Questo
intervento di Henriette Molinari, docente di Chimica all'Università
Statale di Verona e ricercatrice del CNR, è stato registrato
in occasione del Convegno Donne di Scienza tenutosi
presso l'Università delle Donne di Milano nell'Ottobre del 1998.
In quell'occasione è stata presentata la Mostra "Scienziate d'Occidente due secoli di Storia" curata da Sara Sesti per il PRISTEM Università Bocconi e il libro di Agnese
Seranis Il filo del discorso
Il filo della scienza
di Henriette Molinari
La prima cosa che vorrei dire è che la lettura del bel libro Il
filo del discorso di Agnese Seranis, edito da Eura
Press nel 1997, mi ha dato un grande piacere o meglio una grande emozione
legata al riconoscimento di pensieri che potevano essere scaturiti da
contraddizioni e disagi che mi sembrava di conoscere molto bene, pensieri
fatti confusamente mille volte e che per la prima volta prendevano forma
chiara nella mia testa, con le parole di Agnese.
Ho finito di leggere il libro in treno andando a Parma a una riunione
di lavoro e mi ricordo proprio l'eccitazione con cui pensavo ma è
così, è tutto proprio così, com'è intelligente.
Quindi questa è la mia prima reazione al libro, prima di ogni altro
pensiero più articolato.
E vorrei partire da un punto nodale (p.19)
Noi donne siamo come delle immigrate nei territori della scienza.
Veniamo dalle cucine, dalle camere da letto. E siamo abituate a sognare
a occhi aperti . E sono così contenta che Agnese abbia
usato la parola immigrato.
Io mi sono sempre sentita immigrata, immigrata come uno che viene dal
sud del mondo nei paesi ricchi, immigrata come uno che si trova ad avere
a che fare con regole e modalità di pensiero assolutamente estranee
e in qualche modo assunte come necessarie, non eludibili e non modificabili:
come dice Agnese (p.19), non mi sarei mai permessa, non avrei
mai osato pensare ad altri possibili approcci al sapere scientifico
Ma, per nominare subito un punto centrale per me, perché mi sono
sempre sentita un'immigrata e mi sento tuttora un'immigrata dopo 23 anni
spesi senza economie di energie in vari laboratori e pur avendo ottenuto
qualche minimale, sottolineo minimale, risultato in termini di autonomia,
libertà (libertà dall'essere compagna di lavoro degli
uomini p.40) e produzione scientifica?
Anche se di nuovo condivido ciò che dice Agnese (p.40) Sono
diventata ricercatrice. Alcune mie colleghe si definivano scienziate.
Io ho sempre avuto un certo imbarazzo a considerarmi tale. Forse perché
non mi è mai sembrato che i risultati del mio lavoro modificassero
i fondamenti della scienza. La Grande Scienza che mi aveva affascinato
Innanzi tutto come dicevo alcune modalità mi sono proprio estranee,
io penso che è proprio diverso per il maschile e il femminile il
desiderio, cioè il modo in cui si elabora e prende forma il desiderio
o la passione per la conoscenza. Il desiderio originale, dal quale si
origina un modo di essere, non è certo per me legato nè
al possesso né al dominio.
(p.73) La scienza è il mito della conoscenza non probabile.
La scienza è la dea che sa, a cui appartiene la conoscenza. La
scienza è la dea che sorride seducente all'uomo, il quale desidera
disperatamente di possederla.. Il possesso della conoscenza non è
che un gioco amoroso, sessuale di donazioni e di rifiuti. A volte accade
l'illuminazione, l'intuizione il disvelamento. Senza alcun cosciente procedimento
mentale. La dea gli si è data. Tutti gli scienziati non sono che
in attesa, non si preparano che a quel congiungimento, forse unico nella
loro vita, da cui emergeranno diversi da tutti gli altri uomini. E' sulle
labbra della dea che baceranno un frammento di sapere, un istante di piacere
irripetibile. E continua Agnese in nessun angolo della
mia mente trovo un sogno di congiungimento. Piuttosto un sogno di identificazione
E gli scienziati sono innamorati dell'idea di essere anche per
un solo istante, anche a prezzo di grandi sofferenze, quell'uomo a cui
sia concesso quel supremo attimo di conoscenza
che l'universo trovi
lo specchio capace di accogliere la sua immagine: in un solo uomo sarà
tutti gli uomini
Per me il piacere e il desiderio di conoscere, che per me è stata
la molla fondamentale di una serie di scelte importanti, è altro
da ciò. Per riprendere la metafora del puzzle, la realtà
mi si deve costruire sotto gli occhi come fosse un puzzle. Io aggiungo
ogni singolo pezzettino, faccio un lavoro accurato, forse è vero
che pochi pezzi ben messi mi potrebbero dare un'idea del disegno globale,
ma forse io non cerco prima di tutto di avere un'idea del disegno globale,
almeno non prima di avere messo a posto tutti, ma proprio tutti, i singoli
pezzettini. Per tanto tempo mi sono chiesta se questo modo di procedere
non stesse solo a testimoniare la mancanza di ciò che si potrebbe
chiamare creatività scientifica.E questo è uno
dei motivi per cui mi sento un'immigrata. Ma non solo. E' forse questo
gioco in cui gli alieni , come li chiama Agnese, riescono
sempre a farmi dubitare di me stessa. E là sull'ingresso del battistero
della Scienza è scritto il diktat di Platone nessuno entri
che non sa di geometria. Ecco, finalmente ho capito. Io ho passato
la vita a chiedermi quanto sapessi di geometria, non c'è stato
un solo momento nel corso della mia vita, in cui io non abbia sospettato
della mia ignoranza in geometria, anche nei momenti più felici
o in quelli in cui ero riuscita a ottenere qualcosa di buono. E sono sempre
stata assillata dal dilemma tra la tecnica e il talento. La tecnica a
volte è la contraffazione del talento. La differenza è minima,
impercettibile. Certamente non c'è talento, nella scienza, senza
tecnica. Comunque questo è sempre stato un mio dubbio profondo,
cioè di non essere adatta, di possedere solo la tecnica e non il
talento, ricordo di essermi sempre identificata nell'accompagnatrice della
Berberova. Allora, ovviamente facendo le dovute proporzioni, anch'io sono
una che misura e che fotografa, per me il piacere è con quelle
parole che Agnese fa dire a Rosalyn Franklin: (p.94) Quando
lavoravo in laboratorio, ero già felice. Ero felice della precisione,
della bellezza del mio fare nella preparazione dei campioni; ero profondamente
convinta che ci sarei arrivata, sapevo di essere sulla strada giusta.
Ci sarei arrivata ma tutto doveva essere documentato. Ero così
felice di quello che facevo che quasi non volevo abbreviare tutto quel
lavoro: mi procurava un piacere infinito, era troppo appagante il sentimento
di sapere di essere sulla strada giusta, mi godevo un passo dopo l'altro.
Dentro il mio laboratorio non ero insicura, era fuori
Fuori il ritmo
del tempo cambiava, il tempo correva più in fretta, ti assaliva:
bisognava solo arrivare.. Forse il mio sentirmi immigrata non
è solo dovuto alla mia ignoranza della geometria, forse è
un sogno di onnipotenza che non condivido.
Eppure, mi dico, in questi 23 anni non ho quasi fatto altro che lavorare,
il sabato la domenica, il giorno di natale, pochissime vacanze (io poi
non ho figli che mi sottraggono energie lavorative), come dice Agnese
(p.69) Ho trascorso anni in cui avvertivo il ciclo delle stagioni
solo perché cambiavo le scarpe. Anni non esistiti. Gli alieni mi
hanno accorciato la vita. E tutti i miei articoli al macero. Si salva
così poco di tutta quella carta. E sono costati una vita!
E ancora adesso, anche se avverto la fatica e sto cominciando ad ascoltare
il mio desiderio di fermarmi, sono sempre lì a lavorare, perché
vorrei fare bene il mio lavoro, perché la conoscenza è una
conquista faticosa, perché ad ogni passo avanti, scopro l'universo
della mia ignoranza, e allora ho così tanto da studiare prima di
procedere con la prossima cosa. Ogni volta che scopro una cosa che non
so, vorrei fermarmi, partire da zero, dalle radici della conoscenza, invece
non si può, bisogna continuamente eludere, per adattarsi a ritmi
e modalità non proprie. Certo mi rincuora trovare un filo conduttore,
se pure così esile, altre donne che hanno avuto difficoltà
simili, non solo sinonimo di non conoscenza della geometria, ma di approcci
diversi alla conoscenza.
Forse per le giovani, per quelle che sono venute dopo di noi, sarà
un po' diverso. Non sono in grado di dirlo. Io mi sono costruita un gruppetto
di donne, ci sono solo quasi donne che lavorano con me, vedo anche all'università
gli studenti maschi, quelli più brillanti, sono molto diffidenti,
mi vengono a chiedere quale progetto di tesi potrei dare loro, ma si vede
che li delude non tanto il progetto quanto il fatto che io non glielo
presenti in grande, come fanno altri miei colleghi. Non si fidano, pensano
che forse non avranno l'opportunità con me di brillare di tutto
il loro splendore, pensano che forse quel progetto non è alla loro
altezza. Invece da me vengono sempre le ragazze, per lo più quelle
brave ma molto insicure, anche loro sanno per un certo verso quello che
vogliono, vogliono un buon progetto, che le convinca scientificamente
(io ai miei tempi già non pensavo proprio di poter giudicare il
progetto che mi dava il professore), però poi una volta che hanno
deciso che il progetto va bene mi ripetono mille volte che loro non sanno
se saranno all'altezza di quel lavoro. Io riunisco intorno a me solo quelle
che hanno dei dubbi simili
Ma è difficile verbalizzare, cercare un'intesa su questo piano:
(p.71) Lei (Alice figlia) vorrebbe una rinascita. Cancellare
in sé ogni segno dell'essere femminile che si è compromesso
in una vergognosa sudditanza. E' questo che vorrebbero lei e le sue compagne?
La violenza che l'ha causata è dubbiosa, perché troppo felici
appaiono le donne che abitano le case. Troppo appagate. Troppo occupate
nel loro lattiginoso amore per i figli. Il dubbio atroce di appartenere
a una razza inferiore, incapace di leggerezza. Leggerezza di pensiero.
Temere disperatamente, allora, di avere ali inadeguate al volo
Agnese chiede a Rosalyn perché non ha avuto il coraggio di rischiare,
perché le grandi non hanno trovato il coraggio di rischiare? La
mia risposta è che forse nessuna di loro aveva l'ambizione di intervenire
nell'elaborazione dei fondamenti, nessuna voleva arrivare alla legge generale
dell'universo.
Ma forse ci sono anche motivi più profondi per cui ci si sente
immigrate nei territori della scienza.
Dice Agnese (p.21) Quando frequentavo l'Università
c'era Brigitte Bardot che faceva sognare i nostri compagni. Esattamente
come oggi Kim Basinger. Molte ragazze si vestivano, si pettinavano come
lei, incluse le studentesse dell'Università. Ma delle facoltà
umanistiche. Alle facoltà scientifiche, noi ragazze, per scelta
esibivamo invece un aspetto spaventosamente asessuato. E guardavamo, con
ostentata sufficienza, le ragazze, le altre, che aspettavano i nostri
compagni di corso a fine lezione. Ma, benché dimostrassimo superiore
indifferenza alle scelte dei nostri compagni, dentro di noi avvertivamo
un disagio inconfessato per quella esclusione. Già il nodo della
nostra femminilità non era certo stato risolto con la negazione
dei nostri corpi!.. Il punto oscuro della propria identità
femminile e del valore attribuito a un femminile che fa anche orrore
Allora va bene stare nei territori della Scienza, una solida impalcatura
esterna per poter sopportare un'identità femminile fragile, essere
una donna scienziata: donna di per sé forse ha poco valore, ma
quel scienziata sparge un'aura di sicurezza
poi per forza ci si
sente immigrate se, anche per un momento, si è pensato di rifugiarsi
li per costruire un'identità.
Io stessa all'inizio mi sono portata in laboratorio tutte le mie ambiguità
sul femminile, incapace di ammetterle a me stessa. Perché affidare
alla scienza la propria identità? Che poi come dice Agnese potresti
accorgerti di non essere fisiologicamente adatta alla scienza, potresti
lavorare anni e anni e riconoscerti, alla fine, priva di quell'immaginazione
scientifica che fa il grande scienziato. Avresti dedicato tutta la vita
a qualcosa che non ti avrà dato alcuna ricompensa.
Allora il punto nodale è la costruzione di una propria identità
femminile, che forse ha bisogno di un filo continuo e non riesce a costruirsi
sul silenzio e sul vuoto
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