Donne, ripartire dal quotidiano per capire la realtà e modificarla 

di Eleonora Cirant


Milano, 14 gennaio 2006

E' stato già detto in molti modi: non siamo mai state zitte. Eppure per  anni non siamo riuscite - o non abbiamo voluto, trattenute da briglie identitarie troppo rigide - a parlare coralmente con la forza di questa  ultima manifestazione.

Nelle molte occasioni in cui abbiamo parlato non siamo state visibili, scomparse in questo gioco di specchi per cui i  media ignoravano sistematicamente quanto dicevamo, per poi accusarci di stare zitte. La vicenda del referendum sulla fecondazione assistita è stata un esempio lampante di come una non-notizia crei la realtà.  Domandavano: femministe, dove siete? Le femministe, piuttosto stremate  dalla campagna referendaria, si chiedevano invece perché sulla scena mediatica (con l'eccezione di "Liberazione", cui dobbiamo rendere il  merito di avere dato parola a voci altrove sottaciute), protagonisti fossero sempre e solo medici, scienziati e politici (al maschile non solo nella forma grammaticale, ma anche nella sostanza) in una  massacrante maratona a ridosso della data del voto.

Il doppio evento del 14 gennaio ha avuto successo anche grazie al superamento di questa censura mediatica. Mi limito qui ad osservare che il rapporto con i media implica necessariamente relazioni tra persone, con tutta la  complessità e le ambivalenze che le relazioni comportano (ambivalenza  raddoppiata quando si tratta di relazioni tra donne).  

L'altra faccia di questa considerazione riguarda invece direttamente noi, la capacità, si diceva, di parlare coralmente. In quali occasioni, su quali temi, spinte e spinti da quali necessità?  Mi pare che oggi una delle contraddizioni dei movimenti, compreso quello  delle donne, si sviluppi tra la fluidità caratteristica dell'era digitale e la fissità delle griglie identitarie necessarie a veicolare i  contenuti.

Siti internet, mailing-list, blog, forum danno vita alla  iper-proliferazione di informazioni e di aggregazioni, ma il passaggio  dal virtuale al reale è come quello tra il dire e il fare. Ne conosciamo le mille difficoltà, di cui la prima mi pare sia, appunto, la necessaria  assunzione di un'identità e di un programma con cui essere riconoscibili  e, quindi, visibili.  

Reticolare, disomogeneo, fluido è il modo in cui ci incontriamo e  tentiamo di dare vita ad azioni collettive. Credo che possiamo assumere questo dato come un limite, anche nel senso positivo del termine.  Sappiamo che il 14 gennaio si sono sovrapposte due iniziative nazionali, quella proposta dall'assemblea milanese autoconvocata e quella proposta da Arcilesbica e Arcigay sui Pacs. La sovrapposizione, non intenzionale, è nata nella reticolarità cui ho appena accennato e indica un proliferare di iniziative, segno di vitalità politica e sociale, una molteplicità di argomenti che richiedono urgentemente risposte e  proposte. Indica anche una dispersione di informazione che ci toglie forza.

Della sovrapposizione si è discusso, si sono fatte assemblee -  non prive di asprezze, come è accaduto a Milano - si è infine creato un  ponte delle libertà tra Roma e Milano. Se "dividi et impera" è lo strumento adottato per il mantenimento del potere, in questa occasione abbiamo raggiunto l'obiettivo che "parole d'ordine" non coincidenti ci unissero anziché dividerci. Se, all'indomani della manifestazione, si profilano nuove sovrapposizioni, la contraddizione tra identità e fluidità va affrontata serenamente. Non ci si identifica più nel femminismo (molte donne giovani che sfilavano sabato a Milano non si definiscono femministe), neppure altri  "ismi" godono di maggiore popolarità. Eppure assumere un punto di vista implica per ciò stesso definirsi in qualche modo e questo è un esercizio implicato al fare politica, se non mi sbaglio.

Quando si esce dalla virtualità, quando si deve scrivere un volantino, affermare priorità, intervenire in pubblico, descrivere problemi proposte; quando si  interagisce con le forme istituzionali del potere, quando si affrontano  le forme relazionali del potere, quando entra in gioco il denaro - necessario a realizzare progetti - è necessario dare identità ad un progetto. Il problema è come costruire un programma politico a partire da una moltitudine di soggetti che si affacciano sulla scena pubblica  affermando la propria specificità.  

La doppia manifestazione del 14 ha coinvolto decine di migliaia di persone anche perché si è rivelata uno spazio di parola per identità molteplici e parole d'ordine varie. Ciascuno, ciascuna ha portato in  piazza le proprie priorità sul filo conduttore della libertà del vivere e del convivere. Si è trattato di un concerto senza direttore d'orchestra.

L'esperienza è riproducibile, credo, se si tiene aperta questa possibilità di espressione molteplice e se tra contenuti e loro  visibilità si mantiene l'equilibrio. D'accordo con Lea Melandri: la vitalità di questo movimento dipende dalla capacità di innescare situazioni di presa di parola e di coscienza nei contesti quotidiani di ciascuna e ciascuno, dalla scuola ai luoghi di lavoro alle relazioni affettive, in tutti i luoghi in cui si esplica  la "politica del vivere".

Cito, a titolo di esempio, i reparti  ospedalieri dove il tema dell'aborto è questione di "lacrime e sangue",  dove le donne che fanno interruzione di gravidanza sono messe accanto alle partorienti, dove il Movimento per la vita è già presente, con o senza modifica della legge 194, dove il numero di obiettori è altissimo.  Cito i consultori, di cui è necessario rilanciare non solo il  finanziamento, ma un modello olistico di salute in cui l'individuo non sia solo utente ma anche attore primario della cura di sé, in cui le  operatrici e gli operatori non siano solo erogatori di prestazione "a  gettone".

Un programma politico si costruisce non contendendosi una  piazza, ma ripartendo dagli spazi comuni quotidiani con la capacità di ascoltarsi a vicenda, con l'obiettivo di comprendere la realtà per  modificarla.

 

 questo articolo è apparso su Liberazione del 20 gennaio 2006