Basterebbe dire “sì, noi possiamo”? 
        di Floriana Lipparini 
        
        Roma, 24 novembre 2007 
        
      Basterebbe dire “sì, noi possiamo” – come ha fatto Obama, il  primo presidente nero degli Stati Uniti -   per cancellare la violenza sessista, una sfida ancora più antica di  quella contro il razzismo?  
         
        Basterebbe una formula giusta, basterebbe saper parlare  efficacemente alla mente e al cuore di uomini e donne per coinvolgerli in  questa causa che riguarda non una presidenza, per quanto “imperiale”,  ma la vita e i diritti della maggioranza  degli esseri umani? 
        Alla radio si parlava della vittoria di Obama - un  presidente “buono”, un presidente meticcio, un presidente che “fa sognare” - e  hanno chiamato moltissime ascoltatrici piangendo, ridendo, commosse,  emozionate, felici…  
         
        Sarebbe bello poter contare su una partecipazione come  questa quando scendiamo in piazza, quando accusiamo la violenza sessista,  quando chiediamo il rispetto dei diritti e della vita per le donne di tutto il  mondo. Purtroppo, però, di solito le cose non vanno esattamente così.  
         
        Eppure sappiamo che il femminicidio è una realtà universale,  una “tradizione” che si tramanda in ogni paese. Le cronache – nella brutale e  nuda concretezza che registra fatti -  lo  gridano sempre più spesso. Solo un unico, continuo ed eterno grido può  esprimere l’orrore di una “tradizione” come questa. 
         
        Sappiamo che in guerra e in pace, nelle società “evolute” e  in quelle “primitive”, sotto ogni tipo di fede, di culto e di credo, insomma  ovunque, ancora oggi le donne rischiano di continuo di subire un destino deciso  da tradizioni diverse eppure eguali nel demonizzarle, inferiorizzarle,  reificarle. Corpi che si possono consumare prima e cancellare poi. I modi di  farlo cambiano, rispecchiando i diversi gradi di misoginia, i diversi livelli  di crudeltà ammessi dalla cultura locale, ma identico è il nucleo denso di  violenza patriarcale contenuto in questo dispositivo di morte. 
         
        Un assurdo grumo di barbarie ancestrale che continua a  resistere e a non farsi scalfire. Perché questo cruciale cambiamento,  nonostante rappresenti un elemento primario di qualsivoglia pretesa civiltà,  non viene rivendicato da ogni politica, da ogni cultura? Dire no alla violenza  contro le donne significa dire no a ogni violenza, a ogni guerra, a ogni  razzismo. Il vero cambiamento dovrebbe iniziare proprio da questo no. 
         
        Adesso tutto il mondo (non tutto, a dir la verità…) sembra  entusiasta del “cambiamento” incarnato dalla figura altamente simbolica di  Obama, che lui ha saputo comunicare attraverso discorsi d’impianto quasi  messianico. Possibile che vi sia sempre bisogno della figura carismatica di un  leader – per quanto “simpatico”, per quanto “progressista” - per smuovere le  acque stagnanti? Il sogno di un mondo più giusto che Obama trasmette ha  coinvolto, ha emozionato, ma dobbiamo chiederci se metterà davvero in  discussione i principi sui cui si basa l’ideologia wasp, e il ruolo di padroni  del mondo che gli Usa si autoassegnano da sempre.  
         
        Certo, questa promessa di cambiamento non ci può lasciare  indifferenti, questa presidenza almeno simbolicamente rivoluzionaria ci dà  speranza di maggiore giustizia su numerosi terreni – dalla discriminazione  razziale all’economia, dal diritto alla salute e all’istruzione -  ma non muta l’essenza verticale e maschile  del potere. 
         
        Questo è il punto su cui si è finora infranto il sogno di  trasformazione del mondo che hanno le donne dotate di coscienza femminista e di  sapere critico, e continua a infrangersi perché tocca i punti nevralgici, le  fondamenta che ovunque reggono l’architettura familiare e sociale. Vogliamo né  più né meno la costruzione di una realtà sovversiva rispetto a un modello di  dominio patriarcale - sordamente, ostinatamente teso ad autoriprodursi  all’infinito -  che ha generato mortifero  sviluppo, guerra, sfruttamento, disparità. 
         
        Un modello che ogni donna può leggere in tutte le tradizioni  religiose e culturali che negano libertà, soggettività e diritti al genere  femminile ma imprigionano anche i maschi in ruoli falsi e preordinati. Come  possiamo tentare di decostruire questo modello integralista? Criticando e  rifiutando la legittimità delle tradizioni, parlando con le donne di altre  culture, rispecchiandoci nella reciprocità che in questo senso ci lega, pur  nelle grandi differenze. Facciamo crescere il nostro sogno di cambiamento non  dai vertici, ma dalla base, dalla condivisione, dalla relazione paritaria, dai  luoghi della vita di tutti i giorni e dai luoghi d’incontro dove si studia, si  lavora, ci si scambia saperi. Forse ci possiamo ispirare allo spazio pubblico  cui pensava Hannah Arendt, per farne un’incubatrice di trasformazione e di  nuovi linguaggi, più capaci di parlare all’insieme dell’universo femminile, e  non solo fra di noi. 
        
      Riflessioni nate dal dibattito nel Collettivo di Porta Nuova 
      allargamento e affiancamento del gruppo "Tra sè e mondo" donne politica e scrittura della Libera Università delle Donne  
      7-11-2008 
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