Padre, maestro, compagno di viaggio
Lea Melandri



Milano, 14 gennaio 2006

Quanto può cambiare l’idea che abbiamo ereditato della crescita e dell’educazione di un bambino se, accanto alla figura di madre-maestra viene a collocarsi quella di padre-maestro, e se un adulto temuto, autoritario, si trasforma in un rassicurante compagno di viaggio?
A più riprese, negli ultimi mesi, la stampa è tornata a parlare di un fenomeno che appare quasi immodificato in paesi e culture diverse: la scarsa presenza maschile nei ruoli e nelle professioni che si occupano dell’infanzia e dell’adolescenza. “Troppe donne nell’insegnamento?” – si è chiesto Le Figaro (08.08.2011)- per riprendere un dibattito di attualità sia in Inghilterra che in Francia, dove il tasso di femminilizzazione della scuola primaria, negli ultimi sessant’anni, è aumentato enormemente passando dall’82% al 91%.
Nello stesso giorno, La Stampa si occupava dei “nuovi genitori”: una tendenza al cambiamento nel rapporto tra padri e figli, ma pur sempre eccezioni che lasciano alla donna la maggiore responsabilità della famiglia come impegno di tempo e energie. Tenuto conto del segno duraturo
che lasciano sull’essere umano i rapporti con le persone che per prime si prendono cura della sua crescita e delle sua formazione, il paradosso della “latitanza maschile” nell’infanzia è evidente.

Nel suo “diario di bordo”, scritto per lasciare al figlio “memoria” dei suoi primi cinque anni di vita, Gian Carlo Marchesini scrive: “Per concorrere a un lavoro, per candidarsi autorevolmente a esercitarlo, sono normalmente previsti –e imposti- capacità, esperienza, titoli, attitudini, requisiti. Ebbene, la stessa serietà di prove e severità di controlli non è affatto applicata a coloro che decidono di procreare: unico indispensabile requisito essendo, oltre la capacità specifica, la volontà soggettiva (…) Non si approda in tal modo a una “naturalità” di ordine così elementare da essere in sintonia con i parametri e le cadenza proprie del regno animale?” (Compagno di viaggio. Appunti sulla paternità, Edizioni Libreria Croce di Fabio Croce, Roma 2010).

Che la valorizzazione dei passaggi iniziali della vita abbia a che fare con la divisione tra privato e pubblico e, a monte, con il dualismo corpo/ pensiero, natura/cultura, femminile/maschile, emerge con chiarezza dalle analisi che ancora oggi si fanno sul ruolo educativo di un sesso e dell’altro. La stessa critica alla femminilizzazione della scuola finisce per ricalcare gli stereotipi da cui vorrebbe prendere distanza. Dall’articolo su Le Figaro si apprende infatti che per il primo ministro inglese David Cameron favorire la maggiore presenza di uomini nella scuola significa “riportare l’autorità in classe”, proporre una figura modello capace di mostrare al medesimo tempo “forza e sensibilità”. Su posizioni analoghe sembra orientato il dibattito in Francia: la prevalenza di donne nell’insegnamento viene ricondotta al “desiderio di occuparsi dei bambini”, quasi fosse una vocazione, al bisogno di “conciliare vita professionale e vita privata”. Da ciò si deduce che è necessario riformare la scuola, evitando il part-time richiesto dalle donne per far entrare “professori impegnati al 100%, meglio pagati ma più presenti”.

Un cambiamento auspicabile, che interroga la cultura maschile dominante per ciò che ha considerato “altro” da sé -la donna, il corpo, l’infanzia, le emozioni-, si capovolge ancora una volta nell’affermazione del primato dell’uomo padre ed educatore. E’ evidente che molta strada resta ancora da fare prima di vedere comparire, dietro a “differenze”, ruoli considerati “naturali”, le individualità di un sesso e dell’altro.

Con il suo “piccolo libro” dedicato al figlio Gian Carlo Marchesini ci ha provato e i suoi “appunti sulla paternità” sono una delle testimonianze più originali e toccanti su un’intimità ancora tutta da indagare: il rapporto padre-figlio, ma anche adulto-bambino. Contrariamente a chi, come Luigi Zoja (Il gesto di Ettore, Bollati Boringhieri, 2000) si rammarica per la scomparsa del padre come simulacro e simbolo destinato alla missione di “iniziatore”, fonte prima di valori e senso della vita, Marchesini vede nella scelta di deporre l’armatura del sacerdote e del guerriero – o semplicemente dell’autorità che punisce e giudica- la nascita di una “persona viva”, coi suoi desideri e bisogni, il compagno di un viaggio che finisce là dove comincia l’autonomia di chi gli si è affidato nel momento della sua maggiore fragilità.
Nel seguire il percorso accidentato di un uomo alla prese coi problemi della cura e dell’intimità fisica con un bambino -un’esposizione di sé lirica e impietosa, pronta ad inabissarsi nella vita personale e a sollevarla ogni volta a interrogativi più generali-, viene spontaneo domandarsi dove sta la differenza da obblighi, ansie, piaceri, che sono stati finora della maternità. La risposta emerge spontanea dalle pagine di un diario che non potrebbe essere scritto da mano femminile, perché non è il riattraversamento di un destino ma la felice, appassionata navigazione alla scoperta di esperienze nuove, libere da vincoli e mutilazioni antiche.

Nella scelta di stare vicino al figlio nei primi anni di vita, l’uomo sa a che cosa rinuncia: una promettente carriera e i suoi piaceri di adulto, come leggere, scrivere, ragionare con gli amici, fare l’amore. Per secoli le donne non hanno conosciuto alcuna alternativa e anche oggi che il loro tempo è diviso tra famiglia e lavoro fuori casa si tratta di una scelta su cui pesano molti condizionamenti. Quante di loro potrebbero dire che “l’arricchimento della vita si misura anche come crescita di intimità che avviene tra una generazione e l’altra”, quando il corpo a corpo con bambini, anziani, malati, ha tutt’ora una centralità incontestabile nelle loro occupazioni quotidiane?

Non so se le donne possano sentirsi minacciate -come scrive Marchesini- “dal tentativo di fare il padre in modo non biecamente tradizionale”. Di certo, insieme all’apprezzamento per la messa in discussione della divisione dei ruoli sessuali, non è da escludere una benevola invidia per chi può affrontare da esploratore, “con allegria e fatica”, la tenerezza e la tirannia di un bambino, la rabbia il pianto improvviso e l’abbandono fiducioso alle braccia dell’adulto, riconoscere legami di dipendenza e indispensabilità e prospettarsi al medesimo tempo la fine della “verticalità” nel rapporto adulto-bambino, la nascita di un “embrione emozionante di democrazia”, fatto di attenzione e adozione reciproca.
La nascita di un figlio e di più figli, o anche soltanto l’obbligo, l’aspettativa sociale della maternità nella vita di una donna, hanno fatto della sua reclusione nella famiglia una prigione duratura, la metamorfosi rapida da figlia a madre, la rinuncia a un futuro di vita propria.
Se per l’uomo deporre il “randello” reale o simbolico con cui farsi ubbidire da un bambino può essere l’inizio della presa di distanza dalla figura stereotipata di un padre, incapace di amore e intimità fisica, per la donna, priva di autorità, l’unico potere sembra essere quello affettivo ereditato dalla propria madre.
La presenza di un padre nella crescita del figlio, fa notare Marchesini, non serve solo a ridurre la fatica della donna e a rieducare emotivamente l’uomo, ma a prospettare ma a modificare un quadro di compiti prefissati. In effetti, la famigliarità con la storia -la vicinanza ai movimenti antiautoritari del ’68, l’esperienza del mondo del lavoro-, ripensata dai luoghi di un’intimità fisica quasi indicibile e sconosciuta alla propria infanzia, fa sì che il suo “diario” si possa considerare un compagno prezioso per il viaggio che dovrebbe portare, fuori da ruoli astratti di genere, verso la nascita di individualità più libere di uomini e donne.

Commento di Adriana Perrotta Rabissi

 

anche su Gli altri cartaceo del 23 settembre 2011

home