E’ pericoloso criticare solo il fondamentalismo
degli islamici
Perché non quello cattolico o ebraico o protestante?
di Annamaria Rivera
Un convegno internazionale dedicato ai
fondamentalismi religiosi e alla loro vocazione misogina, promosso da una
rivista femminista, con un gran numero di voci femminili, le più variegate
per provenienze ed appartenenze, è certo un evento importante, da salutare
con molto interesse. Ma l’inserto che ne anticipa i temi, ospitato nel
numero più recente del supplemento di Liberazione “Queer”, mi sembra
faccia un po’ torto alla ricchezza e complessità promesse dal convegno.
Anzitutto, poiché una parte dei testi che lo compongono parlano del mondo
musulmano, l’inserto reca ben quattro foto (su cinque) che ritraggono
donne musulmane velate, cosa che potrebbe fortuitamente evocare la
classica iconografia orientalista.
Essendo il convegno dedicato ai fondamentalismi (al plurale), meglio
sarebbe stato essere più esplicite, scongiurando il possibile malinteso
per cui l’unico fondamentalismo contro il quale si punta il dito sia
quello di matrice musulmana. Di conseguenza, si sarebbe potuto arricchire
l’iconografia, per esempio, con le immagini di una monaca di clausura, di
un’ebrea ultraortodossa, di fondamentalisti protestanti che assediano
cliniche che praticano l’aborto…
In secondo luogo, non è necessario aver
letto Franz Fanon per sapere che corpi femminili svelati o denudati
possono ugualmente significare subordinazione, appropriazione e
dominazione delle donne. Invece si ricava l’impressione che, nell’economia
dell’inserto, il “velo islamico” finisca per assurgere a simbolo esclusivo
dell’oppressione delle donne esercitata dai fondamentalismi.
Quest’impressione esce alquanto corroborata dalla lettura di un articolo,
quello a firma di Mimouma Hadjam, il quale contiene una frase lapidaria
che ne sintetizza il senso: «Le donne velate sono un reale pericolo nei
confronti di quelle che non lo sono». L’autrice, che non teme di apparire
tranchante, non fa alcuna distinzione fra veli scelti e veli
obbligati, fra veli religiosi e veli identitari, fra veli come costume e
veli come simbolo, fra burqa e chador imposti da regimi oscurantisti o da
poteri teocratici e certi foulard all’italiana o alla francese: per
esempio, quello indossato per libera scelta da una rispettabile signora
marocchina, allontanata da un asilo-nido italiano perché “spaventava i
bambini” o quello altrettanto liberamente scelto dalle cittadine francesi
Alma e Lila Lévy (si faccia attenzione al cognome). Speriamo che l’autrice
in questione non proponga nel convegno genovese che l’Italia si doti di
una legge proibizionista alla maniera francese.
Certo, la questione centrale non è quella del cosiddetto velo, e tuttavia
è un po’ deludente che non si dia conto della pluralità delle posizioni,
anche in ambito femminista, intorno alla controversa legge francese. La
quale ha messo in luce paradossi che chi s’interroghi sulla laicità e sul
ruolo delle religioni nelle società pluriculturali non può ignorare: la
“libertà femminile” è da imporre alle donne con mezzi coercitivi?
Il principio della laicità può essere
affermato al costo di quello della libertà individuale? E’ coerente con lo
spirito del femminismo chiedere che siano punite con l’espulsione dalla
scuola pubblica coloro che sono reputate vittime d’oppressione? Una
ragazza velata non ha il diritto d’apprendere il pluralismo, la
tolleranza, la laicità e lo spirito critico dalla scuola pubblica?
Dovremmo guardarci dalle semplificazioni, perché esse possono veicolare
consapevoli o inconsapevoli legittimazioni dell’esclusivismo occidentale.
E possono favorire la tendenza all’amalgama, la propensione ad assimilare
migranti, islamismo, terrorismo, già ben consolidata nelle società
europee. Sui muri torinesi campeggia in questi giorni un manifesto
elettorale di stampo nazista: «Lista Immigrati-basta: la soluzione finale
al problema islamico». Si tratta di una forma di razzismo estrema, certo,
ma che si alimenta del senso comune fatto di diffidenza od ostilità verso
la “barbarie” che viene da lontano: un’affermazione assoluta come «le
donne velate sono un pericolo» non rischia di legittimare questi
sentimenti?
A proposito di “barbarie”: la coppia oppositiva barbarie/civiltà ricorre
più volte nell’inserto ed è presente nello stesso titolo dato al convegno
genovese, “La libertà delle donne è civiltà”, che qualche malevolo
potrebbe fraintendere e tradurre come: “La civiltà occidentale è il solo
modello che garantisce la libertà delle donne”. Solo alcuni passaggi
dell’inserto e una breve quanto apprezzabile premessa nell’articolo di
Marieme Hèlie-Lucas sulla “Geopolitica dei fondamentalismi” sono riservati
alla pluralità dei fondamentalismi e delle loro matrici culturali e
religiose, al loro radicamento nella tradizione occidentale, alle violente
campagne contro l’aborto, contro la libertà femminile, contro la teoria
darwiniana, condotte dai teocons statunitensi.
Opportuno sarebbe stato ricordare, fra
l’altro, che la stessa categoria di fondamentalismo è stata coniata per
definire un fenomeno nato in seno alla Chiesa battista americana, dunque
di squisita origine occidentale.
Il senso di queste notazioni critiche non è quello d’impartire una
lezioncina accademica, ma di ricordare quali siano le poste in gioco,
culturali e politiche, allorché coraggiosamente si affronta il tema
intricato e difficile dei fondamentalismi e della loro misoginia.
Per essere più chiara: è indubbio che una
parte del femminismo, per fortuna non maggioritaria, ha un’inclinazione
etnocentrica e muove dal presupposto che la liberazione delle donne
s’identifichi con l’estensione e la piena applicazione del modello
liberale, rappresentato come insidiato dal pluralismo culturale e dalla
“barbarie” del mondo non-occidentale.
Questo femminismo “debole” rinuncia alla
vocazione, propria del pensiero femminista, a sottoporre a critica tutte
le tradizioni, compresa quella occidentale. Finisce dunque per aderire al
neutro-maschile-universale, abdicando al compito d’immaginare una
universalità sessuata, policentrica e transculturale. Sicuramente il bel
convegno genovese saprà sfuggire alle trappole dell’etnocentrismo e
dell’”universalismo particolare”.
questo articolo è apparso su
Liberazione del 24 maggio 2006
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