Da Repubblica del 5 Febbraio 2005

Quando il sesso faceva paura ai compagni dirigenti

intervista a Luciana Castellina di Simonetta Fiori



Sophie Calle


«L´unica cosa di cui mi pento è di non aver votato allora a favore della legge per la legalizzazione dell´aborto. Era la migliore in Europa, ma ci appariva piena di paletti e lacciuoli. Per il resto, non ho cambiato una virgola di quel che pensavo in quegli anni». Luciana Castellina si muove agile ed elegante nella luminosa casa ai Parioli. Ovunque pile di libri, anche le prime edizioni francesi di Marinetti e una curiosa collezione di Pitigrilli, ereditate dall´amatissima mamma Lisetta, morta poco tempo fa («Aveva centouno anni. Viveva con me, nell´altra ala della casa. C´erano più di trecento persone al funerale», s´emoziona come di un dolore ancora forte). Pesca tra le carte un vecchio fascicolo ingiallito, gli atti della Camera dei Deputati con la seduta del 15 dicembre del 1976, presidente della camera Ingrao: un capitolo del lungo iter parlamentare della legge, partito nel 1973 e concluso cinque anni più tardi. «Lì dentro c´è tutto. Anche la mia polemica con Natalia Ginzburg proprio sul tema dell´aborto».
Perché polemizzaste?
«Quando esplosero le prime manifestazioni femministe per l´aborto, prevalsero sorpresa, indignazione, anche scandalo. Perché mai, domandò la Ginzburg, questa "gagliarda spavalderia", questa "libera ed allegra festa", questo "scampanio festoso" per una questione così drammatica? Non capiva quale carica di liberazione rappresentasse per le donne».
In quell´intervento alla Camera, lei rivendicò con convinzione le "ragioni della festa".
«Finalmente potevamo gridare per la strada un problema per secoli rimasto sepolto nella coscienza, custodito segretamente, oggetto di vergogna, tabù e colpa».
Non eravate più sole.
«Sì, lo "scampanio" deprecato allora da una scrittrice sensibile e non certo conservatrice come Natalia Ginzburg era mosso proprio da questo: dal non trovarci più sole davanti a questo dramma».
Non pensa - come fa Anna Bravo in un saggio pubblicato sull´ultimo numero di Genesis (Viella) - che ci fu anche una certa immaturità nel misurarsi con il tema dell´aborto?
«No, non sono affatto d´accordo. Per molte di noi - parlo della nuova sinistra - fu una grande battaglia sociale, tesa anche a sanare quella terribile piaga che era l´aborto clandestino. Diverso era il punto di vista dei radicali, che trattava l´aborto negli angusti termini di un diritto civile».
Alcune questioni etiche essenziali rimasero però sullo sfondo.
«Ma quelle sono riflessioni di carattere religioso, discussioni interne alla Chiesa cattolica. Lascio ad altri decidere quando nell´embrione viene soffiata l´anima. Erano altre le nostre priorità».
Quali?
«Forse bisogna ricordare cos´era la sessualità negli anni Cinquanta. Non esisteva la contraccezione e moltissime donne si trovarono a subire gravidanze non desiderate. Quella sì che era una violenza: imporre alle donne di essere madri dopo un atto sessuale. Io allora ero segretaria della sezione universitaria del Pci, e sentii il dovere di aiutare molte compagne che volevano abortire: uno strazio indicibile. Questa era la nostra condizione».
Un po´ come nel film Il segreto di Vera Drake.
«Sì, il clima cupo e claustrofobico era proprio quello evocato da Mike Leigh. Può far riflettere il paradosso che allora il problema era interrompere gravidanze indesiderate, mentre oggi le donne più giovani si confrontano col problema opposto: non arrivano più i figli desiderati e ci si affanna con le tecniche di fecondazione artificiale».
Poi sono arrivati gli anni Sessanta.
«Ma nel Pci non si muoveva granché. Sul tema della sessualità era di un conservatorismo spaventoso. Ricordo ancora un convegno promosso dall´Istituto Gramsci nel 1964 sulla famiglia nella tradizione marxista. Relazione introduttiva di Nilde Jotti: "Nel rapporto sessuale - mmh, pardon, scusate la parola - nel rapporto sessuale etc etc." Ecco, sessuale era una parolaccia. E parlo di una protagonista nelle battaglie per l´emancipazione delle donne».
Stavate insieme nella commissione femminile.
«Sì, sempre in quegli anni insieme a Diana Amato preparammo un testo sul divorzio all´interno della riforma del codice di famiglia. Spavalde e fiere, presentammo la nostra proposta alla direzione del Pci, che si frantumò in due schieramenti: favorevoli Longo e Macaluso, violentemente contro Amendola e Pajetta».
Sappiamo come andò a finire.
«A testa bassa, fummo costrette a ripresentare la riforma del codice di famiglia: questa volta senza l´articolo sul divorzio».
La ragione della contrarietà?
«Era un tema troppo borghese, si pensava che alla classe operaia non interessasse. E poi l´eterno moralismo».
Per l´aborto non andò molto meglio. Guido Crainz, nel libro Il Paese mancato, pubblica per la prima volta i verbali delle direzioni del Pci sul tema dell´aborto. Le prime reazioni di Adriana Seroni furono di profonda irritazione. Nel febbraio del 1973, la proposta di legge presentata dall´onorevole Fortuna fu respinta con convinzione.
«Anche lì il ritardo fu pauroso. Io allora, già da tempo nel gruppo del Manifesto, seguivo quegli eventi da fuori. Mi si ripresentavano i riti letargici con cui era stato accolto il divorzio. Con la differenza, però, che la questione dell´aborto era ancora più popolare rispetto a quello del divorzio: gran parte delle donne, direttamente o indirettamente, s´era imbattuta nel problema».
E infatti, già all´inizio del 1975, sia la Seroni che la Jotti fecero presente in direzione che "nelle sezioni la spinta delle donne è di proporzioni inimmaginabili" e che "non c´è riunione in cui il problema non ci venga sbattuto in faccia". E tuttavia, nel febbraio del 1976, il principio di autodeterminazione della donna venne nuovamente respinto.
«Sì, era in gioco il rapporto con il mondo cattolico e con la Dc. E poi agiva anche una sorta di perbenismo, che segnava da sempre il partito».
Alla fine le donne convinsero il vertice. Sempre nel gennaio del 1976 Bufalini protestò perché su Rinascita erano uscite quattro lettere contrarie alla posizione del Pci e una sola favorevole. Reichlin gli rispose: «La lettera a favore l´abbiamo racimolata a fatica».
«Furono le donne a vincere quella battaglia. E francamente, per tornare alla provocazione di Anna Bravo, trovo sbagliato legare quelle conquiste alla violenza. Il gruppo in cui poi lei militava, Lotta Continua, era tutt´altro che femminista: sbagliato dunque identificarvi tutto il movimento delle donne. Secondo il suo ragionamento, la mancata storicizzazione dei femminismi negli anni Settanta sarebbe da attribuire al rapporto irrisolto con la violenza. Ma quale violenza?».
La violenza esercitata in piazza, sostiene la Bravo, ma anche nella rimozione dei grandi temi intorno all´aborto.
«Quando si parla di nuova sinistra, si tende a fare un po´ di confusione. Dal 1971 al 1977 ci fu un grande dibattito sulla questione della violenza e del terrorismo. I grandi partiti, a cominciare dal Pci, non se ne interessarono. Non capirono e non aiutarono. Un pezzo della nuova sinistra scelse l´istituzione democratica, gli altri la P38. Non eravamo tutti eguali».
Che cosa intende?
«Noi non avevamo il servizio d´ordine».
Quel che rileva Anna Bravo è che le donne allora preferirono tacere complici, piuttosto che alzare la voce contro gli atti di violenza dei loro compagni maschi.
«Ma l´idea che le donne siano naturalmente miti e gli uomini violenti francamente non mi persuade. La violenza non è mai stata una differenza di genere. Nel terrorismo hanno militato molte protagoniste femminili. E questo della donna angelicata mi sembra la riproposizione d´un vecchio cliché».