Donne a colori e in bianco e nero
Realtà sociale e immaginario attraverso la satira del ventennio

Anna Maria Imperioso

Questa ricerca 1 è la naturale prosecuzione di uno studio sulla figura femminile nella satira tra l’unità d’Italia e il primo novecento, un periodo storico percorso da profondi mutamenti dell’identità femminile e, dunque, della sua percezione sociale. Tale studio, inserito in una mostra iconografica venne presentato nel 1999, all’VIII edizione della biennale internazionale di umorismo femminile di Ferrara 2. L’idea di fondo  era quella di accostare e  confrontare l’umorismo sulle donne di inizio secolo con quello delle donne contemporanee: l’autoironia delle moderne disegnatrici 3 contrapposta al sarcasmo diretto contro le donne  virtuali degli umoristi del passato.

La prima ricerca, oltre a mostrare la misoginia del tempo, aveva permesso di cogliere  interessanti aspetti del primo movimento femminile italiano, oltre che di sfatare alcuni miti e pregiudizi attorno ad esso. La carrellata di figure femminili ci restituisce l’immagine che la pubblica opinione – la più colta – aveva della donna, e come quell’immagine stesse rapidamente cambiando, di decennio in decennio. La donna ottocentesca è ritratta in pose statiche e pensose,  sembra far parte dell’interno della casa,  della cornice, in ambienti chiusi ed evocativi di intimità domestiche: l’allusione satirica, venata di moralismo, era affidata quasi esclusivamente alle didascalie che dovevano in qualche modo far comprendere il senso di quelle immagini.
La donna di inizio ‘900 irrompe, nelle illustrazioni, con tutta la sua carica di modernità in uno stile completamente nuovo: abiti maschili e sigaretta in bocca,  l’emancipazionista appare sempre  in luoghi aperti o all’interno di circoli femministi. L’umorista saluta la donna “del secolo nuovo” cogliendone soprattutto l’aspetto trasgressivo, liberatorio. I “club delle emancipate” ospitano una libertina che fuma, che beve, seguace delle teorie sul libero amore,  tiene comizi intorno al  tavolo di casa e si allena al tiro a segno. Il tratto del disegnatore diventa netto, essenziale,  come nei manifesti  delle prime campagne pubblicitarie.4

Tra le illustrazioni del primo ‘900 e la produzione umoristica del ventennio  passa la guerra col suo carico di lutti e dissolvimento di antichi valori e costumi. La satira risparmia ormai i club femministi-emancipazionisti di inizio secolo, ridotti alla marginalità. Sulla scena si affaccia un nuovo tipo di donna: è uscita dal conflitto più forte, ha occupato gli spazi dell’uomo impegnato al fronte, imparando a reclamare i suoi diritti.
Scorrendo le immagini degli umoristi del  periodo fascista, si coglie oltre al dileggio intorno alla donna,  anche una certa autoironia. La figura che ci sorride dalle pagine di «Ecco Settebello», del «Travaso delle idee», del «Marc’Aurelio» ci appare smaliziata, moderna, velatamente opportunista: diviene mano a mano  protagonista della scena mentre l’uomo viene dipinto spesso sullo sfondo, piccolo e intimorito. L’identità sociale della donna non è più definita dal nucleo familiare  che la circonda, ma dal tipo di lavoro che svolge.
Le didascalie che accompagnano le vignette sono molto indicative del cambiamento di costume: si intravede una donna che si muove con disinvoltura nel mondo, proiettata in avanti, che vuole  divertirsi.  Le immagini che la rappresentano sono vitali e a colori molto vivaci, mentre le suffragiste vengono rappresentate sempre in bianco e nero, come madri sciagurate o avvizzite zitelle: si intravedono grottesche figure di virago, moralmente spregiudicate, in situazioni che riproducono il classico ribaltamento dei ruoli.

La satira facciale si accanisce contro donne  a congresso brutte, vecchie e di “sesso incerto”, come la  divertente  vignetta di Manca per il «Guerin Meschino» 5 che ritrae delle anziane congressiste molto compiaciute per la sostenuta immaturità della donna: tema, questo dell’immaturità femminile, ricorrente nella pubblicistica  del tempo per osteggiare i diritti di cittadinanza reclamati dalle donne.


Come noto, il voto così insistentemente chiesto dalle associazioni femminili sopravvissute alle divisioni e alle frammentazioni del movimento femminista di inizio secolo,  venne concesso con la legge n.2125 del 22.11.1925. Non il suffragio universale, come richiesto dal movimento, ma il voto amministrativo, definito subito “il voto alle signore” perché riservato a una categoria ben selezionata di donne. Inoltre, l’iscrizione nelle liste elettorali non era automatica, ma subordinata alla presentazione della domanda da parte delle interessate. 6

Osservando le vignette, si coglie il dileggio con cui fu accompagnato il progetto di legge, presentato alla Camera nel 1923: i deputati, infatti, commentavano ogni articolo con frizzi volgari e commenti preoccupati e moralistici sull’integrità della famiglia. Al di là della beffa finale che vide la soppressione del voto con l’istituzione del regime podestarile nei comuni, la partecipazione delle donne all’iscrizione nelle liste elettorali fu piuttosto esigua tanto che la pubblica opinione fu indotta a credere che “poche esaltate” lottavano per diritti decisamente non richiesti. 7  Puntuale la satira sul «Guerin Meschino» del 14.3.1926:

    Eravate uno stuolo altoparlante contro il furor maschile
che negava le schede sacrosante….   Oh meraviglia:
le pugnaci file,  nel giorno del cimento,  si son ridotte
appena… al tre per cento!             

Altro bersaglio ricorrente nella satira del ventennio è il lavoro delle donne. L’argomento della “smania degli studi delle donne”, che costituiva un po’ il ‘leit motiv’ degli umoristi di inizio secolo viene abbandonato, malgrado «la vera e propria esplosione dell’istruzione femminile a partire dal 1930 8».
L’insistenza con cui i disegnatori sbeffeggiano la figura della lavoratrice ci riporta alla situazione di pesante disoccupazione del primo dopoguerra e alle leggi espulsive e discriminatorie verso la donna emanate dal governo a partire dal 1923, via via fino al 1938, soprattutto nel campo del lavoro impiegatizio, settore che entrava in concorrenza col lavoro richiesto dall’uomo. 9  Scorrendo le tabelle divise per sesso sull’occupazione negli anni ’30, il terziario è infatti il settore più incrementato sul versante femminile. 10

Se mettiamo in relazione l’identità femminile con lo sguardo maschile che la rappresenta nella satira, si avverte lo scompiglio portato nelle tradizionali categorie sociali dall’inarrestabile processo di modernizzazione post-bellico che innesca, fra l’altro, l’ingresso nella sfera pubblica di masse sempre più numerose di donne.  Gli sforzi del regime per controllare e incanalare entro «schemi convenienti» l’attività delle lavoratrici  trovarono molte resistenze, aperte o sottaciute 11.
Gli umoristi, strizzando l’occhio al mondo maschile,  tratteggiano in abbondanza segretarie compiacenti con i commendatori e professioniste fatue ed incapaci. La figura della dattilografa,  molto popolare negli anni ’30, diventa l’ispiratrice di una copiosa letteratura romantica. 12

La satira, d’altronde, poteva accanirsi facilmente e impunemente  contro un bersaglio sostanzialmente debole, culturalmente e politicamente.
Si ripropongono i luoghi comuni sulle «donne-avvocati» (vedi vignetta su «Bertoldo» 13): avvocatesse che sfilano come mannequins tra le mura del tribunale accavallando provocatoriamente le gambe  e indossando la toga come un abito da sera.

I pregiudizi intorno all’attività forense femminile erano  abbastanza forti: si riteneva che le avvocatesse fossero più adatte  alla collaborazione nelle riviste giuridiche o ai commenti sulle decisioni dei magistrati più che «all’aspro attrito fra le parti e ai sottili accorgimenti dialettici». 14 Non a caso la stampa femminile dell’epoca rilevava il grosso scarto fra il numero delle laureate in giurisprudenza e le avvocatesse che esercitavano effettivamente la professione (circa 60 nel 1938 15); si registrava infatti la rinuncia delle donne a irrompere in un ben consolidato territorio tradizionalmente maschile. 16

Lo stesso timbro di umorismo a sfondo sessuale si ritrova nello stereotipo della dottoressa tutta corpo (vedi vignette su «Travaso» o «Ecco Settebello») 17, distratta o dispensatrice di consigli terapeutici stravaganti. 18
L’umorista sembra fiancheggiare l’abile opera di propaganda del regime che circondava di riprovazione sociale la donna che sceglieva di intraprendere professioni in contrasto con l’ideologia dominante; le studentesse erano sollecitate a realizzarsi in professioni “più femminili”, in sintonia col ruolo materno: l’insegnante, l’infermiera o la farmacista. Le direttive del regime alle riviste satiriche invitavano peraltro ad evitare ogni forma di ironia sulla figura del medico, dipinto spesso come corruttore  delle proprie clienti 19.
L’insistenza con cui il «Marc’Aurelio» sfornava vignette sulle donne con pretese letterarie, accusate di plagio o di compiacenti amicizie con l’editore, richiama un tema ricorrente nella pubblicistica del tempo: la figura della “letterata” era additata dal regime come modello sterile e negativo, contrario al perseguimento dell’obiettivo della madre prolifica. Di fatto, anche se escluse dai canali accademici, le intellettuali degli anni ’30 conobbero un buon successo grazie a un tipo di scrittura più vicina alla realtà sociale, percepita dai lettori come «piena di novità, di significato» 20 e al forte incremento dei periodici femminili, a cui collaboravano molte giornaliste che curavano rubriche di consigli, inchieste, sondaggi tra le lettrici, esortate ad intervenire e ad esprimere le loro opinioni su ogni argomento, dai problemi quotidiani a quelli sociali e politici. 21

Il quindicinale romano «Giornale delle donne», il 20 giugno 1940, riferiva che durante il convegno giornalistico femminile tenutosi l’11 e il 12 giugno 1940 presso la VII Triennale,  discutendo sul tema “la donna e il giornalismo”, le convenute lamentavano che i quotidiani erano decisamente restii ad ospitare l’opera del giornalismo femminile e deploravano

      il procedimento abusato specialmente da giornali della provincia, i quali ricostruiscono gli articoli delle giornaliste, togliendone stralci e rimpastandoli con riempitivi ad usum delphini. Il fatto costituisce una vera forma larvata di plagio, che sarebbe necessario portare a conoscenza del competente Ministero. 22

Sfogliando le riviste femminili del tempo dirette da donne, anche quelle di intrattenimento, meno ideologiche, si sente riecheggiare la divertente rubrica Come ti erudisco il pupo del  «Travaso delle Idee»: per definire il lavoro della donna negli uffici, nell’amministrazione pubblica, nelle banche, che allora veniva chiamato «lavoro intellettuale», le riviste usavano il termine «invasione, scesa in campo». Il conformismo uniformava quasi tutte le testate, da «Vita Femminile» a «Rakam», da  «Matelda» a «La Fiorita»: si esortavano le disoccupate alla rassegnazione, si blandivano le più riottose cercando di persuaderle della necessità dei licenziamenti o promuovendo pretestuosi dibattiti pro e contro il lavoro femminile, incrociandolo sempre col tema demografico così caro al regime. Si proiettava infatti sulla lavoratrice, sull’emancipata, sulla cosiddetta  “donna crisi”, l’ansia della denatalità che aveva ben altre radici, soprattutto la crisi economica  che spingeva le donne a controllare con ogni mezzo le nascite e quindi a non aderire alla campagna demografica lanciata dal regime. Si susseguivano le inutili «veline» da parte del Minculpop, come questa del 29.7.1932:

      […] E’ stato fatto un richiamo a un giornale di Roma per un disegno rappresentante una donna eccessivamente magra. Data la suggestione che tali disegni esercitano sulle donne non magre e la ripercussione che i dimagramenti forzati hanno nella prolificità e quindi nella efficienza demografica, è bene che tali disegni non compaiano più […] 23

Oppure, questa del 5 febbraio 1935, firmata conte Ciano, che sembra uscita dalla penna di un umorista:

      […] La campagna demografica va malissimo e bisogna che i giornali parlino chiaramente di questo deplorevole stato di cose. Si pensi che a Firenze, la scorsa settimana, in una sola giornata vi sono stati 156 morti in confronto ad un numero relativamente esiguo di nascite. Ciò vuol dire che vi sono stati in un sol giorno 156 trasporti funebri, in una città tanto frequentata da stranieri, 156 famiglie i cui componenti si sono dovuti vestire di nero e ai quali hanno dovuto essere fatte le condoglianze. Bisogna che i giornali facciano delle note in proposito per far considerare al popolo italiano la gravità di questa continua diminuzione della popolazione. In Germania, invece, la popolazione è in aumento […] 24

Vorrei sottolineare che, al di là delle continue esortazioni all’obbedienza e del retorico richiamo al sacrificio e alla missione di sposa-madre, molte delle riviste femminili e delle associazioni di riferimento offrivano di fatto una vera solidarietà alle disoccupate, sostenendo varie iniziative che aiutavano concretamente le donne a rientrare nel mercato del lavoro, seppure in altri settori e con altre mansioni.
 Mi sono soffermata brevemente su due esempi di riviste femminili che hanno dimostrato un’accettazione critica delle regole imposte alle lavoratrici dal regime, orientando  autorevolmente la pubblica opinione.
Dalle pagine del mensile romano «la donna italiana», tra le riviste di area cattolica una delle più  attente ai problemi del lavoro, la direttrice Maria Magri Zopegni - «una titubante femminista di stampo cattolico»  la definisce Victoria  de Grazia nel suo libro Le donne nel regime fascista - si batteva con fermezza per i diritti delle donne: da un lato era costretta ad orientare la pubblica opinione secondo i dettami del regime, dall’altro le difendeva dalle accuse di lavorare per comperarsi calze di seta e generi di lusso, tentando di riciclare le giovani, ex impiegate, contabili, dattilografe, in altre attività con la creazione dei laboratori “Pro disoccupate” e relativo Ufficio di collocamento, a Roma e in altre città. «In circa un anno – scriveva orgogliosamente una redattrice della rivista nell’aprile 1924 – sono state collocate 480 disoccupate ripartite nei vari rami dell’impiego e della mano d’opera».
Nel febbraio 1924 «La donna italiana» nella rubrica  Movimento sociale femminile  pubblicava questa petizione:

   Le supplenti postelegrafoniche in missione, coniugate, hanno presentato a S.E. il Ministro delle Poste un memoriale per chiedere che sia usato loro lo stesso trattamento di revisione usato per le impiegate inabili. Infatti,  la loro condizione di coniugate non deve costituire titolo di demerito o d’inferiorità rispetto alle altre impiegate. Chè, anzi, l’essere state scelte a compagne della loro vita da un galantuomo, forma un titolo di garanzia morale nei loro riguardi [… ]. 25

Sembra evidente, qui, il tentativo di aggirare le clausole di nubilato presenti nei regolamenti interni delle aziende.
Dalle pagine di «Cultura muliebre», diffuso solo per abbonamento 26, trapelano invece le difficoltà in cui si dibattevano le professioniste, soprattutto le insegnanti, per difendersi dalle discriminazioni di genere e tutelare le loro posizioni. «Cultura muliebre», di area laica, direzione e redazione completamente femminili, era il foglio mensile dell’Alleanza Muliebre Culturale Italiana, 27 associazione laica di artiste e professioniste, portavoce della FILDIS fino alla sua forzata chiusura. 28  Fin dalla sua  nascita, nel 1931,  la rivista, pur con  un atteggiamento cauto e prudente nei toni, fu «contrassegnata da una tenace difesa e valorizzazione del lavoro intellettuale delle donne» 29 e, nei momenti più caldi delle espulsioni e restrizioni imposte alle lavoratrici, riuscì a pubblicare, senza evidenti ripercussioni, coraggiosi interventi di professioniste in difesa della propria attività e «una formulazione di voto» dell’A.M.C.I. (Alleanza Muliebre Culturale Italiana) nel gennaio 1932,  al Ministro dell’Educazione Nazionale, Giuseppe Belluzzo,  firmata da 300 insegnanti di 25 città:

      […] perché le donne siano riammesse agli esami di concorso per tutte le cattedre delle Scuole Medie Superiori […].Qualunque sia l’esito della formulazione di voto è certo che essa tende non soltanto a salvaguardare gli interessi della classe insegnante femminile, ma anche e soprattutto, a porre fine alla incomprensibile anomalia per cui le donne escluse come insegnanti di ruolo sono riammesse come supplenti. 30

Nel numero dell’ottobre/dicembre 1938, di fronte alle nuove limitazioni imposte al lavoro femminile dal decreto legge del 5 settembre 1938 31, Luigia Pirovano, la direttrice del foglio, che dal 1933 si chiamava «Attività Muliebre» e che nel corso degli anni aveva dovuto adattarsi progressivamente alla realtà politica, si rivolgeva a certi giornali femminili criticandone l’ambivalenza.  In un editoriale molto duro: Due parole fra noi donne, la direttrice sosteneva la necessità del «sacrificio di abbandonare posizioni splendide faticosamente raggiunte», ma lo  rivendicava come una scelta di sacrificio e di patriottismo, parole che ricorrono spesso nel suo editoriale:

     […] Noi donne abbiamo uno strano modo di comportarci fra noi ed abbiamo il coraggio di leggere, senza sdegnarci, e sui nostri stessi giornali, pagine e pagine che pretendono di dimostrarci con argomentazioni estremamente banali che è molto utile per noi rinunciare al lavoro. Ma chi autorizza a credere che l’utile sia l’unica molla che riesca a farci scattare? Chi autorizza a credere che bastino poche parole per convincerci che siamo immeritevoli del posto che occupiamo e che ci convenga quindi di abbandonarlo al più presto? […] Questo non significa, però, che sia bene insorgere contro una limitazione imposta da imperiosissime cause; assolutamente no, purchè sia salva la dignità di chi è invitato ad abbandonare le posizioni raggiunte, nel superiore interesse della causa comune […] 32

 

 

 

 

NOTE

1 Ringrazio vivamente il Prof. Luciano Pazzaglia, Direttore dell’Archivio per la Storia dell’Educazione in Italia dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Brescia e il Prof. Fulvio De Giorgi, che hanno dimostrato apprezzamento per questa testimonianza sulla stampa del periodo fascista, ospitando la mostra iconografica sulla donna nella satira durante gli anni del fascismo, assieme allo stimolante seminario di studio su “Immagine e realtà. Donna, Educazione, Fascismo”. L’apporto dei collaboratori dell’Archivio è stato prezioso e ringrazio in particolare la dott. Renata Bressanelli e la dott. Sara Lombardi.
Uno speciale ringraziamento va ad Ornella e Paolo Ricca che hanno sostenuto fin dall’inizio questo progetto aiutandoci a realizzare il pregevole catalogo della mostra.

2 La biennale internazionale di umorismo femminile è stata ideata e organizzata, dal 1985, da Luciana Tufani, titolare della Casa editrice Tufani e dal Centro Documentazione Donna di Ferrara

3 Le venti autrici contemporanee esposte nella mostra, presso il Castello di Ferrara,  sono rappresentate nel catalogo Così ridiamo,  Tufani, Ferrara 1999.

4Vedi R.Coarelli e A.M.Imperioso (a cura di), Così ridevano, Raccolta di vignette satirico-umoristiche sulla figura femminile nei periodici milanesi: 1870-1925, Tufani, Ferrara 1999.

5«Guerin Meschino», Milano, 4 (1925), XLIV.

6 C. Ravera, Breve storia del movimento femminile in Italia,  Editori Riuniti, Roma 1978, pp.127-128

7 Dalle pagine de «Il Popolo d’Italia» del marzo 1926, trapela l’attivismo delle associazioni femminili lombarde per raccogliere la documentazione necessaria all’iscrizione delle donne nelle liste elettorali: vengono citate l’Unione Femminile Nazionale, l’Associazione generale delle operaie, i Fasci femminili, il Comitato lombardo per il suffragio femminile, ecc. L’Unione Femminile Nazionale organizza anche «corsi serali rapidi per le donne del popolo» per conseguire il diploma scolastico richiesto dalla legge. Da più parti viene chiesta al Ministero dell’Interno una proroga del termine per la presentazione delle domande di iscrizione nelle liste elettorali. All’indomani della sconfitta, l’amarezza  determinò  reciproci scambi di accuse e polemiche fra le rappresentanti dell’associazionismo femminile italiano.  Ester Lombardo, l’intraprendente curatrice della Rassegna del Movimento Femminile Italiano  in «Almanacco delle donne italiane» ( nel 1926  la Lombardo, militante fascista,  sostituì la socialista Laura Casartelli Cabrini che aveva denunciato le ambiguità del regime nei confronti del movimento femminile anche sul problema del voto), scrisse nella Rassegna  del 1927: « […] l’esperimento del voto femminile amministrativo e precisamente delle iscrizioni alle liste elettorali […] è stato quanto mai sconfortante ed ha fatto dire agli uomini che il voto in Italia era stato chiesto da un gruppo, ahimè! di esaltate (dico, ahimè, poiché c’era anch’io) e che la massa cosciente non la voleva. Duemila iscritte a Roma e cinquemila a Milano rappresentano un fiasco bello e buono. La causa? Cause diverse. Prima, la mancanza di propaganda […]». A fronte di questi eventi,  in Inghilterra il Matrimonial Causes Act nel 1923 parifica l’adulterio maschile a quello femminile nella legislazione sul divorzio. Nel 1928 le donne inglesi ottengono il voto alla stessa età degli uomini.

8Cfr. M.Ostenc, La scuola italiana durante il fascismo, Laterza, Roma-Bari 1980, p.202

9Sul tema vedi M.V. Ballestrero, Dalla tutela alla parità, Il Mulino, Bologna 1979

10 V. de Grazia, Le donne nel regime fascista, Marsilio, Venezia 1993, p.249

11Vedi  M.Addis Saba, La corporazione delle donne, Ricerche e studi sui modelli femminili nel ventennio fascista, Vallecchi, Firenze 1988

12 Fra i tanti romanzi sull’argomento:  M. Van Vorst, La dattilografa e l’amore, Salani, Firenze 1933; G.Gerbino, Barbara la dattilografa, Morreale, Milano 1929; G. Andini, Bianca, la piccola dattilografa: emozionante romanzo, S.L.Ne’ Tip.1932; C. Mandel, Il romanzo di una dattilografa, Studio Letterario, Milano 1943; R. Bazin, Il matrimonio della signorina gimel dattilografa, Salani, Firenze 1930; Il matrimonio della dattilografa, Cappelli, Bologna 1928; Dyvonne, Titti, dattilografa e lui, Salani, Firenze 1934; G. Filotti, Ideali delle dattilografe, Tip. Ind. Piemontese, Torino, 1932; L. Peverelli, Sogni in grembiule nero,  Mani di Fata, Milano 1940.

13 «Bertoldo», Milano, 10 (1939), IV

14 F. Olivieri, La donna nella vita forense italiana,  «Il Giornale della Donna», 10 (1928), VI, p.1

15V. de Grazia, «Le donne nel regime fascista», cit., p. 265

16 La penalista Lina Furlan, nel 1939, precisa che le iscritte all’Albo degli Avvocati sono due mentre nell’Albo dei Procuratori la schiera è più numerosa. Rispetto ai pregiudizi dell’opinione pubblica sulle donne avvocato, aggiunge: […] «La donna avvocato non casca nel ridicolo o nel sentimentale né coll’esporre tesi assurde, né coll’assumere atteggiamenti da Crocerossina verso i delinquenti che deve difendere. La mia comprensione delle manchevolezze di coscienza e di tutte le debolezze dell’istinto non si trasforma in solidarietà. La mia fraternità non arriva sino all’evangelico bacio del lebbroso. E non credo di cadere nel peccato di superbia se io mi impongo di mantenere le distanze […]  Si ricomincia poi all’indomani con cuore vergine ad analizzare nuovi drammi, confidando solamente nella forza della nostra parola, nel gioco della nostra dialettica.» Cfr. L.Furlan, Le donne avvocato dell’Almanacco Annuario “donne italiane”, «Attività Muliebre», 4-5-6, (1939), IX, p.6.

17« Il Travaso delle idee», Roma, 26 (1929), XXX; «Ecco Settebello», Milano, 327 (1940), VII.

18 Secondo gli elenchi delle donne professioniste stilati dall’«Almanacco della donna italiana» nel 1938, le donne medico in Italia erano 297.    La maggior parte delle “medichesse” dell’epoca si dedicava alle malattie di donne e bambini, che richiedevano «speciale finezza e pazienza»: radioterapia, malattie cutanee, laringologia, ed erano inserite nelle opere assistenziali, in dispensari antitubercolari, scuole di puericultura e asili. Cfr. M.A.Loschi, Attualità femminile,  «La donna italiana»,  5 (1927), IV.

19 N.Tranfaglia, P.Murialdi, M.Legnani, La stampa italiana nell’età fascista, in V.Castronovo, N.Tranfaglia (a cura di)
Storia della stampa italiana, vol.IV, Laterza, Roma-Bari 1980, p.183

20 V. Daria Banfi Malaguzzi, Rassegna letteraria, Scrittrici d’Italia,  «Almanacco della donna italiana», 1933, pp.135-136.

21 H.Dittrich Johansen, La “donna nuova” di Mussolini tra evasione e consumismo, «Studi storici», 3 (1995), anno 36, p.823.

22 «Giornale delle donne», rubrica Vita femminile, 12 (1940), p.139.

23 N.Tranfaglia, La stampa del regime 1932-1943. Le veline del Minculpop per orientare l’informazione,  Bompiani, Milano 2005, p. 168.

24 Ibi,p.176

25 « La donna italiana», 2 (1924), p.165.

26 D.Gagliani, Senza Camelie, Percorsi femminili nella storia, Longo editore, Ravenna 1990, p.51.

27 La rivista, nel gennaio 1933, cambiava il nome della testata in «Attività Muliebre», ufficialmente per divenire più aderente all’attività dell’associazione: raccogliere notizie, principi e stringere vincoli di solidarietà fra donne che studiano e producono nel campo del pensiero.

28 La Fildis (Federazione Nazionale Laureate e Diplomate) sorse negli anni 1920-22 e fu costretta a sciogliersi nel 1935.

29 R.Carrarini - M.Giordano, a cura di, Bibliografia dei periodici femminili lombardi:1786-1945, Bibliografica,   Milano1993, pag.89.

30 «Cultura Muliebre», 1 (1932), II.

31 Cfr. M.R. Cutrufelli et al., Piccole italiane: un raggiro durato vent’anni, Anabasi, Milano 1994, p.115: «Viene varata una legge che ammette negli uffici pubblici e privati l’impiego di un massimo del 10% di donne in proporzione ai posti e stabilisce l’esclusione totale delle donne da quei pubblici impieghi per i quali siano ritenute inadatte per inidoneità fisica o per le caratteristiche degli impieghi stessi […]».

32 L.Pirovano, Due parole fra noi donne,  «Attività Muliebre», 10-11-12 (1938), VIII.

 

vedi anche:
Da «Bertoldo» a «Settebello» donne e morale di regime: l’autarchia e la guerra,
Rossella Coarelli

 

11-04-2011

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