Il valore delle colf
di
Luisa Muraro


Nina Goncharova

da il manifesto del 5 maggio 2004

Caro manifesto, grazie di aver dedicato un lungo articolo al tema del lavoro di cura oggi in Italia, spartito fra donne italiane e donne immigrate da paesi più poveri. Mi riferisco a La signora e la badante a tavola insieme di Manuela Cartosio, del primo maggio, in coincidenza con la puntata dell'Infedele sullo stesso tema. Della trasmissione di Gad Lerner ho apprezzato molto che ha dato la parola alle donne che vengono da fuori, dell'articolo della Cartosio che rende conto della complessità del problema. Ma l'impostazione del problema, forse ripresa dal libro Donne globali. Tate colf e badanti (che non ho letto), la giudico sbagliata. In che senso, lo spiego con un'immagine: da tempo abbiamo imparato ad andare in corteo senza spaccare vetrine e senza spaventare gli abitanti del quartiere; non si dovrebbe imparare anche a non menare colpi alla cieca sui sentimenti e sulle esperienze degli esseri umani?

Mi riferisco al ripetuto fare leva sui sensi di colpa delle donne che ricorrono ad altre donne per il lavoro di cura. C'è una specie di perfidia, certo involontaria, nell'enfasi con cui si fa il confronto fra le une e le altre, specialmente sulla cosa più sensibile, il rapporto con i figli.

Mi riferisco anche alla caratterizzazione del lavoro domestico dipendente come lavoro servile: è un linguaggio molto discutibile, che offende la dignità delle lavoratrici. Ma è un linguaggio vero, mi si obietta. Sembra vero, rispondo, perché il problema è impostato male. La vera contraddizione è fra il mercato così come funziona e la civiltà femminile, quella che finora ha assicurato il lavoro di cura.

Ci sono livelli di civiltà minimi nei rapporti con le persone care che si vuole salvaguardare, ma come? Le donne che il mercato globale porta in Italia portano con sé una possibile risposta a questa domanda. Perciò è completamente sbagliato vedere in loro le eredi delle ragazze di campagna che una volta andavano a servizio nelle case borghesi.

Per certi aspetti, la loro condizione è più dura, ma sono delle collaboratrici familiari nel vero senso della parola, e come tali vengono considerate, mi sembra. Non dimentichiamo che si tratta di un lavoro che la datrice di lavoro continua in parte a fare e che molte continuano a fare senza un aiuto pagato.

Non è il classico lavoro che "da noi nessuno vuole più fare". Da qui, secondo me, può partire un approfondimento del problema nella direzione giusta. L'impostazione colpevolizzante e inferiorizzante fomenta risentimenti e confusione. Che si continui a parlarne.