Il 17 febbraio con Maddalena Gasparini sono stata invitata al Cicipeciciap per “ricordare”  Lotta Femminista, il  gruppo che all’inizio degli anni Settanta parlava di “salario per il lavoro domestico”. Inevitabile up to date di quella analisi: le badanti e, più in generale, il rapporto tra noi e le donne migranti. Qualche considerazione dopo quella serata.

LA PREDATRICE  ONNIVORA

di Manuela Cartosio


Natalja Goncarova

La scorsa estate, ai tempi dell’ultima sanatoria solo per colf e badanti,  un lettore del manifesto mi aveva scritto: <<Basta piagnistei e complessi di colpa…Una badante guadagna più di me che sono laureato e tutto sommato fa un lavoro leggero: cucinata la minestrina, somministrata la pillola, messo a nanna l’anziano, il resto del tempo lo passa davanti alla tv….>>.  Rispondendogli in privato, l’avevo caldamente mandato a quel paese: <<Se il lavoro della badante è così bello, perché non lo fai tu?>>

Al Cicipeciciap, invece,  sono rimasta senza parole di fronte al <<guadagnano più di me>> pronunciato con una certa irritazione da un’avvocata. Meritava la stessa risposta. (Con una postilla:  non è vero che le donne italiane a causa della crisi stiano sgomitando per fare le badanti al posto delle migranti. Tornano semmai a offrirsi come colf a ore. Ma i due lavori sono radicalmente diversi. E’ la convivenza 24 ore su 24 che rende il lavoro della badante un mestiere segregante e segregato, solo per migranti). E sono rimasta basita di fronte alla battuta di Laura Lepetit, per la quale fare la badate è  <<sempre meglio che raccogliere cotone>>.  Davvero, la classe non è acqua.  In altri tempi, per una frase del genere sarei venuta alle mani. Sbollita la rabbia, ho realizzato che c’è più verità in questa cinica e feroce battuta alto borghese che nella posizione pacificata della Libreria delle donne su questo tema (le cose dette da Silvia Motta al Cicipeciciap coincidono con una breve nota di Luisa Muraro pubblicata anni fa sul manifesto, per questo uso il termine collettivo Libreria delle donne anche se non mi risulta che abbia prodotto qualche scritto su colf e badanti). Raccogliere cotone era il lavoro degli schiavi  “del campo” (ambosessi, bambini compresi). In effetti, gli schiavi “di casa” se la passavano un po’ meglio. Due secoli dopo, misurare la condizione delle donne migranti usando come pietra di paragone la schiavitù svela che sappiamo che l’enorme massa di lavoro di cura che i paesi ricchi drenano da quelli poveri è lavoro “servile”. Lo sappiamo così bene che  per colf e badanti abbiamo riesumato il termine che quarant’anni fa avevamo rifiutato per noi: emancipazione (e  il termine va inteso alla lettera per le migranti che riescono a smettere di fare le badanti).  Il doppio standard – noi e loro – non si ferma al diritto duale applicato ai migranti. Sta dentro le nostre teste.

L’ultimo Sottosopra – “Immagina che il lavoro"  - tace sul lavoro precario e su quello svolto dalle migranti nelle nostre case. Per questo, a prescindere dal contenuto, mi è sembrato un documento marziano. Ritengo entrambe le omissioni “colpevoli”.  Silvia (che fa parte del Gruppo lavoro della Libreria) ha replicato che il documento parla solo del lavoro che sta fuori dal mercato, quindi tralascia volutamente il lavoro precario e quello delle badanti che stanno nel mercato (bianco, nero o grigio che sia).  Ho riletto il documento e mi pare che non sia così. Il “doppio sì” è doppio proprio perché investe sia il lavoro esterno (nel mercato) che la “manutenzione dell’esistente”, il lavoro “necessario per vivere” (fuori dal mercato).  Un lavoro esterno precario condiziona in negativo il doppio sì. Allo stesso modo, ma in positivo, lo condiziona il fatto che una parte del lavoro di cura sia svolto a pagamento da un’altra donna. Tutto si tiene (che il lavoro di riproduzione e di cura non pagato abbia determinato e continui a determinare tempi, tipologie, retribuzioni, carriere del lavoro esterno femminile è un dato storicamente acquisito). La distinzione “nel mercato-fuori dal mercato” in questo caso è speciosa e furbetta, serve a tener fuori inciampi, problemi, questioni disturbanti.  E’ un esempio delle tattiche, degli artifici logici, usati dal pensiero della differenza per far tornare i conti. L’altro espediente, per citare Lea Melandri, è cambiare di segno alla realtà. Una cosa negativa, solo perché la faccio io o la interpreto io alla luce del pensiero della differenza, diventa positiva (ad esempio, la contrattazione individuale sul posto di lavoro). Alla base e alle spalle di questi escamotage c’è il fatto che le donne della Libreria “partono da sé”, giustamente, ma lì restano. Non vedono le altre donne. E se le vedono è per ricondurle a forza ne perimetro del loro pensiero. Così colf e badanti migranti, in una rosea complicità con noi, diventano pure loro “vincenti”.

C’è un briciolo di verità in questa esagerazione. Come dimostrano tutte le indagini sociologiche, e come sappiamo per esperienza, molte migranti che vengono qui da sole spesso si scrollano dal groppone mariti inetti, beoni, violenti, fedifraghi. Acquistano un potere e una libertà  che nei loro paesi non avevano. Con le rimesse mantengono figli e genitori. Ma il prezzo (emotivo e psicologico) di una separazione prolungata è assai salato per tutti i membri delle famiglie transnazionali, pesa soprattutto nel rapporto tra madri e figli. Questi ultimi si sentono abbandonati e sviluppano atteggiamenti di rivalsa e di ritorsione. Al punto che parecchi “ricongiungimenti” si risolvono in fallimenti. (Per un bilancio in chiaroscuro vedi le testimonianze raccolte da Paola Bonizzoni in Famiglie globali, Utet, 2009) Ci va bene così? Importare cure e affetti dai paesi poveri, sottraendoli ad altri, no dovrebbe disturbaci e interrogarci almeno tanto quanto la rapina delle materie prime che facciamo da secoli? A proposito: un capitolo dell’ultimo libro di Jean Ziegler (L’odio per l’Occidente) è intitolato “Dallo schiavista al predatore onnivoro”.  Decliniamolo al femminile e domandiamoci:  ci piace essere predatrici onnivore?

Quanto alla “complicità”, bisogna intendersi. Tutto il welfare dal basso all’italiana si regge su una complicità, sull’incrocio tra bisogni e interessi nostri e delle migranti. Ma essere complici in una relazione duale richiede la parità. Qualsiasi rapporto di lavoro è, per statuto, dispari. Le felici eccezioni in cui si sviluppano rapporti di sorellanza tra una “padrona” italiana e una badante sono, appunto, eccezioni.

Un altro punto di dissenso. Secondo Silvia, fare la badante è un lavoro come tutti gli altri <<purché si paghi il giusto salario e si versino i contributi>>.  Penso l’esatto contrario: è un lavoro diverso dagli altri <<anche se>> è pagato il giusto e tutto è in regola.  Comunque, la realtà se  ne frega di quello che pensiamo noi due. Il mercato delle badanti può esistere su larga scala solo se è illegale, nero, clandestino, se costa poco. Solo così i penultimi, gli italiani con un reddito modesto e un tetto, possono far lavorare per loro le ultime. Se non fosse così, quello delle badanti non sarebbe un mercato di massa e, probabilmente, non staremmo qui a parlarne. E infatti, quando una badante riesce a ottenere il permesso di soggiorno, e quindi costa di più, spesso viene mollata. Oppure è lei stessa che, potendo finalmente scegliere, preferisce fare la colf o lavorare nelle imprese di  pulizia o nelle residenze per anziani. Ogni sanatoria, quindi,  prepara una nuova leva di badanti non in regola.  Le quali, a proposito di “complicità” tra donne, sovente dovranno pagare il pizzo alle connazionali che rimpiazzano. Vogliamo andare avanti così?

Tornando allo spunto di questa discussione (Lotta Femminista) è inevitabile constatare quarant’anni dopo che  la quota di lavoro domestico che siamo riuscite a rifiutare l’abbiamo trasferita alle donne migranti. L’abbiamo “appaltata” ad altre donne. Silvia ha contestato questa formula: dà per scontato che il lavoro di cura tocchi a noi, non siamo noi che ci facciamo sostituire, è l’intera società che richiede il lavoro delle migranti e di esso beneficia. Di nuovo, mi pare un trucco autoassolutorio che copre la realtà:  siamo noi, per lo meno, il “tramite”, la prima linea di questo trasferimento di lavoro.

Io non ho il rimedio per questo rompicapo. Ma non ci sto a farmi dare della moralista se ricordo che il problema esiste e che ci tocca direttamente.  La mia critica alla posizione della Libreria è tutta politica: un pensiero che si presume radicale, al dunque accetta l’esistente. Quando si tratta di lavoro, non va oltre un conciliante riformismo per happy few.  Nulla di inedito o di drammatico, è la parabola di molto pensiero maschile ex sovversivo.  Disturba, però, che si dia <<tante arie>> (come ha ammesso Giordana Masotto presentando l’ultimo Sottosopra alla Casa della cultura).

2-03-2010

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