Da «Bertoldo» a «Settebello» donne e morale di regime: l’autarchia e la guerra

Rossella Coarelli

La mostra “Donne nell’occhio della satira durante gli anni del fascismo” proposta all’interno del seminario di studio “Immagine e realtà. Donne, educazione, fascismo”, svoltosi a Brescia presso l’Archivio per la Storia dell’Educazione in Italia il 18 marzo 2010, è l’esito di una ricerca condotta da me e Anna Maria Imperioso sui giornali satirico-umoristici pubblicati in Italia durante il ventennio fascista, relativamente alla figura femminile.
Questo studio segue ad un precedente lavoro, svolto  nel 1999 attraverso lo stesso genere editoriale pubblicato in Lombardia tra il 1870 e il 1925, che si concretizzò con una mostra e un catalogo che intitolammo Così ridevano1. Attraverso le testate di intrattenimento come «Lo Spirito folletto», «Il Motto per ridere», «Il Caricaturista», «Il Mondo umoristico», «Il Guerin meschino», allora mettemmo in rilievo l’ironia bonaria ottocentesca con cui si ritraevano donne all’interno di salotti borghesi nei quali, fra trine e ventagli, si intuiva il clima di attesa che precedeva il grande evento del matrimonio, o meglio del “buon matrimonio”, stereotipo accomunato a quello della “caccia al marito” per fuggire lo spettro dello zitellaggio; dei rapporti di forza tra coniugi o della minacciosa incombente figura della suocera. L’umorismo accattivante si affiancava, però, ad una satira da cui trapelava la difficoltà della società di allora a recepire mutamenti rilevanti all’interno della famiglia, come lo scottante e osteggiato tema del divorzio, proposto per la prima volta in Italia nel 1867 dal liberale Salvatore Morelli. Nelle riviste del primo Novecento l’umorismo diveniva poi più pungente mano a mano che le istanze delle suffragette si facevano più concrete e le donne cominciavano a prendere una nuova coscienza di se stesse2.
A questo primo studio, come ho detto, è seguito quello relativo agli anni 1925-1944, che ha permesso di estrapolare la selezione iconografica proposta oggi a Brescia3, in gran parte raccolta nel relativo catalogo Giuseppa, Genoveffa e le altre4, che segna i momenti e i temi cruciali dell’epoca presa in esame.

Riviste e censura
Qui vorrei dire brevemente qualcosa sull’attenzione che il regime prestò ai periodici umoristici e satirici e come questi furono di fatto strumenti nella comunicazione di massa relativamente al modello femminile proposto dall’etica fascista.
Dopo il 1925 alcune di queste riviste per un po’ uscirono in clandestinità, come «Il Becco giallo», nato nel 1924, altre cessarono la pubblicazione, come «L’Asino», nato nel 1892 e il «Barbapedana», fondato nel 1920, quest’ultimo colpevole di aver pubblicato una vignetta di condanna sul delitto Matteotti.
La censura era legittimata dal principio, più volte ripetuto dall’ex direttore del «Popolo d’Italia» Mussolini, secondo cui il giornalismo più che professione o mestiere, doveva essere inteso come una missione, grande e delicata – aveva detto più volte il duce – seconda solo alla scuola per l’opera di formazione e informazione. Per questo ai giornalisti si richiedeva consapevolezza e preparazione morale, oltre che tecnica5.
Il controllo diveniva ancor più importante su quei giornali che entravano nelle case degli italiani con il compito di far sorridere sulle difficoltà che attraversava la nazione, ossia i periodici satirici e umoristici, tanto più se illustrati.
Il regime fascista, che fu ineguagliabile nell’uso dell’iconografia a fini propagandistici, comprendeva bene quanta efficacia c’era nel binomio satira-illustrazione e quanta potenzialità etica fosse contenuta in esso. Infatti, come sintetizza la massima esperta di storia dell’Illustrazione italiana, Paola Pallottino, il consenso passa proprio attraverso il moltiplicarsi di quell’immagine che è l’illustrazione, e da qui l’importanza dei canali di trasmissione dell’immagine stessa6.
Fu per questo che, quando a metà degli anni Trenta, l’Italia diventava “imperiale”, al prezzo di essere contemporaneamente Italia ‘sanzionata’, i giornali umoristici e satirici divennero oggetto di particolare attenzione da parte del regime e, nel gennaio 1937, i direttori delle maggiori testate ricevettero precise direttive affinché dessero il massimo supporto alla politica governativa.
Si raccomandò loro di evitare gli effetti comici con il ricorso a personaggi della storia italiana come Colombo, Dante, Cavour ecc., si chiese di colpire il bolscevismo, il liberalismo, il societarismo, il parlamentarismo; si raccomandò di evitare l’ironia su certe categorie di professionisti; di fare apparire come inferiori fisicamente e moralmente le razze di colore e, in riferimento allo stile di vita borghese, si sollecitava a:

«prendersela con alcuni ambienti mondani che vivono in contrasto con l’etica fascista»7

Ecco, quindi, che l’umorismo non poteva esprimersi liberamente8, né poteva essere fine a se stesso, ma doveva orientarsi secondo determinati fini, connotandosi come satira politica o di costume.
Tanto controllo non era dovuto solo al fatto che queste riviste avevano il compito di fiancheggiare il regime, ma era dato anche da un altro elemento. Infatti fin dall’inizio degli anni trenta questa editoria si era particolarmente vivacizzata; l’illustratore Enrico Gianeri, in arte Gec, l’aveva definita “una rivoluzione satirica”, fatta di una satira nuova, di buon livello, tutta da leggere tra le righe9.
A Roma nel 1931 era nato il «Marc’Aurelio», dove erano confluiti i migliori illustratori10, tra cui proprio quelli provenienti dalle testate antifasciste che erano state costrette a chiudere, per esempio, tutti quelli che avevano lavorato per «L’Asino» o «Il Becco giallo», come Galantara, Barbara, De Seta, Guasta, Manca, Molino11. La nuova testata era tra le migliori per satira, protesta, ironia ma, criticata su «Gioventù fascista» nel 1932, per poter proseguire la pubblicazione dovette licenziare tutti gli illustratori che avevano lavorato su «Il Becco giallo»12. Sempre a Roma, nel 1933 nasceva «Il Settebello, settimanale umoristico illustrato» che, insieme al «Marc’Aurelio» si rivolgeva al pubblico della borghesia romana, affiancandosi a «Il Travaso delle idee», fondato nel 1900 e rivolto ad un pubblico più popolare. Dunque si era in presenza di un’editoria che raggiungeva i diversi ceti sociali: briosa, frizzante ma poco ossequiosa.
Il successo di queste riviste romane fu tale (si vendevano dalle 300.000 alle 350.000 copie) che gli editori milanesi sentirono l’esigenza di aprire testate concorrenti. Così Rizzoli volle un giornale che fosse competitivo con il «Marc’Aurelio» e nel 1936 nacque «Il Bertoldo». A sua volta Mondadori, in competizione con l’avversario Rizzoli, volle una rivista altrettanto valida: così nel 1938 rilevò e portò a Milano «il Settebello», che dovette il suo successo certamente anche ai suoi nuovi direttori: Achille Campanile e Cesare Zavattini.
Sottoposti ad un costante controllo, i giornali si conformarono alle richieste del Regime13 non senza aver vissuto, quasi tutti, momenti di tensione con il governo: dal raffinato intellettuale periodico politico-letterario “battagliero fascista” «Il Selvaggio», che rivendicava un fascismo più aristocratico, meno retorico, con meno “stamburate” (scriveva, nel riferirsi ai titoli dei libri di testo)14; a quelli che offrivano una satira molto meno impegnata, per finire a quelli che intrecciavano l’ironia ad un piacevole e immediato umorismo, come il «Marc’Aurelio», delle cui vicende ho già detto; il «Bertoldo», considerato troppo disinvolto nei riguardi del regime e del duce (forse ritratto in caricatura nei panni di “zia Elena”, matrona dalla mascella quadrata che spadroneggiava su omini spaesati15). Anche «Il Settebello»16 fu considerato troppo poco allineato, soprattutto sulla politica estera, e rischiò di chiudere, sebbene Mondadori fosse in ottimi rapporti con il regime (tutti ricordano che nel 1936 egli era riuscito ad ottenere praticamente il monopolio editoriale del libro unico per la scuola elementare)17.

Donne e satira fascista
Anche ad un’analisi molto superficiale pare evidente che, come in tutta la comunicazione di massa fascista, il codice utilizzato in questi periodici si connota al maschile, nel senso che si traduce in un linguaggio che fa ricorso alla contrapposizione, sottolinea le differenze, oppone inclusi ed esclusi, tra questi i nemici, i diversi e le donne, protagoniste, si, ma quasi sempre considerate nazionali di seconda classe18; poste dalla cultura borghese di fine Ottocento tra i componenti “impotenti e minori” della società, considerate dotate di una psicologia infantile, come rileva Fulvio De Giorgi nel suo saggio su Il popolo bambino19.
Qui la figura femminile, bersaglio tradizionale dei disegnatori, diviene obiettivo particolarmente interessante in quanto nella realtà quotidiana è alla donna che viene richiesto il maggior impegno e sacrificio nella battaglia autarchica.

Si mira a demolire lo stile di vita borghese e gli atteggiamenti delle “signore” di città, con l’intento morale di arginare il malumore dei ceti meno abbienti e, nello stesso tempo, di rafforzare la propaganda a favore del ruralismo rivolta alle contadine20. Dalle Monografie di famiglie agricole, compilate dall’Istituto Nazionale di Economia Agraria durante gli anni Trenta emerge, infatti, che le donne rurali gestivano il bilancio dell’economia domestica, andavano in città a vendere i prodotti della campagna, entravano in contatto con nuovi modelli di consumo e, ad imitazione delle cittadine, se appena potevano, compravano articoli di abbigliamento come calze o scarpe di vernice, o di arredamento, come tappeti per la casa21.
Non è casuale, quindi, che l’immagine della “massaia rurale” sfugga alla mordace ironia, così come, nel panorama femminile, non sembrano comparire vignette contro le insegnanti, evidentemente anch’esse troppo preziose per il ruolo che svolgevano all’interno della scuola, tenuto conto anche del fatto che Mussolini godeva della simpatia e del consenso della classe magistrale (sebbene la parte cattolica di questa visse momenti particolarmente conflittuali e carichi di tensione con il governo, come scrive Luciano Pazzaglia riguardo la vicenda dell’associazione magistrale cattolica “Nicolò Tommaseo”)22.
Per fare qualche parallelo tra immagine e realtà, la vera situazione a metà degli anni Trenta vede le donne avvicinarsi ai nuovi prodotti autarchici, bersagliate da un’incessante propaganda che prometteva miracoli, per es. la nuova produzione tessile (il lanital, irrestringibile e antitarme, la lana-pesce derivata dal filamento del bisso, un mollusco simile alla cozza, o il ramiè, detto pure ortica della Cina). Ma è alla donna che viene richiesto il miracolo quando ella si trova ad affrontare i disagi derivati dall’autarchia alimentare che, inizialmente sostenuta dalle colonie africane, nel 1939 porta poi al razionamento della carne fino ad arrivare a quello del pane e, come emergeva da un’inchiesta condotta dal prof. Luzzato Fegiz nel 194223, riduce 2.500.000 famiglie alla fame «nel pieno senso fisiologico della parola», si leggeva, e altrettante con vitto insufficiente, dove almeno una persona soffriva la fame, e non si fatica ad immaginare che quella persona doveva essere certo la madre di famiglia, alla quale non bastavano più i consigli di “Donna Clara”24.
A fronte di questo pesantissimo contesto, le riviste umoristiche mitigano la gravosa condizione presentando donne lanciate in una vera e propria gara di seduzione, il corpo in grande rilievo, sottolineato dall’abbigliamento moderno e aggressivo che segna una femminilità molto sessuata, «funzionale – nota acutamente Fulvio De Giorgi - ad un immaginario volitivo e conquistatore»25.

Mentre Mameli Barbara26 calca le pagine del «Marc’Aurelio», su «Il Settebello» trionfa la mano di Gino Boccasile, con le sue donne a “sirena”27, il quale insiste nel segnare gambe provocanti, strette in calze velate con riga e tacchi a spillo; i seni prorompenti e irresistibili messi in mostra con intraprendenza lasciano scorgere all’uomo piaceri sessuali in cambio di zucchero, caffè, burro.
La satira indugia su questo stereotipo negli anni tragici del conflitto mondiale. Nell’intento, molto ben accetto al regime, di attenuare l’angoscia, tutto appare come un gioco. Nessuna traccia della drammaticità, della difficoltà, del pericolo; il movimento dell’immagine dà un senso di dinamicità, di una situazione che evolve ma non dà mai l’avvisaglia di precipitare. Donne ben vestite, con paltò, guanti, cappellini, tutte fianchi, non patiscono fame né freddo; distratte da corteggiatori insistenti e attratte dal tradimento (soprattutto le donne del nemico), nella loro superficialità non si accorgono che c’è la guerra28.
I bombardamenti sulle città appaiono come un fatto irrilevante, secondario rispetto al tema più ricorrente della sopravvivenza alimentare. L’umorismo sul tempo passato nei rifugi antiaerei insiste nel dipingere questi come luogo di incontro per giovani, ritrovo salottiero per signore o alcova per amanti; appese alle pareti, maschere antigas pendono inutilizzate. Le riviste compiono una grande opera di sdrammatizzazione, rielaborando l’atteggiamento di rassegnazione che la popolazione aveva preso nei confronti delle fughe nei rifugi, vissute come parte del “tran tran” quotidiano almeno fino al 1942. Da molte testimonianze femminili emerge che le donne stesse cercavano di rendere meno scomode possibile le cantine-rifugio, approntando letti e cucine, in modo da dare una parvenza di normalità29, tanto da lasciare che i bambini vi andassero a giocare30, soprattutto se l’oratorio di quartiere era stato bombardato o ceduto temporaneamente a famiglie disagiate31, come ci ricorda Luciano Caimi.
Le donne avevano imparato a convivere con il suono delle sirene, che ogni volta ascoltavano con una singolare attenzione, quasi a voler percepire diverse intensità del pericolo. D’altro canto una certa assuefazione era data anche dal fatto che i giornali davano notizie molto scarse e imprecise sulle incursioni aeree, minimizzando gli effetti dei bombardamenti. Peraltro è vero pure, secondo varie testimonianze femminili, che molte donne reagivano negando a se stesse gli orrori della guerra e, sbigottite e disorientate, tendevano a confondere la realtà scambiando il rumore di avvicinamento dei bombardieri americani con eventi inspiegabili, irriconoscibili (o per esempio, confondendolo con il passaggio di carri sotto la finestra o con materiale di propaganda). Ma sono quelle stesse donne che accompagnavano vecchi e bambini al riparo nei rifugi e le stesse che andavano negli obitori a cercare mariti e figli rimasti morti sotto le bombe, le stesse che costruivano autarchiche maschere a gas con le latte vuote della conserva (facendo dei fori sul fondo, mettendo paglia bagnata o erba fresca all’interno e addestrando la prole all’uso: chiudere il naso con le dita e respirare con la bocca32).

In conclusione, vorrei dire che la trama data dall’intreccio tra femminilità ed erotismo, cinismo e indifferenza, è la lastra negativa su cui la satira, amplificando difetti e debolezze delle varie Giuseppa, fissa un richiamo etico e un intento educativo ed esemplare, sostenendo e facendo da “rinforzo” al vero modello femminile voluto dal Regime: il modello che emerge con vigore dai tanti manifesti di propaganda in cui la donna appare madre, sposa, sorella, infermiera33, inquadrata in un’iconografia spesso firmata Boccasile (molti ricorderanno il manifesto: Non tradite mio figlio, 194234) che la ritrae sempre in veste dimessa, con la prole stretta al petto, il corpo costantemente coperto da abiti sobri, o da tuniche informi o dalla divisa militare.
L’immagine femminile evocata e invocata nel progetto di educazione nazionale è, nello stesso tempo, simbolo di nazionalismo, eroismo e, (a scapito della racchia Genoveffa di Attalo) incarnazione di bellezza e potenza della razza, come si vuole evidenziare nelle adunate delle donne fasciste35.
I libri scolastici sono, insieme all’uso dell’immagine, lo strumento eletto per l’interiorizzazione dell’etica fascista, delineando una figura femminile, bambina, ragazza o adulta, alla quale si affida prioritariamente il rispetto dei doveri derivati dall’appartenenza alla “razza italiana”36 e al popolo e alla società fascista37. E di quanto appena detto, mi sembra possa essere un esempio il confronto tra la preghiera del Balilla e la preghiera della Piccola Italiana, presentate nel libro di quinta elementare del 1939, in cui emerge come è alla figura femminile che si chiede di essere il vero sostegno morale, e si pretende ancor più che dall’uomo soldato: il Balilla si rivolge al Signore, la bambina alla Madonna. Entrambi chiedono la benedizione della loro divisa, pregano per i sovrani e per la salute del duce. Il balilla non implora un coraggio che sembra avere già in sé, ma chiede una grazia: dare alla Patria il braccio, l’anima e, ove occorra, la vita. La piccola italiana, invece, chiede alla Vergine di poter crescere buona, forte, operosa, regina della casa e conclude: «Proteggi il Duce, che in me, mamma di domani, vede la fonte e la certezza della Patria»38.

NOTE

1 R. Coarelli, A.M. Imperioso (a cura di), Così ridevano: raccolta di vignette satirico-umoristiche sulla figura femminile nei periodici milanesi 1870-1925, Ferrara, Tufani, 1999

2 ibi, pp. 11-15.

3 Colgo l’occasione per ringraziare l’Università Cattolica del Sacro Cuore e l’Archivio per la Storia dell’Educazione in Italia per aver voluto ospitare la mostra Donne nell’occhio della satira durante gli anni del fascismo all’interno del seminario su: Immagine e realtà. Donne, educazione, fascismo. Ringrazio quindi il dott. Luigi Morgano e il prof. Luciano Caimi; un ringraziamento particolare devo al prof. Luciano Pazzaglia, fondatore e direttore dell’Archivio e al prof. Fulvio De Giorgi, ai quali desidero esprimere la mia riconoscenza per avermi sempre dato sostegno e suggerimenti nel lavoro di ricerca e per il contributo offerto nelle iniziative organizzate in collaborazione con la Braidense, attualmente diretta dal dott. Aurelio Aghemo, che qui ringrazio. Ancora devo rinnovare la mia gratitudine a Paolo e Ornella Ricca, cari amici e preziosi mecenati il cui intervento è stato fondamentale per la realizzazione della mostra e del relativo catalogo. Grazie di cuore alla dott.ssa Renata Bressanelli che, insieme con la dott.ssa Sara Lombardi, ha curato l’organizzazione e l’allestimento della mostra.

4 R. Coarelli, A.M. Imperioso (a cura di) Giuseppa, Genoveffa e le altre, Manduria, Barbieri, 2008

5 O. Del Buono, Poco da ridere: storia privata della satira politica dall’”Asino” a “Linus”,  Bari, De Donato, 1976, pp. 56-57. «una missione di importanza grande e delicata,- diceva il duce - poiché nell’età contemporanea, dopo la scuola che istituisce le generazioni che montano, è il giornale che circola tra le masse e vi svolge la sua opera d’informazione e di formazione. Non è quindi affatto assurdo che, trattandosi di continuare l’educazione formativa delle moltitudini, i giornalisti debbano essere moralmente e tecnicamente preparati: è evidente che nelle scuole non si fa il “giornalista” come non si fa il “poeta”. Ciò nondimeno, nessuno vorrà negare l’utilità delle scuole stesse».

6 P. Pallottino, Storia dell’illustrazione italiana, libri e periodici a figura dal XV al XX secolo, Bologna, Zanichelli, 1988, p. 311

7 N. Tranfaglia, P. Murialdi, M. Legnani, La stampa italiana nell’età fascista, in: V. Castronuovo, N. Tranfaglia (a cura di), Storia della stampa italiana, IV vol., Roma-Bari, Laterza, 1980, pp. 182-183

8 «Di fronte alla stampa controllata ed estremamente noiosa,le riviste umoristiche costituivano un buon mezzo per conoscere altri aspetti della vita che, per la natura stessa dell’umorismo, apparivano sovversivi» spiegava dopo quarant’anni Saul Steinberg, vedi: M. Tedeschini Lalli, Fuga d’artista. L’internamento di Saul Steinberg in Italia attraverso il suo diario e i suoi disegni, in: «Mondo contemporaneo: rivista di storia», 2008, n. 2, p. 98

9 P. Pallottino, Storia dell’illustrazione italiana, cit., pp. 324-326.

10 Sugli illustratori e le relative vignette presentati nell’esposizione si veda il saggio di M. Valotti, Gli illustratori, in: Giuseppa, Genoveffa e le altre, cit.,  pp. 18-41

11 P. Pallottino, Storia dell’illustrazione italiana, cit. 324-326

12 O. Del Buono, Poco da ridere, cit., pp.70-71

13 tanto che Zavattini stesso, ricordando quegli anni successivamente quando era ormai un affermato regista cinematografico confessò: «sarebbe una menzogna, un falso della storia, avallare certe manovre che tendono a dimostrare come noi, umoristi di allora, fossimo antifascisti. Non facemmo nulla contro il fascismo: imbrogliare le carte, oggi è più vergognoso che nascondere la verità» cfr. P. Pallottino, Storia dell’illustrazione italiana, libri e periodici a figura dal XV al XX secolo, p. 324

14 cfr. Litterator, Libri di scuola, in: «Il Selvaggio», 1932, n. 5

15 M. Tedeschini Lalli, Fuga d’artista. L’internamento di Saul Steinberg in Italia, cit. p. 98. Il controllo sull’immagine del duce era strettissima: prima di essere pubblicate sulla stampa, le sue fotografie dovevano essere presentate all’ufficio Stampa del Capo del governo per avere l’autorizzazione alla pubblicazione. Questa norma valeva anche per i disegni riproducenti Mussolini. Basti come esempio il rimprovero che toccò al Resto del Carlino per aver pubblicato una foto del duce sottotitolata: “Il duce a Predappio a colloquio con una popolana durante la visita ai luoghi danneggiati dalle alluvioni” (foto Zoli). Il disappunto di Mussolini era dato dall’accostamento della sua figura a disastri naturali, sciagure, ed eventi negativi in genere. Cfr. M. Franzinelli, E.V. Marino, Il duce proibito: le fotografie di Mussolini che gli italiani non hanno mai visto, Milano : Mondadori, 2003, p. XVII-XIX

16 M. Carpi, Cesare Zavattini direttore editoriale, Reggio Emilia, Aliberti, 2002, p. 78

17 E. Decleva, Mondadori, Torino, UTET,1993, pp. 124-131

18 Riprendo le parole di Silvana Patriarca quando analizza la forma espressiva con cui l’immaginario collettivo del concetto di nazione nel tempo è andato connotandosi al maschile attraverso un linguaggio che «include ed esclude, sottolinea le differenze, l’amore e l’odio, l’orgoglio e la vergogna, include i fratelli esclude i nemici, i diversi e le donne, quasi sempre considerate nazionali di seconda classe», cfr. S. Patriarca, Il sesso delle nazioni: genere e passioni nella storiografia sul nazionalismo, in: «Contemporanea», 2007, n.2, p. 354

19 F. De Giorgi, Strutture del totalitarismo educatore fascista: a proposito di alcuni studi recenti, in: «Pedagogia e vita», 2008, n. 34, pp. 210-211

20 R. Coarelli, Da Bertoldo a Settebello: l’autarchia e la guerra, in: Giuseppa, Genoveffa e le altre, cit., pp. 63-67

21 S. Salvatici, Un mondo in affanno: famiglie agricole nell’Italia fascista, in: «Passato e presente», 1995, n. 36, pp. 93-114

22 L. Pazzaglia, L’Associazionismo magistrale cattolico: la vicenda della Nicolò Tommaseo, in: L. Pazzaglia (a cura di) Cattolici, educazione e trasformazioni socio-culturali in Italia tra Otto e Novecento, Brescia, La Scuola, 1999, pp. 564-593

23 M. Mafai, Pane nero: donne e vita quotidiana nella seconda guerra mondiale, Milano, Mondadori, 2001, p 94

24 ossia Lidia Morelli, cfr. L. Marrella, Burro o cannoni? Per una vita in tono minore delle italiane in tempo di guerra (1941-42), in: Giuseppa, Genoveffa e le altre, cit., pp. 43-62

25 F. De Giorgi, L’immagine femminile dell’Italia e la satira politica, in: Giuseppa, Genoveffa e le altre, cit., p. 11

26 S. Mugno, Il pornografo del regime: erotismo e satira di Mameli Barbara, Viterbo, Stampa alternativa, 2007

27 P. Biribanti, Boccasile: la signorina grandi firme e altri mondi, Roma, Castelvecchi, 2009, p. 43

28 R. Coarelli, A.M. Imperioso, Le donne de “il settebello”, settimanale umoristico di Achille Campanile e Cesare Zavattini, in: «Contemporanea», 2005, n. 3, pp.485-495

29 L. Motti, Le donne, Roma, Editori riuniti, 2000 (Storia fotografica della società italiana diretta da Giovanni De Luna e Diego Mormorio), p. 16

30 M. Gioannini, G. Massobrio, Bombardate l’Italia: storia di guerra di distruzione aerea 1940-1945. Milano: Rizzoli, 2007, pp. 222-267

31 L. Caimi, Giovani e educazione nell’Italia del secondo dopoguerra: percorsi, ambienti, testimoni, Milano ISU Università Cattolica, 1991, p 76. A Milano nell’ultima parte della guerra gli iscritti agli oratori erano circa 15.000 ma per vari disagi negli oratori stessi (bombardamenti, mancanza di educatori in quanto chiamati al fronte, occupazione dei locali da parte di famiglie disagiate), i ragazzi che frequentavano erano circa 10.000, ibidem.
Sull’associazionismo giovanile durante il fascismo si veda: L. Caimi, Cattolici per l’educazione: studi su oratori e associazioni giovanili nell’Italia unita, Brescia, La Scuola, 2006, pp. 165-239

32 M. Gioannini, G. Massobrio, Bombardate l’Italia: storia di guerra di distruzione aerea 1940-1945. cit, pp. 222-267. Vedi anche: M.G. Camilletti, Quando le donne raccontano il «nemico». Il caso di Ancona, in: Storia e problemi contemporanei. Donne tra fascismo, nazismo,guerra e resistenza, 1999, n. 24, pp. 91-92

33 L’invasore non deve passare: manifesti di propaganda dalle collezioni civiche vigevanesi (1927-1945), Vigevano, Città di Vigevano, assessorato alla cultura; Provincia di Pavia; Regione Lombardia, 2002, catalogo mostra presso il Castello sforzesco, seconda scuderia, 11 maggio-16 giugno 2002, pp. 42-46.

34 P. Biribanti, Boccasile: la signorina grandi firme e altri mondi, cit., p. 224-227

35 «I giornali impostino la prima pagina e diano molto spazio della seconda all’adunata delle donne fasciste; nei commenti esaltino la grandiosità della manifestazione di stamane che costituisce una visione di potenza e bellezza della razza italiana (insistere sulla razza) […] 28 maggio 1939» in N. Tranfaglia, La stampa del regime1932-1943. Le veline del Minculpop per orientare l’informazione, Milano, Bompiani, 2005, p. 154

36 i cui “caratteri spirituali, si legge in un libro scolastico del 1940, sono: «la pronta e vivace intelligenza, la versatilità e la laboriosità, la parsimonia e la sobrietà della vita, l’amore al lavoro, alla famiglia e alla Patria, l’innato e vivo senso artistico», cfr. A.R. Toniolo,G. Merlini, La geografia economica e commerciale. Italia e colonie, 3. ed. riv., Milano-Messina,Principato, stampa 1940, pp. 53-54.

37 Significativo è il fatto che solo nell’anno scolastico 1935-36, e solo per la quinta classe, venne introdotto il libro di lettura femminile, ma che questo venne soppresso dopo quattro anni, senza rammarico da parte della stampa scolastica la quale, al momento della disposizione, volle dare rilievo all’importanza della collaborazione tra i sessi, sia nella famiglia sia nella società, cfr. M. Bacigalupi, P. Fossati, Da plebe a popolo: l’educazione popolare nei libri di scuola dall’Unità alla Repubblica, Scandicci, La Nuova Italia, 1986, p. 200.

38 L. Rinaldi, Il libro della V classe elementare. Letture, Roma, La libreria dello Stato, 1939,pp. 84-85

 

vedi anche:
Donne a colori e in bianco e nero Realtà sociale e immaginario attraverso la satira del ventennio, di Anna Maria Imperioso

 

25-04-2011

 

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