratica di un soggetto storico che forse ora sa di non essere più unico e universale, e che tuttavia esita ad abbassare la maschera, a sopportare, nel momento in cui si riconosce appartenente a un sesso, di dover fare i conti con una storia che ha comportato per il maschio poteri e privilegi, ma anche doveri, fatiche e costrizioni.

Mi sono chiesta perché la lettura del tuo programma mi abbia lasciato impressioni contraddittorie, come se ci fosse tutto e mancasse quasi tutto, quasi che la preoccupazione di saldare con troppa fretta soggettività e necessità oggettiva, l’ “io voglio” con i voleri di molti, avesse generato una geometria ideale, una visione aerea, per così dire, che tutto e tutti coglie, inquadra, armonizza, dimenticando asperità, fratture, incomprensioni, conflitti tra luoghi e persone reali. Non sarà un caso che, in un orizzonte così ampio e dettagliato di cambiamenti -dove si sposano idealmente “alternativa di governo” e “alternativa di società”- non vengano nominate né la sessualità né la religione, né l’immaginario che viene materializzando, nel rapporto tra popoli, culture e convivenza tra diversi, logiche di guerra, il “noi” e “voi”, il “civile” e il “barbaro”, il “fedele” e l’ “infedele”, frenesie identitarie e xenofobia. Eppure, sono questi i temi su cui si è più dibattuto nell’ultimo anno, dietro la sorpresa delle elezioni americane, del risveglio di una Chiesa aggressiva, capace, nel medesimo tempo, di imporsi come interlocutore politico prioritario di governi e parlamenti e di richiamare a una comunione di corpi e di anime milioni di devoti.

Come si può pensare che la crisi della politica, che è anche crisi della democrazia, dei diritti, delle libertà acquisite, sia dovuta semplicemente alla sua “riduzione tecnica”, in quanto “traduzione nel contesto nazionale di scelte della globalizzazione neoliberista”? Vuol forse dire che le questioni riguardanti la “vita” -quelle che il femminismo ha chiamato meno chiesasticamente “problematiche del corpo”- sono viste ancora una volta come “sovrastrutture”, materia buona per le ideologie di destra e per la dottrina imbonitrice delle religioni al servizio del capitale? Se non si vuole andare indietro nel tempo, e se non si vuole pervicacemente far finta che non si siano state e non ci siano tuttora teorie e pratiche di donne che sottolineano la politicità di vicende essenziali dell’umano, come la nascita, la morte, l’amore, la malattia, basterebbero lo smarrimento, l’estrema confusione, le ambiguità, le contraddizioni in cui è stata gettata la sinistra dalla vicenda della Legge 40 e dal referendum che vi ha fatto seguito.

L’entrata in campo dell’etica e della religione non possono essere ridotte a estremo “rimedio” di un capitale in crisi, “oppio” di popoli che stanno assistendo a profondi rivolgimenti riguardanti la condizione delle donne e la famiglia, come hanno scritto Emiliano Brancaccio e Graziella Durante (Liberazione 18.9.05). E la ragione è che i ruoli sessuali, le figure del maschile e del femminile, e tutte le dualità che vi si sono modellate sopra, non sono emanazioni del capitalismo né la ricaduta “privata” dei rapporti di produzione-lavoro. Se la sfera dell’economico ha preso tanta autonomia da imporsi come orizzonte unico di relazioni materiali e simboliche, è perché ha creduto di essersi lasciata alle spalle o di avere totalmente assimilato -come del resto accade visibilmente oggi- la sessualità. Oltre ai corpi sfruttati nel lavoro, dilaniati dalle bombe, annegati nel disperato tentativo di sfuggire alla morte, tormentati dalle malattie e dalla vecchiaia, ci sono i corpi da cui si nasce, corpi che ci accudiscono, corpi con cui si fa l’amore, o che semplicemente ci fanno compagnia nella solitudine. Ma di questi corpi, nelle categorie economiciste che fanno da filo conduttore al tuo programma, non vedo traccia, così come non vengono nominate, tra le ragioni dell’insicurezza e della precarietà, le trasformazioni prodotte dalla scienza, dalla medicina, dalle tecnologie, sull’idea che abbiamo avuto finora di umanità: dal riduzionismo biologico all’illusione di immortalità, dalla mercantilizzazione del corpo all’allargarsi delle possibilità di scelta in campo riproduttivo. Sono questi sogni, incubi, paure, speranze che, in mancanza di una cultura politica che ne riconosca le ricadute materiali nella vita dei singoli e della collettività, possono orientare un disagio diffuso e crescente verso figure carismatiche, promettenti ordine e salvezza.

E veniamo alla questione che più mi sta a cuore: il femminismo e ciò che ha rappresentato nella storia della sinistra. A Roma, al Teatro Eliseo, dove hai presentato il tuo programma alcuni giorni fa, gli interlocutori dei movimenti che hai voluto accanto erano solo uomini. Non è certamente un caso. Le donne e il femminismo, nella tua descrizione dei soggetti politici con cui mantenere un rapporto, hanno un posto del tutto irrilevante, anzi, mi verrebbe da dire, un “mal posto”. Secondo una logica che purtroppo conosco molto bene, per averla vista ricomparire quasi uguale da trent’anni a questa parte, le donne e il movimento che le ha rese più consapevoli di sé non viaggiano mai soli. Considerate uno dei soggetti svantaggiati, emarginati, la loro collocazione è sempre a fianco di minoranze oppresse, bisognose di protezione, diritti e politiche sociali adeguate.

Il femminismo compare una sola volta, nella parte iniziale del programma, associato al movimento dei lavoratori, a quello di gay, transessuali, ambientalisti, antiproibizionisti. Le donne sono invece nominate due volte e anch’esse all’interno di una variegata compagnia: la prima, in capo alla lista dei “precari” -“La precarietà è la condizione delle donne che vivono con sempre maggiore difficoltà il rapporto tra lavori sempre più flessibili e marginali e la privazione dei servizi sociali”-, da cui si deduce che sono considerate unicamente come lavoratrici, mogli e madri, bisognose di welfare; la seconda, le vede come una delle tante “differenze” -cultura, orientamento affettivo- da riconoscere e valorizzare. Rispetto al movimento delle donne, l’unica acquisizione che sembra essere passata alle politiche della sinistra è la difesa, mi verrebbe da dire “cavalleresca”, di alcune delle sue conquiste storiche oggi attaccate da più parti. Tu citi la legge sull’aborto, la contraccezione, l’autodeterminazione delle donne sul proprio corpo, ed è qui l’unica volta in cui si parla del superamento della Legge 40, che non ho visto invece citata nell’ agenda politica delle priorità, come se fosse parte di un capitolo specifico, al femminile, e non legata al prorompere di alcuni dei poteri più forti della comunità storica degli uomini: la scienza e la religione.

A questo punto ti chiedo: c’è un peggiore attacco di quello che viene dalle stesse persone con cui pensi di condividere una causa di giustizia, rivoluzionamento di valori, senso della vita, da uomini, compagni di lotte, che parlano delle donne come se appartenessero a un altro pianeta, come se non avessero niente a che fare, in quanto maschi, con la condizione storica femminile, come se parlare di aborto, sessualità, maternità non significasse toccare il più intimo e insieme il più universale rapporto tra i sessi, dove si mescolano, purtroppo durevolmente, amore e violenza?

L’allargamento della democrazia, che ti aspetti dalle primarie, per me comincia da qui, dalla ripresa, sia pure critica, conflittuale, dolorosa, di un dialogo che si è interrotto da tempo, e non solo evidentemente per la sordità degli uomini. Con i migliori auguri di riuscita per te e per tutte e tutti quelli che come me ti voteranno.

questo articolo è apparso su Liberazione del 12 ottobre 2005