Il «verde» anti-crisi

Come uscire dal grande crack del neoliberismo?
Una ricetta ecologica per superare l'emergenza sociale e ambientale

di Susan George

Il mondo intero è assalito da crisi, ognuna delle quali si rafforza e si aggrava con l'altra. Ecco perché è utile pensarle insieme, come se formassero un triangolo. Questa struttura può essere concepita sia come una trappola, sia come un suggerimento per uscirne. La punta A di questo triangolo è costituita dalla crisi sociale, quella della povertà e delle ineguaglianze. La punta B s'identifica con la crisi finanziaria, fra cui sono da annoverare anche le crisi alimentari ed energetica, causate dalla speculazione. La punta C del triangolo rappresenta la crisi più grave, quella ecologica, ovvero il cambiamento climatico, il riscaldamento del pianeta, la cancellazione della biodiversità.

Consideriamo il modo in cui queste tre crisi si potenziano a vicenda formando, a prima vista, una prigione. La crisi della povertà obbliga i più indifesi a sfruttare l'ambiente oltre il limite: tagliare gli alberi, esaurire i terreni, distruggere le specie viventi, compresi i mammiferi. L'indigenza non fa bene alla natura.
Ma al vertice della scala sociale - in quella stratosfera in cui una minuscola élite si è arricchita oltre ogni misura - è in atto una distruzione attraverso il consumo ad oltranza che produce dei danni altrettanto ingenti che quelli prodotti, loro malgrado, dai poveri. Se ogni abitante della Terra avesse diritto alla stessa superficie per la propria sussistenza, una divisione equa comporterebbe all'incirca un campo da calcio e mezzo a testa. Ma l'impronta ecologica dei ricchi va molto al di là di questa modesta misura.
Ecco perché chi accusa la crescita demografica di tutti i mali dovrebbe tener conto non solo del numero degli abitanti del pianeta ma anche del loro peso specifico. Per esempio, Londra da sola consuma tutte le risorse che un'equa distribuzione assegnerebbe all'intera Inghilterra.

È così che la punta della crisi sociale aggrava quella ecologica. Però, in modo forse più sorprendente, peggiora anche la crisi finanziaria. I banchieri di New York, di Londra e degli altri centri economici percepiscono degli stipendi mirabolanti e, dotati di un enorme potere, passano il loro tempo a inventare nuovi prodotti finanziari in cui nessuno si raccapezza. È nata in questo modo la crisi dei subprime.

Ma veniamo ai piccoli geni della finanza: siccome non possono più speculare sull'innalzamento dei prezzi dell'immobiliare, trasferiscono i loro investimenti in merci di base e materie prime, come cibo ed energia, contribuendo così a far schizzare verso l'alto i loro prezzi e rendendo la vita dei più poveri ancora più precaria. Per attenuare, o almeno così si giustificano, le emissioni di gas a effetto serra, gli Usa non hanno saputo trovare nulla di meglio che consacrare più di un terzo della superficie coltivata a mais e soia alla produzione di agrocarburanti, che contribuisce all'aumento dei costi degli alimenti. E siccome in questo sporco mondo non c'è giustizia, è chiaro che la crisi ecologica ricade sui poveri e sulle loro vite. A questo proposito, gli ultimi rapporti dell'Ipcc sono categorici.
Riassumendo, ci dicono che, soprattutto ai Tropici, le regioni secche diventeranno ancora più secche; idem per le zone umide, che subiranno spesso inondazioni. Tuvalu, un'isola del Pacifico, avrà probabilmente l'onore di essere la prima terra abitata a sparire sotto le onde. Gli eventi climatici «eccezionali» diventeranno ovunque molto più frequenti. La biodiversità è minacciata: le piante e gli animali di ogni specie, incapaci di adattarsi a un rapido cambiamento delle temperature, spariranno. Prolifereranno invece le specie capaci di adattarsi e di riprodursi in condizioni molto variabili - mosche, zanzare, ortiche, piccioni, corvi... Gli esseri umani lasceranno le campagne per le bidonville o emigreranno verso latitudini più accoglienti - almeno dal punto di vista del clima. E tutto questo procede a una velocità vertiginosa. Le soluzioni proposte dalle conferenze di Kyoto, di Bali o di Bonn rimangono tragicamente inadeguate, perfino ridicole.

Bisogna dunque rassegnarsi ad accettare una specie di fine del mondo, godere del presente? E a noi, che siamo relativamente ricchi, non resta altro che trincerarci nelle nostre roccaforti e tenere a distanza i rifugiati del clima e i dimenticati dell'umanità? Dobbiamo continuare a dar retta ai banchieri e agli economisti e lasciar fare al mercato? Non c'è altra strada? Certo che c'è! Bisogna guardare in modo nuovo il triangolo della crisi come un'opportunità (...).

Nata nel 1934 negli Stati Uniti, mi ricordo di come gli americani hanno reagito allo scoppio della seconda guerra mondiale. È grazie al keynesismo nato con il New Deal di Franklin Roosevelt e rinforzato dalla guerra, che l'America è uscita dalla Depressione degli anni '30.
Si può trarne una lezione per il 2008? Credo di sì: il mondo è di nuovo caduto in una grave recessione economica ed è di nuovo posto di fronte a una sfida comparabile a una guerra. Fino a oggi, le banche centrali hanno iniettato centinaia di miliardi nel sistema bancario senza chiedere nulla in cambio. L'industria finanziaria è talmente abituata a non seguire altre regole che quelle che lei stessa si dà che lo ritiene la normalità. Ma le aziende che si reggono solo con apporti massicci di denaro pubblico devono essere considerate come delle imprese pubbliche, al servizio delle politiche dello Stato.

Per uscire dalla crisi ecologica, bisogna convertire l'economia attuale come negli anni '40. Lo Stato o la Bce devono esigere che le banche devolvano una percentuale dei loro prestiti per obiettivi ambientali, come le energie alternative, la costruzione di palazzi a consumo energetico zero, il miglioramento dei trasporti pubblici, tutto ciò a un tasso d'interesse basso, o addirittura nullo. Non si tratta di proibire alle banche di elargire prestiti per dei progetti classici o l'acquisto di case non modificate, ma a dei tassi abbastanza alti da sovvenzionare i tassi «ecologici».
In questo panorama, lo Stato non si accontenta di pesare sugli investimenti delle banche, ma partecipa anche direttamente a questa rivoluzione ambientale. Investe in misura ampia sulla ricerca fondamentale e sullo sviluppo tecnologico.
Trova i fondi in nuovi tipi di tasse, soprattutto sul carbone, sui profitti delle imprese transnazionali e sulle transazioni speculative o finanziarie come le operazioni di borsa o i cambi di moneta. Si riducono quindi i prelievi basati sull'impiego e sul lavoro per trasferirli verso i danni causati dall'inquinamento da CO2, il consumo di risorse non rinnovabili etc., per incoraggiare i comportamenti responsabili.

Questa riconversione del denaro pubblico e privato creerà nuova occupazione, perché un'economia ecologica esige il controllo delle nuove tecnologie, lavoratori bene informati, produttivi e ben pagati. Con un programma di isolamento dei vecchi edifici si dà una sferzata all'edilizia pubblica. I beni ecologici innovativi si venderebbero anche molto bene sul mercato delle esportazioni.
Per i paesi del sud, il provvedimento migliore sarebbe la cancellazione del debito, a condizione che anch'essi utilizzino una parte dei fondi per degli scopi ambientali. Si tratta di una strategia vincente per tutti.
Un'economia ecologica riduce non solo l'inquinamento, ma anche le malattie e le spese per la sanità. L'agricoltura e l'alimentazione trarrebbero giovamento usando meno concimi a base di petrolio e più lavoro umano. Perché tutto ciò sia realizzabile, è necessario però uno Stato che rifiuti il neoliberismo e il capitalismo puro e duro; uno Stato interventista che imponga delle regole e delle leggi (...). È liberandoci dal neoliberalismo e abbracciando un neokeynesismo che possiamo uscire dalla prigione della crisi triangolare.

 

pubblicato in il manifesto del 09 Dicembre 2008


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11-12-2008