Jeannine Davis Kimball e Marjia Gimbutas

di Luciana Percovich


Quando l’archeologa Jeannine Davis Kimball fornì le prove della scoperta di donne guerriere dissepolte nelle tombe kurgan, l’establishment della Nuova Archeologia  - quella corrente che rivendica per sé un atteggiamento strettamente scientifico, che esclude ogni altra forma di narrazione all’infuori della propria e produce registri e descrizioni illudendosi di essere perciò stesso oggettiva - gongolò: che smentita per la teoria di Marija Gimbutas scoprire che i guerrieri  kurgan, i popoli che avevano scalzato le pacifiche e matrifocali società dell’Europa Antica del neolitico, erano in realtà donne!
Ma questa soddisfazione durò ben poco. Infatti, ciò che Jeannine Davis Kimball aveva riportato alla luce apparteneva al primo millennio a.C., un periodo assolutamente lontano dai kurgan studiati da Marija Gimbutas  (4300-2800 a.C.).
Solo un pregiudizio molto forte nei confronti di Gimbutas può spiegare una così scarsa lucidità tra i più “tecnici” degli addetti ai lavori!

E del resto Jeannine Davis Kimball non ha mai avuto l’intenzione di confutare il lavoro della sua illustre collega, di cui conosce e riconosce il lavoro e le grandi intuizioni. Anche lei è una grande archeologa del ‘900 (tra quelle non comprese nel libro di Colin Renfrew 1), tuttora vivente e attiva. Come sia arrivata all’archeologia lo racconta lei stessa nella prefazione a Donne Guerriere. Le sciamane delle vie della seta, Venexia, 2009, che riproduciamo di seguito.

Fondatrice dell’American Eurasian Research Institute (AERI), del Center for the Study of Eurasian Nomads (CSEN) e della Zinat Press,  ha pubblicato numerose opere tra cui The Silk Road  e le Cities of the Golden Horde (Zinat Press, 2001); Kurgan, Ritual Sites e Settlements: Eurasian Bronze Age and Iron Age (Oxford, 2000); Nomads of the Eurasian Steppes in the Early Iron Age (Zinat Press, 1995), e da ultimo, insieme con Mona Behan, Warrior Women: An Archeologist's Search for History's Hidden Heroines, l’unico tra i suoi lavori a oggi tradotto in italiano. In questo libro, dal tono colloquiale e autobiografico, esplora il mondo perduto delle donne che vissero e cavalcarono lungo le steppe euroasiatiche tra il 500 a.C. e il XII sec. d. C. Di lei si potrebbe dire che sia nata con uno scopo preciso, quello appunto di riportare alla luce le sciamane guerriere delle vie della seta, dopo una vita avventurosa e inquieta che infine la fece approdare all’archeologia intorno ai 50 anni: una di quelle persone che faticano a trovare la propria vocazione, ma quando lo fanno si capisce che avevano un proprio lavoro da svolgere.

Davis Kimball usa un metodo interdisciplinare simile a quello di Marija Gimbutas: scavi, testi di storia antica, in particolare Erodoto, analisi del DNA, ricerca antropologica sul campo, etnografia e studio comparato dei tessuti. Con l’obiettivo puntato su due periodi storici molto diversi: prima del patriarcato la Gimbutas, che osserva la trasformazione della pacifica cultura dell’Europa Antica sotto l’urto di ripetute ondate di popolazioni aggressive e patriarcali (un processo durato quasi due millenni); l’età delle Amazzoni la Davis Kimball, ossia l’età del bronzo/del ferro, fase finale dell’insediamento delle nuove civiltà, durante la quale alcuni gruppi di donne tentarono una difesa estrema dal finire soggiogate e disperse nel nuovo mondo degli uomini, imparando a usare armi e cavalli (e con esiti eccellenti, tanto da costituire per lungo tempo lo spauracchio della misogina Atene). Le donne guerriere e sciamane riportate alla luce dal lavoro di Davis Kimball sono ancora donne di potere, le ultime eredi di una civiltà matrilineare, che godono di libertà e rispetto nel mondo delle culture nomadi.

Vicki Noble, che ha accompagnato Jeannine Davis Kimball in uno dei suoi viaggi in Asia, nel terzo capitolo del libro La Dea Doppia (Venexia, 2005) avanza l’ipotesi che la tradizione di queste guerriere sciamane possa essere iniziata con la fuga di alcuni gruppi di donne dall’area del Mediterraneo e dall’Anatolia davanti all’avanzare della nuova cultura patriarcale; donne che si portarono con sé la sapienza dei propri lignaggi antichi di millenni, in un contromovimento verso est che le portò fino alle vette dell’Himalaya, dove infine consegnarono alla locale cultura sciamanica bon e quindi alla custodia dei monaci buddisti (che intanto erano risaliti in Tibet dal nord dell’India) i loro beni, le loro conoscenze, i loro valori e le pratiche di culto, di cura e di magia. I nomadi Saka (tra l’VIII e il III secolo a.C. ) sono verosimilmente alle origini della stirpe dei Sakyamuni, da cui nel V sec. a.C. nacque il Budda. Un’ipotesi suggestiva, che ha dalla sua parte tracce molto precise ed evidenti di una migrazione europea di “popolazioni a cavallo” arrivate intorno al 900 a.C., di cui rimane la prova nelle cosiddette “mummie caucasiche” dello Xingiang e nei numerosi tesori, come quello della Donna d’Oro di Issyk, scoperti durante gli scavi avvenuti nel periodo della Guerra fredda, e di cui si seppe ben poco all’epoca in Occidente. Le zone di questi ritrovamenti, su cui ha lavorato anche Davis Kimball con nuovi scavi, sono quelle di Pokrovka, tra il Volga e il Don, i monti dell’Altai, in particolare intorno a Pazyrik e Orenburg, nella regione meridionale degli Urali.

Comunque sia, con Donne Guerriere Davis Kimball apre lo sguardo su un paesaggio tra i più sconosciuti, un territorio vastissimo percorso fin dalle età più remote da popoli, mongoli per lo più, che contrariamente agli stereotipi europei sulle “invasioni barbariche”, per millenni sono stati una società ugualitaria, in cui lo status delle donne era alto, sia come donne del Focolare, che della Spada, che dello Spirito (temi trattati nei capitoli centrali, Capitoli 3, 4 e 5): ancor oggi le donne sono lottatrici e abilissime a cavallo e alternano la “cura del focolare” con la continuazione delle pratiche sciamaniche. L’universo cosmologico dei Mongoli è infatti affine a quello delle popolazioni siberiane, ispirate profondamente dalla ricerca dell’“equilibrio”, massimo principio e valore culturale, insieme al rispetto per la terra e per le sue creature, e alla responsabilità personale di ciascuno, nel mantenere l’equilibrio dentro e fuori di sé e nell’esercitare il rispetto: gli stessi principi che verosimilmente governarono le società matrifocali della preistoria a ogni latitudine.

 

 

Jeannine Davis-Kimball

Donne Guerriere.
Le sciamane delle vie della seta.

Prefazione

 

Sebbene il mio lavoro si stesse svolgendo sottoterra, quel giorno di luglio del 1994 non riuscivo a staccare gli occhi dal cielo. La temperatura si aggirava attorno ai trentotto gradi e i raggi di un sole implacabile tingevano il cielo di un blu opaco. L’esperienza mi aveva insegnato che in quella parte di mondo il tempo cambia molto velocemente e per questo tenevo lo sguardo fisso verso est. Come immaginavo, attorno alle dieci – come capitava quasi ogni mattina da quattro settimane – apparve all’orizzonte una macchia color carbone, che preannunciava l’arrivo delle veloci nubi pomeridiane. Gravide di pioggia, avrebbero scaricato sul terreno aspro e sabbioso una quantità d’acqua tale che, per tornare al campo, avremmo dovuto guadare un vero e proprio quanto improvviso lago.
            In quanto archeologa dell’Università di Berkeley in California, dirigevo assieme a un collega un gruppo di studiosi americani e russi impegnati negli scavi di kurgan e tumuli sepolcrali. Lavoravamo nei pressi di una vasta fattoria collettiva di nome Pokrovka, situata al confine tra la Russia e il Kazakistan. Leonid Yablonsky, un archeologo talentuoso ma dal carattere umorale, era a capo di una squadra di quindici persone che appartenevano all’Accademia di Scienze russa, mentre io dirigevo gli otto, tra scienziati e volontari, americani. Stavamo portando a termine un estenuante scavo di due mesi nelle tombe dei Sauromati e dei Sarmati, le tribù nomadi di mandriani e prodi guerrieri che più di duemila anni fa dominarono ampie zone delle steppe.
            La pioggia di quel giorno prometteva di fare danni ben peggiori che infradiciare semplicemente le nostre calosce. Se non ci fossimo sbrigati a mettere al riparo i ritrovamenti dei kurgan, diversi scheletri e oggetti di valore sarebbero stati danneggiati o andati persi.
“Muoviamoci, gente!”, gridai, volgendo poi lo sguardo al lavoro che avevamo portato avanti con tanta meticolosità.
Quando un archeologo dissotterra, pulisce, etichetta, fotografa e prende nota delle sue nuove scoperte, non ha tempo per pensare o porsi domande. Gli scheletri, essendo particolarmente fragili, rischiano di frantumarsi nel giro di poche ore a causa del sole cocente, sempre che le piogge non sommergano prima l’intero sito. Eppure, nonostante sia solita lavorare con ferma concentrazione sui problemi di tipo logistico, quella volta avvertivo un senso di crescente eccitazione. La cosa era dovuta al fatto che, quando uno del nostro team aveva portato alla luce il contenuto dell’ultima tomba, avevo scoperto di esserci imbattuti in qualcosa che non avevo mai visto prima: lo scheletro di una donna – in realtà di una ragazza che, quando era morta, poteva avere dai tredici ai quattordici anni – seppellito con una collezione ragguardevole di punte di freccia in bronzo, racchiuse in una feretra, e quello che doveva essere stato un pugnale finemente lavorato a mano. Abbassai la tesa del cappello per farmi ombra e guardai una delle volontarie che, al mio fianco, era intenta a scrutare nell’oscurità della tomba.
“Mary, le vedi tutte quelle armi laggiù?”, dissi indicando la buca.”Potrebbe essere una scoperta  interessante”.
            Fu solo qualche mese più tardi, dopo che ebbi esaminato i frutti del nostro scavo, che compresi il valore di quella scoperta. Quel giorno d’estate aveva portato alla luce niente popò di meno che il ritrovamento più significativo della mia vita: un approvvigionamento di ossa e artefatti che avrebbe sovvertito le antiche nozioni sul ruolo della donna nelle antiche società nomadi e avrebbe dato credito alle storie, diffuse in tutto il mondo, di sacerdotesse e donne guerriere.

Il fascino che provo per queste donne di alto lignaggio dipende probabilmente dal fatto che il mio stesso percorso di vita professionale e personale è stato così lungo e contorto. A differenza di quelle poche persone che sanno fin dalla nascita cosa vorrebbero fare da grandi, io ho iniziato la mia attività di archeologa in età avanzata. Quando ero piccola, l’unico indizio che presagisse il mio futuro lavoro era la mia propensione a scavare nella terra e a preparare raffinate torte di fango, che provvedevo poi a cuocere al calore del sole. Sono nata a Driggs, nell’Idaho, nel 1929, e ho scoperto la mia vocazione dopo tre matrimoni, sei figli e un curriculum vitae piuttosto variegato, che include un periodo di lavoro come infermiera nel mio paese d’origine, un altro come amministratrice di un ospedale per convalescenti nel sud della California, un incarico di insegnante di lingua inglese in Bolivia e in Spagna e un mancato tentativo di mandriana in Sud America. Sebbene avessi già un diploma in lingua e letteratura spagnola ottenuto presso l’Università di Madrid, sono riuscita a portare a termine il mio percorso di studi americani solo dopo che i miei figli sono cresciuti, conseguendo a quarantanove anni una laurea in Storia dell’Arte a Northridge, l’Università di stato della California. Ero la prima donna della mia famiglia a laurearsi.
            Pur avendo seguito alcuni corsi di antropologia, ho capito quanto fosse forte la mia passione per le civiltà antiche solo quando ho cominciato il mio corso di specializzazione post-laurea, mentre facevo l’inventario degli artefatti provenienti dal Vicino Oriente per conto del Museo della contea di Los Angeles. Ero particolarmente attratta dalla raccolta che conteneva due secoli di targhe di bronzo e statuette di animali, eredità lasciata dai nomadi delle steppe eurasiatiche. Nonostante gli oggetti avessero tra i due e i tremila anni, la colata che ne ricopriva la superficie era impeccabile e i colori andavano da un pastoso verderame a brillanti sfumature rosse degne del porto più invecchiato. Le curatissime raffigurazioni di cervi volanti dalle grandi corna ramificate o di tigri feroci in procinto di attaccare un cavallo mi seducevano e, al tempo stesso, mi lasciavano perplessa. Sentivo che quelle immagini racchiudevano un significato simbolico che mi sfuggiva e mi interrogavo sul senso delle spirali e delle volute onnipresenti sui fianchi e sulle spalle degli animali. Mi accorsi, così, che il mio iniziale interesse per le città-stato e gli imperi della Mesopotamia, con le loro rigide gerarchie controllate da un gruppo esiguo di re e sacerdoti, andava scemando. Ero molto più attratta dallo stile di vita nomade dei loro vicini dell’estremo Oriente, i nomadi eurasiatici che avevano creato le targhe e le statuette dal misterioso fascino.
Man mano che approfondivo la storia delle steppe e studiavo con attenzione le oscure mappe sovietiche della regione, sentivo un desiderio sempre più pressante di visitare quelle terre. La loro estensione mi abbagliava; queste sono immense praterie che si estendono dai declivi boscosi dell’Ungheria ai campi lussureggianti della Manciuria, per poi raggiungere i confini meridionali della Siberia e arrampicarsi verso l’altopiano tibetano. Tagliate in due porzioni nette dai Monti dell’Altai, si snodano per circa 9000 chilometri, coprendo quasi un terzo del continente. Il Volga, il Don, il Dniester e il Dnieper serpeggiano su questi pascoli che, secondo il periodo dell’anno, si ammantano di un color paglia delle spighe di frumento o di un verde smeraldo, costituito dal tappeto di alti fili d’erba punteggiato del rosa delle malvarose e di porpora.
            Con le sue temperature, che oscillano tra i 50° gradi in estate e i 40° sottozero in inverno, quest’area si è guadagnata la reputazione di essere la meno ospitale dell’intero pianeta. Tuttavia, essa è anche stata la culla di numerose e variegate culture. Da qui passava la Via della seta, che partiva dalla Cina e arrivava a Roma. Le strade, un tempo percorse dalle carovane cariche di beni preziosi di ogni tipo, tutt’oggi rivelano alle foto scattate dal satellite le depressioni compatte dei sentieri antichi. Qui Attila l’Unno irruppe dalle montagne dell’Est con le sue legioni di guerrieri a cavallo, depredando e massacrando le popolazioni che abitavano le zone di confine e accelerando la caduta dell’Impero Romano. Ed è qui che Gengis Khan costruì il suo massiccio impero, uno dei più grandi che il mondo abbia mai visto, dove suo nipote Kublai Khan presiedette alla raffinata ed erudita corte cinese che tanto attrasse Marco Polo. Lo storico greco del V secolo a.C., Erodoto, era affascinato dal mondo delle steppe e interruppe il racconto della guerra tra Greci e Persiani per parlare delle gesta delle tribù nomadi, compresi i Sauromati, le cui origini egli faceva risalire alle Amazzoni. Come la maggior parte degli storici – perfino quelli contemporanei –, concentrò però la sua attenzione sulle incursioni e sulle razzie di questi popoli. Qualcosa, invece, mi diceva che quelle società erano ben più che guerrafondaie, inclini ai saccheggi e alla devastazione. Un’inspiegabile forza magnetica mi attirava a esplorare il loro mondo.

Con la mia laurea in mano, mi imbarcai in un dottorato di ricerca, organizzato presso l’Università di Berkeley in California, il cui programma di studi verteva sulle culture del Vicino Oriente. Questa decisione mise finalmente a fuoco la scelta di carriera a cui ambivo veramente. Nel 1985 partecipai al mio primo scavo archeologico. Eravamo a Tell Dor, in Israele, a nord del famoso e antico porto di Cesarea, sulla costa mediterranea. In realtà, non avevo considerato l’idea di partecipare a uno scavo – il mio interesse all’epoca era prima di tutto per la storia dell’arte –, ma l’adviser (relatore) del mio programma di dottorato che era impegnato in un un’indagine di questo tipo per l’università, aveva bisogno dell’aiuto di alcuni supervisori per dirigere i gruppi di volontari.
            Fu così che mi ritrovai a Tell Dor, un tumulo di grandi dimensioni che si estende lungo la costa mediterranea e che ha alle spalle una storia molto lunga. Il suo nome compare nella Bibbia, ma in realtà la costruzione risale a un’epoca precedente quella in cui i marinai fenici del secondo millennio a.C. estraevano la tinta color porpora dagli animali marini della barriera corallina. Scolpiti sul pontile di corallo naturale, che si immerge nel mare proprio sotto il quadrato di terra dei nostri scavi, è oggi possibile ammirare i recipienti che essi utilizzavano per la tintura. Le scogliere di Tell Dor forniscono alcuni tra i migliori esempi della ceramica  dell’Età del Bronzo e non è un caso che tutti gli antichi popoli del Vicino Oriente, compresi i Greci e i Romani, vi costruissero degli insediamenti.
            Dopo gli scavi che duravano dall’alba fino alle due del pomeriggio, i miei compiti includevano di tutto: dal prendere appunti durante le codificazioni pomeridiane degli oggetti in ceramica al massaggiare le gambe del mio professore quando aveva dei crampi (compito che, vorrei sottolineare, non veniva mai richiesto a nessuno dei miei colleghi di sesso maschile). L’unica attività pertinente all’archeologia consisteva nel prendermi cura di un quadrato di terra di cinque metri per cinque, che giaceva su una collinetta a strapiombo sul mare. Sfortunatamente, l’unica ricompensa che ne ricavai fu lo splendido panorama che il luogo offriva. I Romani che vi avevano vissuto erano stati fantastici dal punto di vista della sicurezza ambientale: qualsiasi rifiuto avessero buttato nel mio quadrato di terra doveva essere stato completamente biodegradabile. Mentre trasportavamo secchi e secchi di terreno grigio e cinereo sulla cima della montagnola, non ebbi il privilegio di ritrovare nemmeno una moneta di bronzo, anche consumata. Feci un lavoro accurato e faticoso, ma si rivelò tristemente improduttivo. Il momento più interessante della mia giornata era assistere al tafferuglio che si scatenava ogni mattina nella cucina avvolta nella penombra, quando i volontari si litigavano un barattolo di burro di arachidi illuminato da un’unica lampadina.
            Eppure l’archeologia mi aveva catturata. Amavo la libertà di poter lavorare all’aperto; lo scavare alla ricerca di artefatti che potessero rivelare indizi importanti sul mondo misterioso delle civiltà antiche accendeva la mia fantasia e dava uno scopo a ogni mia attività. Speravo che l’archeologia riuscisse a gettare luce sulle fonti originali e sul significato  delle varie raffigurazioni che mi intrigavano come storica dell’arte: le volte e le spirali dei bronzi dei nomadi, le conchiglie che fiorirono improvvisamente nell’architettura cristiana e islamica, le strane forme zoomorfe che furono celebrate nelle culture più disparate. Allo stesso tempo, man mano che approfondivo le metodologie di scavo utilizzate in passato, diventavo sempre più scettica nei confronti delle interpretazioni date a quei ritrovamenti. Mi colpivano la trascuratezza e le spiegazioni talvolta approssimative con cui erano stati archiviati i dati (come la credenza, largamente diffusa, secondo la quale le persone seppellite con un’arma debbano essere state necessariamente di sesso maschile). La totale mancanza di interesse di molti storici e archeologi verso il ruolo della donna in quelle società mi frustrava. Così, compresi che le risposte alle domande per me più importanti non giacevano nei musei o nelle biblioteche, ma andavano cercate sul campo. Il tempo mi avrebbe dato ragione: le scoperte più sensazionali ed esaltanti della mia carriera mi aspettavano al varco, nelle steppe dell’Eurasia.

 

Nota
1. Colin Renfrew-Paul Bahn, Archeologia. Teoria, metodi, pratiche, Zanichelli, 2008. Colin Renfrew ha condotto alcune campagne di scavi con Marija Gimbutas, che nel libro viene citata solo per criticare la sua teoria.

 

Tratto da: Jeannine Davis-Kimball,
Donne Guerriere. Le sciamane delle Vie della Seta,
Le Civette Saggi, Venexia, Roma,
2009, pp.288, 22 euro.

 

18-03-2009

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