La rivoluzione possibile

Manuela Cartosio intervista Liliana Moro

Trasmessa il 11-2-2012 da Radio Popolare in Sabatolibri
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Il libro del Gruppo Donne e scrittura della Libera università delle donne Pensare la cura, curare il pensiero. Il documento La cura del vivere, del Gruppo del mercoledì della casa Internazionale delle Donne di Roma, pubblicato come supplemento di “Leggendaria” dello scorso settembre. Il documento-manifesto  Immagina che il lavoro, del Gruppo lavoro della Libreria delle donne di Milano. Sono i testi-base del convegno “La rivoluzione possibile” - che si terrà sabato 18 febbraio a Milano all’Unione Femminile, corso di Porta Nuova 32 -  organizzato dai gruppi che hanno pensato e prodotto i testi sopracitati. Li accomuna la convinzione, la scommessa, che mettere la cura al centro delle relazioni tra persone e della politica, farne l’asse della vita e dell’azione, produca un “rovesciamento”.

Questa attenzione alla cura per il femminismo italiano è nello stesso tempo una scoperta tardiva e una novità. Negli anni Settanta il movimento delle donne, con l’eccezione di Lotta femminista, snobbò platealmente il tema del lavoro domestico non pagato. Nei decenni successivi il lavoro di cura, la doppia presenza sono stati indagati  in lungo e in largo dalla sociologia di genere (Laura Balbo, Chiara Saraceno, Marina Piazza) mentre l’economista Antonella Picchio portava avanti la sua analisi sul lavoro riproduttivo, invisibile perché non pagato. Ora la cura riprende la scena – con un evidente connessione alla cura del mondo, ai beni comuni, alla conversione ecologica -  ma la novità è che non è più in simbiosi con il  termine lavoro.
Parte da qui la nostra conversazione con Liliana Moro, della Libera Università delle donne, coautrice di Pensare la cura, curare il pensiero.

 

Che ci possa essere cura senza lavoro (inteso come obbligo, fatica, ripetitività) è il punto di partenza della vostra riflessione durata due anni.  Non è una verità auto evidente. Richiede una spiegazione.

In realtà il nostro punto di partenza è stato osservare e mettere in discussione le nostre esperienze e lì abbiamo trovato un impasto di fatica e soddisfazione, di obbligo e desiderio. Dove è difficile fare distinzioni precise. Come tracciare confini netti tra lavoro e cura quando, che so, ti affanni per cucinare un piatto che sai verrà apprezzato dal tuo compagno, dai tuoi figli o dagli amici? Però cucinare tutti i giorni, 2 volte al giorno, è un delirio.
E’ vero che ben presto nei nostri incontri è emerso il tema della cura di sé: che significa ? che spazio concediamo a noi stesse? Ora la cura di sé certo non è lavoro, anche se paradossalmente può costare fatica, proprio perché non siamo allenate a prenderci davvero cura di noi stesse. Ci siamo rese conto che ognuna di noi stava realizzando una pratica di cura di sé proprio partecipando al gruppo, ritagliandosi del tempo e concedendosi il piacere, forse il lusso di pensare e pensare insieme, fare la cosa strana di tenere aperti gli spazi del pensiero. E dedicare energie alla passione per la scrittura che ci accomuna, indipendentemente dai risultati. Non abbiamo velleità, come dire letterarie, ma abbiamo la presunzione, questa sì, di usare la scrittura come strumento di cambiamento, nel senso di arrivare a una conoscenza, lettura e comunicazione della nostra esperienza. Da questo il libro.

Nella prima parte del libro, dedicata alla cura degli altri, torna più volte il nodo delle donne migranti che fanno le colf e le badanti (tema appena accennato nel documento del Gruppo del mercoledì e del tutto ignorato in quello della Libreria delle donne). Lo sciogliete, in parte, distinguendo tra accudimento e cura. E’ un’ammissione implicita: la cura è scissa dal lavoro solo se il lavoro lo fa qualcun’altra.

Su questa distinzione tra accudimento e cura abbiamo discusso a lungo, in realtà il nodo rimane. Certo il fatto di non avere tutto il lavoro sulle proprie spalle, in solitudine, permette di prendersi cura di un malato, un anziano, un bambino con più serenità. Ma non si può pensare semplicemente di scaricare su altri, che poi sono al 90% ancora donne, una parte manuale, fastidiosa, e tenersi solo i sorrisi e le carezze. E poi il rapporto con le badanti e le colf va a sua volta curato, se vogliamo restare umani. Nel nostro mondo i lavori “di servizio” aumentano sempre più e non si può prescindere dalla specificità davvero anomala di questi lavori che sono in gran parte dei rapporti.
Abbiamo cercato di non essere teoriche, ideologiche ma stare sul concreto. Ci siamo raccontate le nostre esperienze di figlie con genitori anziani o di madri e nonne. E ci siamo anche interrogate sul nostro futuro, non molto lontano ahimè, di anziane. L’alternativa tra badante e cosiddetta casa di riposo ci fa rabbrividire, è inaccettabile: trovare altre strade non è affatto una questione di costi ma solo di volontà politica, politica in senso proprio, della polis, della collettività. Se lasciamo libera l’immaginazione e non ci lasciamo chiudere nell’isolamento si possono costruire soluzioni diverse che non ghettizzano e soffocano nell’inutilità rancorosa.

Come la maternità, la cura è ambivalente. E’ un laccio, un giogo, un’imposizione.  Ma è anche un modo per esercitare potere, per risultare indispensabili a chi dipende dalle nostre cure. Come si esce da questo terreno scivoloso? Senza arrivare agli eccessi della Badinter, che criminalizza l’allattamento al seno, l’enfasi sulla cura non rischia di rimettere nella gabbia della “bontà naturale”?

Credo che la bontà come l’amore per la pace, caratteristiche naturali delle donne, siano un sogno, o un miraggio, abbastanza appannato dai fatti, e non vogliamo certo rispolverarlo.
Parlando di cura, non vogliamo enfatizzare, ma solo affrontare il problema, guardare la cura diritto negli occhi, proprio per cercare di districare l’ambivalenza. Come mai sono soprattutto le donne a svolgere lavori di cura? Come mai non si esce dallo squilibrio del carico di lavoro domestico tra uomini e donne? Anche in paesi che non hanno le percentuali abnormi dell’Italia, dove l’Istat certifica un 77% del lavoro domestico a carico delle donne che lavorano anche fuori.
Il fatto è che le cose non cambiano solo con un atteggiamento rivendicativo: lava tu i piatti, ci vogliono gli asili-nido. Certo lui deve lavare i piatti. Gli asili-nido ci vogliono e ben gestiti
Ma il fatto è che le donne sono affezionate a questi ruoli da “salvatrici del mondo” , la dedizione è quasi un tratto identitario. Bisogna avere il coraggio di dirselo e cercare di capire come mai. C’è la questione del desiderio adattativo: ci facciamo andar bene quello che ci è imposto, un po’ come la volpe e l’uva. E probabilmente ci sentiamo in fondo superiori agli uomini per questa (vera o presunta) capacità di sacrificio. E in nome di questo accettiamo di tutto. In casa e sul lavoro. E’ un problema che noi donne ci dobbiamo porre.  
Certo “il terreno è scivoloso” e per questo bisogna continuamente precisare, distinguere, non per pignoleria ma per costruire con attenzione l’equilibrio che permette di non cadere sul ghiaccio. Mica possiamo restare tappate in casa.

La vostra scommessa, il vostro obiettivo, è che la cura smetta d’essere attributo, qualità solo femminile, diventi  valore condiviso,  permei tutta la società, rigeneri la politica, salvi il mondo. Un vasto programma, alla luce della quota sempre bassissima del lavoro di cura svolto dai maschi.

Sì, non ci siamo limitate, in effetti. Ma bisogna puntare alto per cambiare un esistente così vischioso. Bisogna essere strabiche: guardare in alto le stelle con un occhio e con l’altro guardare a terra dove si mettono i piedi.
Siamo convinte che le donne non devono caricarsi privatamente, individualmente delle situazioni, per poi starci male.  Devono riconoscere il valore culturale della loro esperienza, dare il giusto valore politico a un vissuto secolare. Pensiamo alla crisi: a quante sofferenze tra creando alla gente che è costretta a pagarla, ma perché? Prima dello spread e del pareggio di bilancio, dei profitti di pochi deve venire la vita, la serenità di tutti: questo è per me far diventare la cura un valore condiviso, invece che un carico per le donne. Certo non si può fare se le donne non riconoscono loro per prime il giusto valore a se stesse, ai propri pensieri e se non si esce dall’isolamento per arrivare a una pratica collettiva, a costruire reti. Ormai sono molte le realtà: Se non ora quando, qui a Milano c’è l’esperimento dell’Agorà del lavoro e i gruppi della Libera Università delle Donne. Ma è una rivoluzione possibile questa.


I testi sopracitati
si possono trovare alla Libreria delle Donne, Via Pietro Calvi 29 - Milano e-mail: info@libreriadelledonne.it
oppure richiesti a universitadonne@tiscali.it

 

15-02-2012

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