di Liliana Moro
Anna Banti (pseudonimo di Lucia Lopresti, 1895-1985) pubblica Noi credevamo nel 1967, già nell'autunno di quell'anno si verificarono in Italia le prime occupazioni di sedi universitarie da parte degli studenti. Iniziava insomma il '68. Ma Banti parla del Risorgimento, narra gli anni cruciali che portarono alla formazione del nostro stato nazionale. Lo fa scegliendo un punto di vista molto particolare e molto illuminante : quello di un vinto. Il suo romanzo assume la forma dell'autobiografia di un democratico, repubblicano e meridionale. Insomma un uomo che vide frustrati tutti i suoi ideali nella concreta costruzione dello stato italiano, che fu monarchico, antidemocratico (in particolare col governo Crispi) e condusse da subito una vera e propria occupazione militare del sud con la lotta al brigantaggio. Dunque si tratta di una ricostruzione senz'altro non di maniera, lontana dalle enfatiche e stereotipate celebrazioni (in agguato anche per questo centocinquantesimo dell’unità) che lessero a posteriori il processo risorgimentale come un movimento sostanzialmente concorde di Cavour e Garibaldi, di Mazzini e Vittorio Emanuele. Si sa che invece le posizioni furono molteplici e spesso in lotta acerrima tra loro, che nessuno avrebbe scommesso sullo staterello dei Savoia e che la soluzione monarchica e unitaria fu frutto di compromessi e forzature. Domenico Lopresti, il narratore, giunto alla fine di una lunga vita scrive per spiegare a se stesso le ragioni di una sconfitta così vasta e profonda, per capire dove si annida l'errore che l'ha portato a essere uno sradicato, un esule in patria, un emarginato nell'Italia tanto sognata. Con precisione vengono evidenziati, in questa ricostruzione di una vita avventurosa, alcuni mali di cui ancor oggi soffre la società italiana : il divario profondo tra ricchi e poveri; l'estrema povertà e rassegnazione del popolo, indifferente ai movimenti politici; l'astrattezza e la litigiosità dei rivoluzionari; la differenza e l’incomprensione tra nord e sud; la diffidenza che le classi dirigenti nutrono nei confronti delle masse subalterne; la brutalità della repressione del dissenso. Temi che dal periodo risorgimentale si prolungano nell'Italia del Novecento, fino agli anni successivi alla seconda guerra mondiale ed erano ben presenti negli anni Sessanta: quando Anna Banti compose il suo romanzo era ormai evidente la delusione per una Resistenza sfociata nell'Italia democristiana, come il Risorgimento era approdato all'Italia sabauda. Questi temi/problemi si applicano anche all'oggi, cosa che fa egregiamente il film di Mario Martone che reca lo stesso titolo ed è in parte tratto dal romanzo della Banti. Le figure femminili non sono numerose, a conferma dell'esiguità della presenza delle donne nella sfera politica. Ma le poche sono donne che si stagliano positivamente sul grigiore e sulla confusione di tempi travagliati; sono decise, lucide, concrete e coraggiose, meno inclini ai settarismi e agli astratti furori dei protagonisti maschili. Nel film la grande Cristina Belgioioso, nel romanzo miss Florence Ashley, l'unica persona con cui il protagonista confessa di avere una profonda, immediata comprensione e che compare in un momento cruciale con interventi risolutivi. Martone propone una lettura storica molto più cupa e pessimista di Banti; si vede che su di lui, su di noi, pesa la devastazione attuale. Alle precedenti disillusioni si somma quella seguita a un terzo momento, il ’68, nel senso dell’involuzione di parte del movimento verso il terrorismo. Un problema su cui il regista evidentemente si interroga, mentre non ho visto nessun riflesso dei cambiamenti che i movimenti degli anni Settanta -in particolare i femminismi- hanno di fatto apportato alla società italiana, mutamenti cui è rimasta sicuramente estranea la politica.
Anna Banti, Noi credevamo
1-02-2011
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