Il corso delle cose:
la vittoria di Hamas

Annamaria Medri

Le elezioni, del gennaio 2006, in Palestina, nella semplicità dei fatti fotografano la situazione israelo - palestinese e sono, forse, la cartina di tornasole di tutto il medio oriente.

Hamas ha conquistato 76 seggi dei 132 disponibili; Fatah ne ha avuti 43. Il movimento islamista ha ottenuto 30 seggi contro i 27 di Fatah nelle liste legislative nazionali, ma ancora più grande è stato il successo nelle liste circoscrizioni dove Hamas ha ottenuto 46 seggi contro i 16 del partito di Abu Mazen.

Hamas ha ottenuto un voto pressoché plebiscitario nella striscia di Gaza e ha vinto a Gerusalemme est. Ha raggiunto la totalità dei seggi nella circoscrizione di Hebron, così pure a Betlemme, con la sola eccezione di due seggi riservati per legge ai rappresentanti della comunità cristiana. Premessa di tale vittoria erano state le elezioni comunali in Cisgiordania che avevano visto primeggiare Hamas a Nablus, Janin e a Qalqylia, dove ha ottenuto il sindaco.

Un enorme distacco separa Hamas e Fatah dalle altre nove formazioni che si sono candidate. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina è riuscito ad avere tre seggi; due sono andati a Badil, una coalizione di piccole fazioni dell'Olp. Due seggi vanno anche a Palestina Indipendente, guidata dall' attivista nel campo dei diritti umani Mustafa Barghuti; altri due alla formazione Terza Via.
Sono stati eletti anche quattro candidati indipendenti, tre dei quali appoggiati da Hamas.

Il movimento politico religioso che ha chiamato traditori i firmatari degli accordi di Oslo, è stato eletto democraticamente dagli abitanti dei territori occupati da Israele. Così l'Olp non è più l'unico rappresentante del popolo palestinese. Hamas, che non ha mai fatto parte dell'Olp, trasforma con la sua presenza, legittimata dal mandato popolare, il Consiglio Legislativo palestinese e lo stesso Movimento di Liberazione della Palestina.
Fatah e i partiti della sinistra laica devono fare i conti con questa sconfitta e, soprattutto, con lo scollamento emerso nei confronti degli elettori.

L'opinione di molti commentatori è che i palestinesi abbiano commesso un errore di cui pagheranno le conseguenze. La Road Map verrà bloccata, così come ogni possibilità d'incontro tra delegazioni israeliane e palestinesi in vista di futuri accordi di pace. Il famoso Quartetto, USA - ONU - UE - Russia, non potrà portare avanti alcuna iniziativa senza il riconoscimento, da parte di Hamas, dello stato d'Israele e la sua totale rinuncia al terrorismo. I finanziamenti per il mantenimento dell'Autorità Nazionale palestinese, la burocrazia, le forze di sicurezza, i progetti di sopravvivenza ecc. verranno congelati. Israele ha deciso di non consegnare le tasse raccolte a nome dell'ANP, circa 35 milioni di dollari, e di impedire i movimenti degli islamisti eletti per raggiungere il parlamento di Ramallah.

Insomma la vittoria di Hamas interromperebbe, improvvisamente, il proseguo di proficue e costanti trattative tra le due parti all'interno della Road Map garantita dal Quartetto internazionale.

Ma le cose non stanno così. E' dalla passeggiata di Sharon sulla spianata delle moschee, nel 2000 che Israele ribadisce "non ci sono patner per la pace"; non era affidabile Arafat, assediato alla Moqata fino alla morte, non Mahoumud Abbas (Abu Mazen) quando formò il governo palestinese e neppure quando venne eletto presidente dell'ANP.

All'interno di quali prospettive di futuro, in quali interstizi di libertà, si potevano collocare le donne e gli uomini palestinesi? Circa 2,4 milioni di persone che vivono in Cisgiordania e altri 1,3 milioni nella Striscia di Gaza, una delle zone a maggiore densità di popolazione del mondo (6mila abitanti per kmq). 240mila coloni si sono stabiliti in Cisgiordania, senza contare i 200mila israeliani che abitano a Gerusalemme-Est.

Conformemente al piano di disimpegno del primo ministro Ariel Sharon, lo Stato ebraico ha evacuato nell'agosto 2005 le 21colonie della Striscia di Gaza (circa 8mila persone) e ritiratole truppe il mese successivo, mettendo fine, con un atto unilaterale, a 38 anni di occupazione del territorio palestinese.

Non è facile essere liberi in Palestina. Si può solo immaginare la fatica di una donna che tiene insieme le relazioni famigliari, sempre più dense e violente, il pranzo con la cena, la mancanza di scuola, sanità, lavoro e cibo per decidere di camminare libera sulla terra. È più semplice, come dice Giuliana Sgrena in Fuoco amico, indossare il velo per far piacere al mullah della moschea o all'islamista che soccorre nel momento del bisogno.

Il leader di al-Fatah Marwan Barghuti nell'intervista pubblicata sull'Unità del 21 gennaio ha dichiarato
"Il ritiro da Gaza è servito a mascherare agli occhi della comunità internazionale una verità amara: le nostre città sono diventate grandi prigioni a cielo aperto, il Muro dell'apartheid ha spezzato villaggi, diviso nuclei familiari, e definito di fatto, forzosamente, i nuovi confini di Israele. E questa sarebbe una politica di pace? Altro non è che la ratifica dei rapporti di forza imposti dalla potenza militare israeliana. Una "pace" del genere va chiamata in altro modo: resa".

E' la sottomissione che vuole Israele quando organizza la propria sicurezza e costringe i palestinesi a vagare per decine di chilometri, come mandrie impazzite, per arrivare ai passaggi dei chek point, e lì sostare per ore in attesa di raggiungere amici o parenti, campi, scuole e ospedali che in realtà si trovano a pochi metri da casa. Una resa basata sulla disperazione.

La follia, in fondo, è un modo di salvarsi in situazioni estreme. La follia del voto ad Hamas è un gesto semplice compiuto da donne e uomini per conformarsi ad una realtà invivibile, per uscire dal dolore e rendersi il più possibile prossimi agli altri. Essere benvoluti dalla propria comunità creando nello stesso tempo una coesione identitaria basata su regole visibili, comprensibili a tutti. E usare quell'identità per incutere, non tanto il rispetto, ma almeno la paura nell'avversario: buttare sull'altro lo spettro della propria paura.

Il timore di una possibile vittoria di Hamas aveva spinto il premier ad interim israeliano Ehud Olmert a permettere lo svolgimento delle elezioni a Gerusalemme Est, l'autorizzazione dell'intervista (senza precedenti, nel suo genere) dell'ergastolano Marwan Barghuti e a strappargli persino la promessa di rilanciare dopo le elezioni i negoziati "sull'assetto definitivo nei Territori".
Da un articolo del "Washington Post" pubblicato il 23 gennaio, si è saputo che l'Amministrazione Bush ha devoluto 2milioni di dollari tramite l'Us-aid (una agenzia governativa di attività umanitaria) nel tentativo di migliorare in extremis l'immagine dell'ANP di Abu Mazen e nella speranza di fermare l'ascesa dei fondamentalisti. Troppo tardi.


Ora Hamas deve governare, ne ha il mandato. Israele deve fare i conti con questa oggettività, così come le potenze economico militari che insieme all'ONU formano il Quartetto.

Non è realistico deferire l'Iran al Consiglio di sicurezza dell'ONU e non vedere, non controllare, l'arsenale nucleare d'Israele.

E' arrivato il momento di uscire dalla politica del tanto peggio, tanto meglio: o il dominio assoluto o lo sconvolgimento totale. La distruzione della società civile in Palestina come in Iraq si ritorce contro i suoi organizzatori, non paga. E, a ben vedere, è un atto criminale.

Se è necessario fare pressioni perchè Hamas entri definitivamente nel gioco democratico, bisogna ristabilire un senso alle parole giustizia, sicurezza, democrazia e pace, a livello internazionale certo, ma soprattutto nella gestione delle relazioni concrete dentro le situazioni di crisi.
Anche Israele deve essere riportata sul piano di realtà della legalità internazionale e su quello della quotidianità con un popolo insieme a cui condivide la stessa terra e la stessa acqua.

La costituzione dello stato di Palestina non è più rimandabile a "tempi migliori". Devono essere garantiti i confini territoriali e date certe per la sua realizzazione.


4 febbraio 2006