La rivoluzione di Cristina Trivulzio

di Donatella Bassanesi

 

Nel film di Mario Martone, Noi credevamo, vengono riportate parti della vicenda di Cristina Trivulzio di Belgiojoso. Una vicenda che fu tormentata. Oggi il racconto della sua vita diventa in qualche modo documento di un periodo storico.
Così nasce la voglia di tornare ad  avvicinarsi a lei attraversando i passi della sua vita,  i luoghi che attraversarono.

Era nata il 28 giugno 1808 da famiglia aristocratica e ricchissima. Ma non scelse per sé la vita alla quale doveva essere destinata. In un certo senso scavalcò  la sua condizione d’origine, il suo tempo, e il fatto stesso di essere donna. 
La sua vita fu pubblica, politica, non tradizionale, fu  porta che si apriva al secolo successivo, passaggio e passo ai tempi moderni.  Il suo coraggio, che per certuni fu considerato provocazione, ne fa una persona singolare.

Di Cristina Trivulzio si potrebbe dire molto, essendo la sua vita segnata da  fatti che la fecero crescere presto.
Dall’apparenza fragile ed elegante, sapeva essere provocatoria  e  coraggiosa. L’esperienza che portò avanti per grande parte della sua vita, e che rimane in un certo senso a noi più vicina, è quella che la vede dedicarsi, lei che era nata a Milano nel palazzo avito di piazza Sant’Alessandro, ogni inverno, quando si fermano i lavori dei campi, ai contadini di Locate, adattando il palazzo stesso di Locate alla possibilità di un progetto di vita collettiva.
Così, proprietaria di vasti possedimenti terrieri, Cristina Trivulzio, che conosceva quella dottrina economica chiamata ‘fisiocrazia’, riguardava l’economia fondiaria (che tendeva alla conservazione della terra per i proprietari con l’esclusione dei contadini). Le si oppone proponendo la cooperazione.
Con il progetto di cooperazione va ancora più in là. Nel momento in cui comprende una latenza sotterranea di liberazione alimentata da antichi asservimenti vede quella possibilità di liberazione che volle spingere e guidare. Perciò Cristina Trivulzio provò a realizzare un modo di vivere in comune diverso rispetto a quelli dei paesi e delle città che aveva conosciuti. Conosceva   l’utopia del Falansterio di Charles Fourier (che normalmente non era costituito da più di 2000 persone, dove ciascuno faceva la cosa che era capace di fare ed era ripagato in proporzione, nel quale era importante l’istruzione per tutti). Fonda a Locate, dove si trovavano i suoi possedimenti, un asilo, una scuola di canto dove lei stessa era  maestra, rende più sane le case dei contadini. Un’esperienza di cui possiamo  vedere  tracce  nel paese di Locate, nella sua ‘presenza’ fra le persone, e   in qualche racconto che ancora si può ascoltare dagli abitanti.
Intuisce una possibilità rivoluzionaria,   che fu travolgente e improvvisa un secolo più tardi con la Lega di Spartaco. Furono in qualche modo la realizzazione di ciò che poi Walter Benjamin chiamò: “opere di liberazione in nome di generazioni di vinti” (W. Benjamin, Schriften, Suhrkamp Verlag, 1955, tr. it. Angelus Novus, Einaudi, 1962, in Scritti filosofici, p. 79).
 Cristina Trivulzio sta nel solco settecentesco, tra Italia e  Francia. La sua passione principale è stata certamente politica. Perciò si unì ai cospiratori mazziniani e dovette allontanarsi da Milano; schedata dalla polizia austriaca visse in fuga, finanziò i moti rivoluzionari, e passò un lungo periodo della sua vita a Parigi.

Rientrò in Italia nel 1840.
Giudicava i governi borghesi inaffidabili perché “propensi a sostenere interessi di classe, piuttosto che quelli del popolo e perché inquinati da pericolose venature dittatoriali e dispotiche” (cit. in Mino Rossi, Cristina Trivulzio – principessa  di Belgioiosoil pensiero politico, Ed. Franciacorta, 2002). Così lei, nata a Milano nel palazzo avito di piazza Sant’Alessandro, ogni inverno, quando si fermano i lavori dei campi per i contadini di Locate, adattando il palazzo stesso di Locate alla possibilità di un progetto di vita collettiva, aveva cercato di rendere la loro vita migliore. Così sono state sistemate le case dei contadini,  nel palazzo fu aperto “lo scaldatolo” dove le donne si riunivano a lavorare, e si realizzò una scuola di canto, di cui Cristina Trivulzio stessa era maestra. 

C. Trivulzio dissentiva dalla intenzione di Mazzini di dare un contenuto borghese al Risorgimento (che infine, pensava, si sarebbe raccolto in un partito d’opinione che sarebbe stato strumento di potere della borghesia). L’ipotesi di Cristina Trivulzio per quanto riguarda la politica generale aveva carattere anti-borghese e cosmopolita. Partiva dal socialismo umanitario di Saint Simon, per il quale tutte le Nazioni di Europa avrebbero dovute essere governate da un parlamento nazionale, che doveva rientrare in un parlamento europeo che avrebbe deciso degli interessi comuni all’Europa tutta. (Saint-Simon, Lettera di un abitante di Ginevra, in Opere, Utet, 1975, p. 20).

Allo scoppio delle 5 giornate Cristina da Napoli si imbarca con i volontari verso Milano.
È a fianco di Mazzini nell’insurrezione romana del 1849, e assiste i feriti, pur non condividendo totalmente la politica di Mazzini a ragione della sua concezione borghese del  Risorgimento, mentre per lei il Risorgimento doveva  tendere ad un carattere cosmopolita.
Lei si riferiva piuttosto al socialismo umanitario di Saint Simon: tutte le Nazioni di Europa avrebbero dovute essere governate da un parlamento nazionale, che doveva rientrare in un parlamento europeo che avrebbe deciso degli interessi comuni all’Europa tutta (Saint-Simon, Lettera di un abitante di Ginevra, in Opere, Utet, 1975, p. 20).

Infine, dopo il fallimento anche di questa seconda rivoluzione lascia l’Italia.
Viaggia, con la figlia, attraverso l’Europa, passando per Malta, la Grecia, L’Albania.
Rientrata in Italia,  morirà nel 1871,  e sarà, probabilmente per sua volontà seppellita a Locate. 

 

(frammenti tratti da)

STORIA CONTEMPORANEA
L’ITALIA E LA RIVOLUZIONE ITALIANA NEL 1848
PER LA
PRINCIPESSA CRISTINA TRIULZI-BELGIOIOSO


Parte I
La rivoluzione milanese, Il governo provvisorio, I corpi ausiliari
Parte seconda:
La guerra in Lombardia, Assedio e capitolazione di Milano

Torino, Tipografia artistica sociale, 1849
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Parte prima
La rivoluzione milanese – Il governo provvisorio – I corpi ausiliari

(p.5) “Vidi condensarsi il nembo, che minacciava in sul principio i principi italiani, come oggi terribile sui popoli della Penisola s’addensa. Seguii d’ogni mia possa i nobili sforzi di qualche eletto, che aprir tentava le menti dé suoi fratelli d’0gni condizione, d’ogni provincia – nei loro interessi istruirli – ispirar loro fiducia nelle proprie forze. Vidi infiammarsi il loro coraggio – addrottinarsi, e le genti sommoversi. Divisi con loro la speranza, e seco mi trovai sull’orlo del precipizio, dal quale uno sforzo disperato soltanto trarre ci puote.
(p.6)  I fatti, che condussero l’Italia di progresso in progresso – di vittoria in vittoria – di disfatta in disfatta – di umiliazione in umiliazione sono in sì grande mistero travolti: ne sono sì male apprezzate le cause, e gli effetti: sì bizzarro ne è l’ordine, le circostanze sì strane, che se oggigiorno difficile riesce il formarsene una idea adeguata, è quasi impossibile il portarne giudizio. Gli è perciò, che io voglio semplicemente narrare i fatti dei quali io fui testimone, lasciandone ad altri il commento, e d’interpretarli la cura.
(…) – La   storia d’Italia manca d’unità; perché l’Italia non fu mai una. La sua non è storia di una sola nazione, le di cui parti tendano ad un solo sviluppo. È la storia di più fatti distinti, ma fra loro pertanto collegati di modo che l’uno non possa senza dell’altro sussistere. (…). Furono nostri i più raffinati in politica, nostri gli uomini sommi di stato che vanti Europa. La lotta intestina delle città italiane non fu lotta di forza, e di potere soltanto; ma anco d’astuzia; qualche volta la fu pur di frode. (…);
(p.7) studiate i fatti di questi uomini famosi, fatti nei quali avendo essi avuto la parte maggiore, era di loro interesse presentarli ai poteri svisati – falsati: che un uomo astuto conduca a termine un’impresa, ed uomo non vi sarà, che valga a formarsene una precisa idea. E che avverrà allorquando e Pontefice, ed i principi della cristianità, ed i più astuti politici vi prendan parte, ciascuno per suo conto, ognuno in modo diverso? A provare la verità del mio assunto vorrei poter ad uno ad uno nominare tutti quei principi che ebbero a fare con Roma, e vedremo allora la storia crearli eroi, o giudicarli tiranni a seconda, che si mostran dessi ligi alla Santa Sede, o pronti, e fermi resistere all’imperioso volere d’un Papa. (…). Resi da un mezzo secolo di tanto più facili i modi di pubblicità in Europa, più misteriosa ed oscura divenne la storia della nostra penisola. Non è ancor un anno, ed i nostri governi soli godevano il privilegio  d’appellarsi  alla pubblica opinione per mezzo della stampa. Il patriota, il liberale, l’onesto cittadino, che osato avesse contraddire la falsità della polizia austriaca rischiava la prigione, e correva pericolo di cangiare il domestico focolare contro la paglia ed il nero pane. (…).
(p.8) Il mistero che ravvolgeva la questione italiana divenne ancor maggiore all’apparir d’un ombra di libertà per la stampa: quando i diversi interessi che di nascosto agivano gli animi trovaronsi ad un tratto in aperta opposizione. Il partito liberale, il popolo coi suoi amici, arditi e franchi marciarono con coraggio a conquistare i loro diritti senza troppo curarsi  del tradimento dei loro comuni nemici. Il partito retrogrado assolutista seppe trarre profitto di questa fiducia, e con calunniosi rapporti cominciò a spargere la discordia fra il popolo, e chi si era fatto suo difensore. Si snaturarono carattere-pensare-e fatti del nemico austriaco: i liberali più non si riconobbero fra loro: lo straniero perdette ogni stima per noi, ogni simpatia.
Io assistii al dramma, ed a quella catastrofe fui presente (…). Nel percorrere d’uno all’altro capo d’Italia udii narrarmi  in mille modi un fatto, del quale io stessa era stata testimonio. (…). E come si potrà scriverne la storia? Come tramandare ai posteri causa, ed effetti di avvenimenti presi sotto aspetti tanto diversi, nessuno approssimatesi al vero? Solo per dare una nozione esatta di questi fatti intraprendo a narrarli. La mia testimonianza non sarà accettata da tutti per valida: sarà interesse d’alcuno il confutarla; ma il tempo dimostrerà la verità del mio scrivere scevro da ogni spirito di partito. La verità ha un accento, che ella solo può dare, e che là dove ella è, tosto si riconosce”.

I.

(p.9) – “La storia d’Italia dei cinque ultimi mesi comprende due ordini di fatti fra loro ben differenti. Il governo provvisorio di Milano dall’una; le operazioni dell’armata piemontese dall’altra s’attirano la nostra attenzione. (…) . Nel periodo il più recente, che precedette la capitolazione di Milano, l’armata piemontese si mostra a noi come attore principale in questa storia. Da prima porremo in luce la poco nota parte, che vi ebbe il governo provvisorio di Milano. Palermo e Milano preoccupavan gli spiriti al cominciare del 1848. Palermo tentava di scuotere il giogo di un governo oppressore, ma nazionale: tutto preparava Milano per liberarsi dalla tirannia di una crudele dominazione straniera. Le altre province d’Italia sembrava marciassero d’un passo lento, ma sicuro ad una vita migliore: Torino, Firenze, Roma spingevano i loro governi sulla via del progresso: ogni novella violenza commessa dal re di Napoli, o dall’imperatore d’Austria sollevava dovunque gridi d’indignazione”.
(p. 10) – “Il 18 marzo scoppiò la rivoluzione in Milano. Tutte le città dell’alta Italia risposero a quel segnale. Senza asilo – in piena rotta – cacciati in fuga da una popolazione inerme i soldati austriaci, si rinserrarono nelle loro fortezze, già d’avvanzo provviste. Ferveva la lotta nelle strade di Milano; e Genova, e Torino insorgevano: dianzi al palazzo del governatore, e del re: volersi battere per i loro fratelli dichiaravano, e già si mettevano in marcia: il re Carlo Alberto ad intimar la guerra sforzavano. Il marchese di Pareto di Genova veniva allora eletto al ministero: egli accettava il portafoglio a sola condizione, che si fosse portato soccorso alla Lombardia. Il Piemonte era già in piede di guerra: ve lo avevan sforzato le reiterate minacce dell’Austria, e le ben note disposizioni di quel popolo, che altro non agognava, che misurarsi una volta col barbaro Austriaco. Emanato l’ordine, in tre giorni l’armata piemontese poteva essere sotto le mura di Milano. Eppure quando ella vi entrò l’austriaco era già presso a Mantova, ed a Verona. Mantova e Verona potevano chiudere le lor porte all’armata nemica, e difendersi sino all’arrivo dei piemontesi. La guarnigione austriaca, che la presidiava era debole troppo, troppo scoraggiata per doversi temere. Solo per viltà e perfidia d’una cospirazione ordita, e fomentata da alcuni personaggi dell’aristocrazia piemontese, e probabilmente lombarda, cospirazione che si mantenne sino al finir della guerra, furono conservate a Radetzky queste due piazze forti, con le altre due di Peschiera, e di Legnago.
   A Mantova il vescovo stesso percorreva le strade della città: e gli attoniti ed esterrefatti abitanti supplicava avessero a lasciare a lui la cura di tutto accomodare: egli avrebbe pattuito con i (p.11) capi delle truppe, che già si avvicinavano: diceva, che queste venivano solo per unirsi ai soldati della cittadella, e con questi sortirebbero dalla fortezza senza tampoco inquietarne la popolazione, che non volevano esporre a ricevere affronti, né averne danni. A Verona parecchi nobili a nome del vice-re (l’arciduca Rainieri) scongiurarono il popolo a lasciare liberamente passare le truppe avvilite, abbattute, che altro non dimandavano , che d’abbandonar al più presto l’Italia. La menzogna sortì il suo fine nell’una e nell’altra di queste due città: a Mantova, e Verona liberamente entrava l’armata austriaca: andava ad incontrarla, fucile in spalla, il tricolore sul petto, la già organizzatavi guardia nazionale. Non appena furono introdotti, che levata subito la maschera, dichiararono di non volerne più sortire. Disarmata la guardia nazionale; la vecchia polizia, ed il vecchio regime austriaco ristabilito, cominciarono queste due città a sentire il peso di quelle forzose contribuzioni che più non si cessò d’imporre da quell’epoca in poi. A partire d’allora l’armata austriaca padrona di quattro fortezze divenne formidabile, e ben fu dura bisogna quella, che cominciò per l’esercito di Piemonte.   
  L’entusiasmo, l’ardore dei milanesi aveva resa facile la vittoria: cacciato lo stranierorestava a costituirsi un governo. Il dominio di trentasei anni dell’Austria in Lombardia aveva chiusa la carriera degli impieghi a tutti quegl’italiani, che per loro carattere, o pei loro talenti avrebbero potuto distinguersi, ed acquistarne fama. Il popolo si trovava costretto a cercare nelle famiglie nobili chi lo governasse, e gli fosse capo. Non è al certo priva la Lombardia di uomini capaci di guidare la nazione a traverso di mille pericoli: sulla via delle rivoluzioni, o (p.12) della pugna: alla libertà od all’indipendenza: ma questi, sconosciuti al popolo che conosce d’altronde i nobili casati, ai quali da tanti secoli acquistarono nome, e fama gli avi. A questi ricorse il popolo”.
Per iniziativa in particolare del conte Giulini  che se ne fa mecenate, inizia la “Rivista Europea” : “piccola scuola degli umanitari”.
Milano caccia gli austriaci, e costituisce poi il governo provvisorio.

Scrive Cristina Trivulzio: (p.13) “Leggendo i nomi dei membri del governo provvisorio penserà forse taluno che a Milano, e nelle altre città il popolo abbia scelti i suoi rappresentanti, e loro attribuito il sovrano potere. se ne disinganni. Quando fecero rimbombare il cannone sotto il rumor delle fucilate, e del suonar a martello: mentre inesorabile la morte percorreva le nostre contrade, e le sorti s’agitavano d’Italia: la più parte di coloro che noi nomammo più sopra, si riunì a palazzo Marino. Là si distribuivano gl’impieghi, si partirono il potere. sovente ripetevan essi, che se (p. 14) la sorte avesse arriso al nemico, le loro teste sarian state le prime immolate. Gli è ben certo, che gli austriaci avrian severamente inveito contro uomini, che francamente costituito si avevano a capi rivoluzionari; ma supponiamo, che durante la  lotta si fossero ben guardati da ogni misura ostile agl’interessi dell’Austria, non potevan dessi giustificare la loro condotta in faccia ad un nemico vincitore mostrandosi quali sudditi fedeli offertisi per mantener l’ordine, e contenere il furore del popolo.”
(p. 14) “Io non pretendo, che questo fosse il pensiero del governo provvisorio: tendo solo a far conoscere, che il popolo non fu mai chiamato ad eleggere i membri, e che la sua causa non fu mai confusa colla loro.
Il capo della polizia baron Torresani aveva presa la fuga; e seco lui era scomparso tutto il resto della austriaca amministrazione. Fu gioco forza organizzare un officio di polizia. Lo si organizzò malissimo. Un vecchio medico di Padova, precettore in una famiglia veneziana stabilita a Milano; uomo di spirito superficiale, e leggero; non cattivo; incapace a mio creder, di un tradimento; da una eccessiva vanità trascinato, fu porto alla testa della polizia”. (…).

(p. 15) La “Rivista Europea”, sostenuta per alcuni anni da Correnti “giovane intelligente, imbevuto del socialismo francese, e della filosofia alemanna”, era stata “fondata sotto gli auspicii di una aristocrazia milanese” “che aveva prodigato i segni più graziosi di simpatia allo spiritoso scrittore, che le assicurava una  specie di letteraria iniziativa.” (…) “Correnti repubblicano era in intima relazione con tutti gli organi del partito repubblicano in Italia (…)”.
(p. 16)  “Sarebbe troppo lungo il voler qui mezzo enumerare tutta la caterva di sotto-segretari ed impiegati subalterni, che ingombravano le sale del palazzo Marino. mi  valevano ad aprire l’adito ad ogni qualunque impiego” (…).
(p. 17) “La storia di questo bastardo governo repubblicano, mezzo monarchico, racchiude soltanto un seguito di mutue  concessioni scambiate fra i (p. 18) suoi membri, che non erano uniti per sentire, né sostenuti da un sol principio. Per rendersi  più tranquilla la vita il governo provvisorio  ebbe ricorso al sublime principio d’imparzialità: così la Lombardia ebbe un potere, che non era né monarchico, né repubblicano”. Erano governi “provvisori”:  “esser dessi soltanto provvisori: il popolo non aver manifestato la sua volontà: restando neutrali voler schivare ogni influenzare, onde libera fosse nella sua scelta la nazione. Questa neutralità altro non era che il caos. I monarchici ubbidienti alle insinuazioni di Carlo Alberto si sforzavano non solo di guadagnar la maggioranza dei lombardi; ma ancora dispegnere nel petto dei loro fratelli ogni patriottico ardore, ogni scintilla democratica” (…). “Il partito repubblicano d’altronde, rappresentato al potere da Guerrieri e dal segretario Correnti con qualche altro, vedeva non senza rancore gl’innumerevoli errori del monarchico; anzi vi prestava ajuto, sperando di perderlo, ma dimenticando, ch’era suo dovere d’impedire, che il paese venisse trascinato così a certa ruina.”

II

(p. 19) Le comuni di Lombardia sono unite per distretti: ad ogni distretto vi presiede un commissario di polizia, che vi è anco podestà, sotto-prefetto e giudice di pace. Quantunque la costituzione delle comuni lombarde, sia a mio parere delle più liberali di tutta Europa, pure l’esecuzione della legge v’è tanto imperfetta, che il commissario si trova investito di un potere pari a quello dei Cadì in Turchia.  Questi commissarii a modico appannaggio si scelgono d’ordinario  fra le ultime classi degli impiegati di polizia: donde ne viene , che per poco guadagno , si danno senza scrupolo allo spionaggio” (…). In molti (p. 20) capi-luoghi  di distretto il commissario ebbe il talento di formarsi una piccola guardia pretoria composta di tali individui, e di quanto vi aveva di cattivo nel villaggio. Per mezzo loro l’austriaco era al fatto di quanto accadeva tra noi, mentre noi non potevamo sapere quanto era necessario conoscere. Lo dobbiamo a questa continua cospirazione tollerata dal governo, se viveri, ed altri oggetti destinati per l’armata piemontese caddero più d’una volta nelle mani dell’inimico: grazie ad essa furono arse parecchie cascine: grida di morte s’elevarono contro i proprietari: lo spirito di rivolta penetrò tal fiata nel pacifico abituro del contadino”. (…) . “Il male prosegue. Fra gli incendiarii caduti nelle mani della gendarmeria dichiararono molti di aver ricevuta la somma al loro sortire da Mantova da quell’ufficio di polizia,  (p. 21) per venire a seminar discordie fra i Lombardi. La giustizia non incamminò alcun atto contro costoro: molti dopo pochi giorni furon rimessi in libertà.
Sin a poche miglia a Milano una polveriera detta di Lambrate. Al principio di maggio nissuno aveia sognata possibile una invasione austriaca, eppure una mattina d’improvviso si sente, che alla notte alcuni austriaci travestiti avevano assalito la polveriera di Lambrate. Chi gli aveva guidati? Come eransi avanzati sino alle porte di Milano, e come non si aveva avuto sentore del loro passaggio? Questo fu sempre mistero: lo sprezzante silenzio del direttore della polizia lo rese ancora più inasplicabile”.
(…) E poi “Cinquecento individui detenuti per furti, assassinii eransi trovati inopinatamente armati, le tasche ripiene di munizioni: rinserrati nelle loro prigioni i guardiani, costruite delle barricate, minacciavano voler tirare su chiunque s’avanzasse, o impedire volesse la loro evasione”. (…)

 

Ricordi dall’esilio sono le memorie di Cristina Trivulzio, (scritte in francese).

 

vedi anche :

Noi credevamo
, di Liliana Moro

Noi credevamo di Giancarlo Zappoli

 

12-05-2011

 

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