Sì l’unica parola che conta è quella della donna

di Elettra Deiana

Stupisce – ma forse no, a ben leggere - la domanda che Ritanna Armeni pone nel bel mezzo dell’articolo a sua firma comparso ieri su Liberazione: “E’ giusto contrapporre a chi dice che la decisione spetta al medico che, invece, deve essere la donna a decidere sempre e comunque?”

Non solo è giusto, dico io, ma doveroso e non prescindibile. E aggiungo: mai come oggi. Lei, la donna, potrà consigliarsi, chieder aiuto, ascoltare il parere del medico, delegare al partner la decisione. Tutto quello che si sentirà di fare e vorrà fare. Ma l’ultima parola, quella che conta, quella che decide è soltanto sua.

E tanto più stupisce la domanda di Armeni in quanto è posta a partire dall’evento mediatico costruito da un gruppo di ginecologi romani che, in occasione dell’ennesima giornata cattolica in favore della vita, hanno stilato un documento in cui si parla di rianimazione dei feti, da tentare in qualsiasi momento della gravidanza e quale che sia il peso del feto stesso.

La scienza usata come clava contro le donne, in macabra connessione ideologica con i diktat di santa romana chiesa e  mentre imperversano i furori misogini di papa Ratzinger e l’ateo devoto Giuliano Ferrara promuove a livello internazionale la campagna per la moratoria dell’aborto.
Ci sono loro -papa Ratzinger e Giuliano Ferrara- tra i principali fautori di quell’imbarbarimento delle relazioni umane di cui si lamenta Ritanna Armeni, mentre dà un colpo al cerchio, gli eccessi pro-vita, e uno alla botte, le ostinazioni retro di certe donne a voler sempre negarsi al confronto sull’aborto.

Peccato che nel suo articolo non vengano nominati come parte in causa di come si sta svolgendo il dibattito sull’aborto né il capo della Chiesa cattolica né il direttore del Foglio e l’imbarbarimento appaia come una sorta di inspiegabile fenomeno di antropologia se non di natura umana.

Siamo invece nel pieno di una campagna oscurantista, ben orchestrata e diretta, dominata dalla frenetica e impaziente attività di un movimento di ispirazione neo-guelfa, deciso a imporre nel nostro Paese l’egemonia culturale della Chiesa di Roma. Il che significa, senza tanti giri di parole, dominio della morale cattolica sui corpi e sulle nude vite, soprattutto femminili; asservimento del mondo politico, scientifico e dell’informazione; subalternità del Parlamento e delle istituzioni pubbliche alla parola, quella con la p maiuscola, del papa.

E non un papa qualsiasi, ma l’insopportabile papa Ratzinger, al secolo emblematicamente Benedetto XVI, depositario – secondo i nostrani neo-guelfi, che sono soprattutto maschi, per il momento, ma con al seguito, come sempre, qualche zelante pia donna - della verità assoluta e custode e interprete autentico della riflessione filosofica. E ovviamente “defensor fidei” contro il “collasso ontologico” postmoderno – così lo chiama il cardinal Caffarra sul Foglio - che non ha più frapposto ostacoli alla cultura abortista.

Sesso finalizzato alla procreazione, famiglia per via di matrimonio santificato, classificazione della vita, attribuzione al feto dello statuto di persona: tutto ostentatamente e dichiaratamente contro la libertà e la dignità di donne e uomini ma soprattutto contro le donne, contro i benefici cambiamenti nel mondo che le donne hanno prodotto con le loro lotte, a cominciare dall’affermazione di sé come soggetto morale oltre che giuridico, che si auto-determina a cominciare dal proprio corpo e da quell’etica della relazione tra madre e creatura che il femminismo ha nominato e le donne hanno praticato da sempre.

Mettere al mondo figli fa strettamente e intimamente parte dell’esperienza umana femminile, è un tutt’uno con quell’esperienza. Ed è un’ esperienza estrema, nel senso che non è né esportabile né imitabile. Quel mettere al mondo figli infatti non solo fa parte del corpo femminile: è corpo femminile. Corpo, cuore, mente di donna. E questo vale fino al tempo in cui una creatura viene alla luce, quando una donna consegna al mondo e alla vita vivente un altro corpo; e vale se il desiderio di maternità o semplicemente l’accettazione del proprio corpo in mutazione - fino a diventare corpo di un altro - la sostiene e l’accompagna.

Perché un altro corpo viene al mondo soltanto se lei lo desidera, lo accetta, ci convive per i lunghi mesi della gestazione. Questo è ciò che le donne fanno da sempre ed è per questo che il mondo è nelle loro mani. Parto e aborto, nel bene e nel male, nell’agio e nel disagio, nella gioia e nella sofferenza di ogni singola donna, accompagnano e segnano il cammino delle donne, come esperienza concreta di ognuna, oppure riflesso e suggestione dell’esperienza di altre, retaggio di memoria di un faticoso stare al mondo delle proprie simili. Occorre partire ancora una volta da quella irriducibile asimmetria dei corpi maschili e di quelli femminili che è racchiusa nel primato naturale delle donne sulla maternità e sul mettere al mondo la vita. E’ un’asimmetria che fortemente ha segnato e continua a segnare la storia delle relazioni tra i sessi.

La feroce invidia maschile di quell’inscindibile legame tra la vita che nasce e il corpo che la fa nascere, legame così fragile così potente, così quotidiano così magico, da sembrare divino, così vicino così remoto, ha segnato il passo delle relazioni tra i sessi, ha costruito assetti sociali e rappresentazioni simboliche dominate dal maschile e dalla maschile misoginia. E spasmodicamente ha mirato sempre a spezzare la connessione tra corpo femminile gravido e creatura della gravidanza.
Frugando nel corpo femminile, vivisezionandolo, oggi invadendolo di tecniche investigative, cercando di arrivare a carpire la scintilla della vita per impossessarsene.
Soprattutto cercando di cancellare l’autonomia di quel corpo e di quella mente: non più corpo ma contenitore di corpi, inerte recipiente che accoglie lo sperma maschile, il solo autentico principio di vita e di potenza procreativa.

Questo gli uomini, immemori o forse troppo memori nati di donna, fanno da sempre, riempiendo chiese, tribunali, università, enciclopedie, laboratori scientifici, provette e alambicchi, delle prove delle loro verità teologiche scientifiche filosofiche morali.
Il dibattito su quando comincia la vita  - che affligge questa nostra contemporaneità – viene da lontano, incrocia altri inquietanti interrogativi che la misoginia maschile ha saputo imbastire a danno delle donne, altre pratiche mortifere di persecuzione delle donne.

Come la domanda medioevale se le donne avessero un’anima oppure la pratica medica settecentesca di far morire per parto cesareo coatto vedove, prostitute ragazze madri incinte per impedire loro di abortire e per salvare così al paradiso il feto battezzato. Una storia lunga come la storia delle donne.

La politica, anche quella di sinistra e democratica, sembra oggi soccombere di fronte alla schiera urlante dei cardinali, degli atei devoti, dei teodem e teocon che procedono tutti insieme appassionatamente. Qualche flebile distinguo, tanto per non offendere le donne che fanno politica e si vedono costrette a difendere ancora una volta la 194, molte genuflessioni e riconoscimenti all’autorità morale del papa, che tutti chiamano ormai “Santo Padre”.
Niente sul senso dello stare al mondo di donne e uomini, niente sulla libertà e dignità di essere se stessi, niente su quel grande processo di civilizzazione delle relazioni umane a cui le donne hanno dato un impulso straordinario, anche a partire dall’affermazione che la parola conclusiva, in materia di aborto, spetta a loro.
Anche da qui si misura la crisi della politica ed è da qui che bisognerebbe affrontare la discussione sul documento dei (alcuni) ginecologi romani se si volesse veramente ritrovare la strada della politica.

 

Questo articolo è uscito su Liberazione del 7 febbraio 2008


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