Da Liberazione del 16 Dicembre 2004

Donne, uomini: ma chi siamo?

di Eleonora Cirant


Louise Bourgeois


Nel suo articolo del 10 dicembre, Lea Melandri ha posto delle domande che provo a raccogliere. Il femminismo è ancora una pratica di modificazione di sé e del mondo? Che cosa è passato, alle giovani di oggi, di quell'intreccio originale di teoria e pratica che ha caratterizzato il movimento delle donne ai suoi inizi?
Il femminismo? E' un modo di sentire, di essere, di agire e reagire. E' una chiave per leggere il mondo senza le fette di salame davanti agli occhi. E' un nervo bruciante costantemente scoperto, che aiuta a riconoscere e svelare stereotipi potenti, a non assoggettarci a modelli che trasformano in merce corpi e desideri. Un modo di interagire con altri soggetti che può scardinare le facili certezze di chi - donna o uomo - rigetta o classifica comportamenti e idee che mettono in discussione i canoni pre-stampati su cui si edifica la retorica del femminile e del maschile. Se intendiamo questo, la risposta alla prima domanda di Lea è sì. Anche quando intendiamo il femminismo come continua messa in discussione di sé, come domanda aperta su come si costruisce la propria identità, su quali modelli. Con quale senso per sé e per il mondo.

Dandogli questo significato di trasformazione, è chiaro come il femminismo non si possa trasmettere in quanto tale. Si trasmettono i frutti di una lotta o di un impegno (la legge sul divorzio, quella sull'aborto) ma non il desiderio della lotta stessa. In un mondo popolato da spettatrici e spettatori, la partecipazione è un lusso, o una fatica, che poche sentono con urgenza, anche se la realtà ci passa addosso come uno schiacciasassi.

Se "partire da me" mi porta a non essere fra chi "ha preferito diventare egli stesso una merce piuttosto che subirne semplicemente la tirannia" (Tiqqun), allora la risposta alla domanda di Lea è: sì, il femminismo è ancora una pratica di trasformazione di sé e del mondo.
Eppure, la trasformazione è un percorso che segue solo molto parzialmente le vie già sperimentate. Credo che la differenza sessuale, in astratto, non esista; ogni codice che ne stabilisca i criteri è una trappola ideologica. Ma, dissolta la coperta calda dell'ideologia, siamo rimaste nude con i nostri tentativi appassionati di percorsi inediti, che, allo stato dell'arte, si diluiscono nei rivoli della società dello spettacolo.

Oggi più che mai, ogni aspetto della relazione e delle differenze fra i sessi è carico di ambivalenze. Prendiamo la riproduzione e la cura, ciò che è sempre stato considerato il perno della differenza sessuale, la base materiale e simbolica della divisione del lavoro tra produttivo e riproduttivo, l'elemento intorno a cui costruire la polarizzazione tra i ruoli e le identità. I comportamenti degli individui sono molteplici e sfuggono alle tipologie. Vanno dalla donna che non sente il desiderio di maternità a quella che è disposta a sottoporsi a tecniche invasive pur di realizzarlo. Sul fronte maschile, le cose sono altrettanto confuse: accanto alla figura tipica da tradizione familista, c'è chi esprime il desiderio di paternità e di cura come aspetto fondamentale della propria identità. Spesso sono proprio le loro compagne a non lasciare spazio a questo desiderio, avocando a sé il potere materno. I comportamenti sono variegati, i modelli vacillano, le identità si sformano. Di fronte a questo precipitare, si verifica il ricorso al già conosciuto. Ecco qua la legge sulla fecondazione assistita, le leggi in materia di famiglia, i richiami della Chiesa Cattolica al ruolo tradizionale di moglie e madre, l'aggrapparsi delle giovanissime a ciò che hanno di certo, che sia l'istinto materno o la forza-seduzione del corpo femminile.

Gli stereotipi rassicurano ma, imbrogliando le carte, non aiutano a comprendere le molte contraddizioni che si manifestano nel rapporto tra i sessi e nel rapporto di ciascuno con se stesso in relazione al proprio genere. Non ci aiutano neppure quando sarebbe utile fare massa critica, come nel caso della già citata legge sulla procreazione assisita.

Il rischio costante è l'etichettamento. Provate, una sera al bar, a intavolare una discussione su sessualità, sentimenti, oppure sul ruolo che gli individui assumono in base al sesso in relazione alla cura dei figli (e dei genitori), o sulla scarsa presenza femminile nei ruoli decisionali, o sui dati dell'ultimo rapporto di Amnesty sulla violenza. Avrete la conferma che avere ottenuto l'accesso delle donne ai Diritti non le mette al riparo dal sentirsi dire che "per le donne la maternità è un destino"; che la prostituzione è l'unico settore in crescita perché "sai, gli uomini, è una questione di ormoni…". Gli stereotipi visibili in queste comunicazioni sono la traccia parcellizzata di conflitti non risolti, solo insabbiati sotto la retorica della neutralità del mondo. Se qualcuna più sensibile sobbalza, vorrebbe reagire, a volte ci riesce e ribatte, ecco eretta la barricata difensiva: "Ah, ma allora tu sei femminista! ". Cioè: ti annullo, definendoti in base a ciò che io penso tu sia o debba essere.

La faccia femminile della stessa medaglia: "io non sono femminista, lo dico subito. Però devo dire che mi da molto fastidio che in tribunale i miei colleghi siano chiamati ‘avvocato', invece io ‘signora'", "non sono femminista… ma è allucinante che quando ho fatto richiesta per quel lavoro mi hanno risposto di no perché donna". Tra le esperienze che le donne vivono e i modi in cui sembrano abituate a pensarle e raccontarle c'è uno spazio opaco, inabitato: è lo spazio del politico; tutto, anche la denuncia, accade in forma privatistica e individuale. I media traboccano di discorsi sul "privato": fino a quando si tratta di fare e dare spettacolo, se ne parli. Ma quando in gioco è la propria vita reale, il privato diventa tabù. Al primo sentore di conflitto, si erge la barricata: per carità, non buttiamola in politica!

Dove spostarsi, allora, per creare rotture, eventi? Dobbiamo forse scomparire e riapparire, ma dove, come, con chi? Come rappresentarci, donne e uomini scomodi nel ruolo tradizionale dell'Uomo e della Donna? E gli uomini? Come dire delle scelte di cambiamento che gli individui di sesso maschile fanno entro ed oltre il proprio genere? E le donne migranti? Come intrecciare il nostro percorso di donne che hanno assaggiato l'emancipazione (la libertà è ancora un orizzonte utopico) a quello di donne portatrici di altre forme di emancipazione, di altre culture e di altri percorsi?

Non ho risposto alle domande di Lea, le ho solo articolate da un altro punto di vista: né vecchia né giovane, andavo all'asilo quando il femminismo era un movimento di massa. E', forse, il punto di vista di un tipo di soggettività più diffusa di quel che appare nella scena mediatica: un essere umano che cerca nello spazio e nell'agire politico il proprio orizzonte di senso, e che in questo spazio non può muoversi che a partire dalla propria corporeità, sospinta da elementi, ancora prima che femminili, umani: desiderio, responsabilità, curiosità, condivisione, amore. Rabbia, senso di impotenza. Molte domande.