La scienza tra sacro e mercato

di Elena Gagliasso Luoni


Elisabetta Sirani



Nei periodi di perdita delle progettualità ideali, si inserisce nell'immagine collettiva della scienza - così come nella politica e nel respiro esistenziale dei soggetti - l'esigenza di scorciatoie rassicuranti e di deleghe della vigilanza critica.

Due integralismi simmetricamente complementari attaccano quel pensiero aperto, che è la condizione indispensabile per fare ricerca.

Li chiameremo con nomi che possono non piacere, ma che servono ad inquadrarli su uno sfondo storico: da un lato la "regressione oscurantista", dall'altro lo "scientismo tardivo".

Nel caso della "regressione oscurantista", si rinnova oggi un esercizio di supervisione sulle coscienze e di censura che è proprio delle grandi religioni monoteiste. Fin dal ‘600, dalla nascita della scienza moderna con la rivoluzione copernicana, il mondo della ricerca scientifica ha affrontato anatemi e scomuniche. E giustamente: incarna per sua stessa necessità di metodo, per la spinta esplorativa libera e per il rapporto con la materialità del reale, la laicità dell'Occidente.

Ora, nel corso di quattro secoli i rapporti tra la conoscenza scientifica e il sapere religioso si sono snodati lungo una serie di fasi alternanti di maggiore o minore frizione. Ovviamente, nelle fasi storiche più integraliste la scienza, chiave della libertà del pensiero laico, è maggiormente sotto tiro. E oggi siamo nuovamente, come mostra la storia degli ultimi anni, dentro una di queste fasi.

Per ora il monoteismo che maggiormente ci concerne, su questo piano, è l'integralismo della chiesa cattolica e, nei Paesi anglosassoni, quello delle chiese evangeliche e protestanti. Entrambi entrano nel merito delle teorie evolutive biologiche e cosmologiche o delle possibilità di fare ricerca su embrioni. Il punto d'attacco non è quindi più la fisica astronomica di Galileo e Copernico (che è invece ancora rifiutata da alcune forme dell'integralismo islamico), ma la biologia.

Un attacco che negli Stati Uniti le chiese evangeliche e protestanti svolgono attraverso processi in tribunali per imporre nelle scuole l'insegnamento, non tanto del creazionismo, ma del "Disegno Intelligente" divino come motore dell'evoluzione della vita sul pianeta, cercando di sottrarre credibilità alla spiegazione della biologia evoluzionista.

Un'onda che dall'anno scorso è arrivata anche in Italia. Da noi però il nodo che si è stretto è stato sia teorico che pratico e politico. La società aperta, la politica partecipativa e la ricerca scientifica sono state messe in scacco, come ben sappiamo, attraverso la gestione e i risultati dell'ultimo referendum sulla procreazione assistita e l'uso delle staminali embrionali.

Ma è evidente che un referendum che fallisce su questi temi, così come la deriva antidarwiniana sui programmi scolastici ministeriali, non sono che l'ultimo temporaneo anello di una serie di passaggi di quello che possiamo indicare come il disincanto della laicità. Sono passi culturali e politici in senso lato che hanno progressivamente sovrapposto la gestione del consenso del "pubblico" (i consumatori, i fedeli) alla presa di conoscenza della comunità civile (il cittadino e la collettività).

Si tratta di capire allora come mai questo disincanto.

Dove scienza e società civile sono così fragili.

Il mondo di una fede solida non ha bisogno di entrare nel merito della scienza, come sostengono anche molti credenti e credenti scienziati. Se lo fa è anche perché trova spazio tra bisogni ed esigenze del sociale.

La delicata condizione di trapasso e compartecipazione all'alba della vita di un individuo e di distacco negli stati terminali, la ovvia inaccessibilità sperimentale delle origini della materia vivente sul pianeta, e quindi la sua ricostruzione inferenziale, l'impossibilità di esaurire ogni significato del reale con le sole teorie della scienza, sono tutti spunti agevolmente fatti propri dalla religione: temi ripresi a un nuovo livello, ma che prolungano una tradizione di legiferazione sull'essere e sul sapere millenaria. Ma se questo ritorno di parola dei grandi miti e delle autorità rivelate è possibile, se, come sembra, non trova ostacoli nel suo rinnovarsi, questo avviene anche per un vuoto, una sordità del pensiero cosiddetto "laico" nell'affrontare la polifonia dei significati della realtà, e contemporaneamente per l'eccesso di promesse "risolutive" dell'immagine prometeica che alimenta gran parte dell'immaginario scientifico. Tra questa immagine un po' trionfalistica e, diciamolo, "fideistica", divulgata e il reale quotidiano lavoro dei ricercatori c'è uno scarto notevole.

In particolare la pratica della ricerca scientifica, con le sue osticità per il senso comune e la sua scuola del dubbio, pratica la costante e necessaria messa in discussione delle teorie acquisite e funziona presupponendo una sorta di inesauribilità di ciò che è ancora incognito: il non-conosciuto, non il non-conoscibile.

Le "verità" della scienza non obbediscono quindi al principio di rassicurazione umana e sono per definizione autocorreggibili. Alcune delle rivoluzioni scientifiche più importanti, copernicana, darwiniana, freudiana, hanno minato la nostra centralità: nell'universo, tra i viventi e della nostra ragione cosciente. Se il ragionamento scientifico richiede una sofisticata preparazione e appositi codici linguistici, se ci mostra costantemente la limitatezza dei nostri sensi, la disposizione alla ricerca richiede piuttosto il coraggio della curiosità, proprio quello che abbiamo da bambini.

Invece il messaggio scientifico a livello comunicativo e mass-mediatico sembra essere complice e inversamente complementare dell'oscurantismo di ritorno religioso: si propone quasi come contro-fede, sotto forma di scientismo. Uno scientismo che è tardivo perché rispolvera oggi, dopo la complessa e ricca riflessione sociale e politica, fuori e dentro al mondo della ricerca, che ha attraversato la seconda metà del XX secolo, un modello scintillante dei destini progressivi delle conquiste della scienza.

Quello che ci siamo lasciati alle spalle, l'eredità del secolo scorso è infatti una eredità complessa: le domande politiche e filosofiche che sono comparse dopo la Seconda guerra mondiale, le domande sulla non neutralità della scienza, le domande sui rapporti e le implicazioni tra ricerca ed economia, l'attenzione critica alle ricadute delle tecnoscienze sulla società a molti di noi hanno fatto pensare alla possibilità di una scienza più matura. Il trionfalismo del positivismo proprio delle fasi della prima industrializzazione sembrava lasciasse il posto, anche a causa di esiti controversi, a una scienza più consapevole dei suoi limiti e capace di misurarsi con quello che sembrava un compito ineludibile: la messa a punto di una nuova etica della ricerca.

Come veri ostacoli alla libertà della conoscenza infatti si presentavano, non tanto le censure religiose, quanto la grave dipendenza dall'economia di mercato e dai suoi schemi. La situazione oggi è invece più intricata e compromessa.

Se infatti il libero pensiero laico è la condizione per poter fare ricerca scientifica, non si può negare che un attacco a questa "libertà" proviene dal fronte stesso della connessione sempre più stretta tra mercato e ricerca. Il ruolo dei brevetti, soprattutto quando sono applicati a prodotti biologici, farmaceutici, il peso delle grandi multinazionali all'interno degli apparati stessi dei diversi settori di ricerca, la segretezza competitiva per arrivare primi a scoperte assimilabili ad un prodotto, quella vera e propria ossessione della applicabilità e spendibilità di ogni ricerca, sembra essere il contrario della libera circolazione delle idee che alimenta la conoscenza, tanto che anche la differenza tra scienza pura e applicata sembra svanire. Queste sono solo alcune delle ragioni di massima di un affanno nel difendere l'autorevolezza della scienza e i suoi valori di base.

Orientarsi in questo paesaggio ambiguo è ciò che ci tocca affrontare oggi e non è certo uno scherzo. Non è semplice né lineare trovare una sorta di consenso condivisibile sui diversi piani metodologico, etico, politico, tecnico che la ricerca scientifica richiede e che la conoscenza scientifica produce.

Resta, anzi cresce, la necessità di un pensiero scientifico critico - e, dove serve, autocritico - che si faccia carico di almeno tre fronti: la finalità della ricerca, le connessioni ricerca/mercato e la comunicazione. Della finalità delle scoperte, senza lasciare un vuoto in cui ritorna la sola parola del sacro, in particolare sul problema dei limiti precauzionali e della responsabilità sociale di quanto afferisce al vivente. Delle connessioni ricerca/mercato e delle ricadute economiche e sociali dei prodotti (tecnici, ma anche teorici) sull'ambiente in cui viviamo.

Questo è uno stato di cose che non si rovescia certo, o perlomeno che non è compito dei soli ricercatori, ma che richiede di essere rimesso a tema con attenzione, sia da chi sta dentro al mondo della ricerca, sia da chi se ne occupa dall'esterno dei laboratori. Della comunicazione della scienza, e quindi dell'immaginario scientifico che ogni epoca costruisce tra ricercatori e comunità civile, e che oggi è nelle mani di pochi integralisti-scientisti (se mi passate il termine), che da tutti i palchi mass-mediatici ci raccontano di una scienza mirabolante, il cui futuro sembra la riproposizione del vecchio immaginario prometeico dell'Ottocento.

Lontano quindi dallo stato dei controversi problemi tecnologici, etici, sociali ed economici della ricerca di oggi, fideistico invece e così connivente con il potere del sacro, appannaggio proprio delle religioni.

 


questo articolo è apparso su Liberazione del 4 ottobre 2005