Il territorio non è neutro

Confronto tra Lea Melandri e Aldo Bonomi

 


Lea
Nei nostri due percorsi  quasi quarantennali –tu col gruppo di ricerca Aaster, io con l’impegno nei gruppi e nelle associazioni nate dal femminismo- trovo molte affinità tematiche e interpretative, un procedere in parallelo che non ha trovato però finora punti di incontro. Non dico che la cecità, o la rimozione, siano solo dalla tua parte, le attribuisco anche a me, anche se non posso tacere il fatto che in Italia la cultura politica prodotta dalle donne è stata messa al margine, tacitata o ignorata, dalla sinistra stessa. Il tuo libro Il Rancore (Feltrinelli 2008) si apre con l’immagine del “mondo che avanza”. Il riferimento è alla globalizzazione: il mutamento del modello produttivo e della composizione sociale, la paura e lo spaesamento che ne sono conseguiti. Nella crisi delle grandi appartenenze (classe, Stato, nazione, partito) viene allo scoperto –tu dici- il Territorio, il luogo dove “prende corpo l’esistenza dell’individuo”, e cioè la sua quotidianità, i suoi interessi economici, ma anche i suoi affetti, le sue abitudini, un luogo che può sentire come “proprio”. Ma il territorio ritrovato non è più lo stesso: l’identità locale si è dissolta per effetto dell’individualismo proprietario e, quando si tenta di ricostruirla, compaiono stereotipi, mitologie fondative, spinte alla chiusura verso un esterno sentito come minaccioso, recupero di rituali da clan e così via. Sul territorio, leghismo e berlusconismo si integrano perfettamente, in quanto rispondono a esigenze opposte e complementari: da una parte c’è “il paese”, la comunità d’origine, chiamata a far da barriera a un esterno minaccioso, dall’altra ci sono i “ non-luoghi”, gli ipermercati, i capannoni, per la moltitudine degli utenti-clienti, c’è la “casa” berlusconiana di libertà svincolate da obblighi verso gli altri e da appartenenze. Quest’analisi, che mi trova d’accordo, contiene però un pesante non-detto che va portato allo scoperto, per evitare che le “tracce” della “comunità a venire”, che tu vai cercando dietro i fantasmi del passato, riproducano sotto altra forma il già noto.
Se parliamo di un “mondo che avanza”, accanto alla globalizzazione non si può fare a meno di nominare il terremoto prodotto dal cambiamento del rapporto tra i sessi, la consapevolezza del dominio maschile, la nascita alla polis di un soggetto “imprevisto”, le donne. Ora, il territorio si può considerare una zona di confine, una intercapedine dove privato e pubblico si intrecciano fino a confondersi, dove quindi la donna torna ad avere una sua centralità, che è però quella tradizionale di moglie e madre, custode della famiglia e della discendenza. La comunità territoriale per le donne può diventare più stretta e oppressiva della casa. Per molte donne della mia generazione, il primo passo verso la libertà è stato proprio il de-territorializzarsi, la fuga da paese verso la città, il rifiuto dei ruoli tradizionali.

Aldo
Nel mio lavoro ho preso due categorie, due intuizioni: una, tutta interna al discorso dell’autonomia del politico –la sua storia, la sua mascolinità, la sua potenza-, che è il termine “moltitudine”. I miei amici di un tempo la usano come categoria politica, intendendo “il nuovo soggetto della rivoluzione”, mentre io l’ho usata più dal punto di vista sociologico. Ci sono, per così dire, andato dentro, sviluppando meccanismi di empatia, di conoscenza, non innamorandomene ma vedendone i tutti i limiti. Qui devo molto al vostro pensiero. Mi sono imbattuto nella categoria della cura, un discorso su cui, stando a quello che ho letto nei libri femminili-femministi, è costruita anche un’ideologia. Anche in questo caso, io ho fatto un’operazione sociologica, andando a vedere che cosa è la comunità di cura. E’ ovvio che questa parola gronda di femminilità tradizionale. Io credo che il punto su cui ragionare siano queste due categorie –il territorio e la comunità-, accettando la contaminazione di linguaggi che ci viene imposta non dalla nostra soggettività, ma dal fatto che, se guardi che cosa è la moltitudine oggi, ti rendi conto che in questi due percorsi ci sono dentro le nuove forme di vita e dei lavori. Il percorso che ho fatto è stato quello di trattare non solo gli interessi, a cui la sociologia classica ha abituato, ma di introdurre un materiale delicatissimo, come i sentimenti, il sentire. Che altro sono il rancore, l’insicurezza, la paura? Il mutamento del tempo, dello spazio, della comunicazione, della comunità, non poteva non produrre anche un problema del sentire rispetto a questo. Vi è implicata non solo la categoria dell’interesse, ma la dimensione del vivere collettivo. Capire che la finanza ha un flusso, vuol dire pensare al mutuo della casa, al fatto che siamo tutti finanziarizzati da un circuito globale che nessuno controlla.

Lea
Nel tuo discorso su territorio e comunità c’è comunque una predominanza dell’elemento economico e sociologico. Sono analisi “neutre”. Sul territorio si incontrano e intrecciano la casa e la piazza, la famiglia e la società, per cui non si può saltare l’analisi della divisione sessuale del lavoro. Proprio perché il tuo campo di osservazione si è spostato, rispetto alla politica di quelli che, come tu dici, hanno mangiato pane e companatico con lo Stato, il welfare, il conflitto capitale-lavoro, l’analisi del rapporto tra i sessi è imprescindibile. Penso in particolare a quello che ho letto nella Prefazione al libro che stai per pubblicare, Sotto la pelle dello Stato, che mi sembra più centrato su quello che di “altro”, di “nuovo”, si nasconde dietro la crisi delle grandi istituzioni e appartenenze. Nel laboratorio del Nord Italia – scrivi- si trovano le tracce e i soggetti della società che viene. I soggetti sono “coloro che vivono nel quotidiano e che nel territorio tentano di avviare forme di relazione “altre” rispetto alla passioni fredde del benessere economico”, e, soprattutto rispetto a spinte distruttive come la paura e il rancore. La speranza che si possa andare oltre i populismi poggerebbe essenzialmente sull’assumere il territorio come luogo del pensare e dell’agire, e nel contrapporre alla comunità del rancore la “comunità della cura” e la “comunità operosa”. E fai l’esempio dei fatti di via Padova a Milano. La prima è quella che costruisce welfare collettivo e mutualismo, l’altra un benessere economico che non si chiude nel localismo.
Anche qui, della cura e dell’operosità si parla come se rappresentassero una realtà neutra, che si sposta dal privato al pubblico, senza dire che cosa è stata storicamente nella divisione sessuale del lavoro, e che cosa è tuttora per le donne la cura. Anche se è cresciuto il welfare collettivo e si sono moltiplicate le imprese sociali che si occupano di disabili e anziani, la cura resta ancora una funzione e una responsabilità delle donne, come lavoro quotidiano gratuito nelle case (o salariato, nel caso della badanti) o come occupazione ancora prevalentemente femminile nel pubblico.
La “comunità che viene”, letta in modo neutro, è solo la femminilizzazione dello spazio pubblico, del lavoro in particolare, cioè l’assunzione del “femminile” e di tutto ciò che ha significato tradizionalmente (capacità di ascolto, di mediazione, affettività, seduzione, ecc.), come “valore aggiunto”, risorsa da mettere al lavoro, complemento necessario ma subalterno, come è sempre stato.

Aldo
Non c’è dubbio che sul territorio avvengono due processi: la dissolvenza della famiglia e l’aumento impressionante di quella guerra molecolare che è la violenza domestica contro le donne. E’ chiaro che il conflitto non è tutto fuori, ma anche dentro di noi. Accanto al femminicidio, ci sono poi altre forme di violenza: la guerra per bande, la guerra civile molecolare di quando la comunità si chiude e se la prende coi rom. Il dato più inquietante è sicuramente il primo e non si risolve con le leggi ma cercando di capire che cosa è esploso. Sono d’accordo con te che, quando si va nel territorio, si vede come la parola “comunità” rimandi a qualcosa di antico: la comunità d’origine chiusa e oppressiva. Io la uso e dico però: attenzione, sta venendo avanti una voglia di comunità rancorosa, pericolosissima per la convivenza, per la politica e per le donne, un’operazione di nostalgia pratica che porta le donne indietro, a prima dell’emancipazione. Anch’io, del resto, sono venuto giù con la frana della Valtellina e non ho nessuna intenzione di tornare nella vallata chiusa e dipinta di verde.
Qualsiasi donna può dirsi contenta di essere uscita dal contado per entrare nella ambivalente libertà della metropoli. Ma voglio capire se i nostri due percorsi si possono incontrare su un punto: è’ vero che c’è una comunità del rancore, ma io uso il termine “comunità” per indicare il desiderio e la voglia di comunità, di una comunità che non c’è. Non c’è solo l’italietta di Bossi e Berlusconi, ma anche una voglia di uscita che si esprime nella comunità di cura e nella comunità operosa.

Lea
Io credo che, nel continuare a parlare di comunità e di egoismo, l’ambiguità resti. Perché non parlare invece di individuo e collettività, dei nessi che ci sono sempre stati tra “personale” e politico”? La parola “comunità” evoca, per la donna che è stata identificata col corpo, contrapposto alla polis,  il luoghi chiusi in cui si è consumato per secoli il suo destino. La donna non è mai stata un individuo, una persona, ma un “genere”, un tutto omogeneo definito dalla sua anatomia. E’ vero che una parte del femminismo ha ricalcato logiche identitarie, appartenenze, mitologie fondative della “differenza femminile”, ma non è la mia esperienza, che si richiama alle intuizioni originali degli anni ’70: partire dalla vita personale per ripensare la sfera pubblica, le sue istituzioni, i suoi poteri e saperi. Voleva dire mettere in discussione il modo con cui si è definita la politica, ma anche la logica  -conservativa/espulsiva- con cui nasce ogni volta il gruppo chiuso come risposta a una presunta minaccia esterna. La comunità territoriale, così rinserrata nella difesa della propria identità assomiglia molto al gruppo chiuso. La nascita della donne come individualità interroga tutte le forme di aggregazione, a partire dalle passioni primarie, come il sogno fusionale della coppia. Se si vuole evitare che la comunità a venire sia una replica del già noto, tener presente il rapporto tra i sessi mi sembra indispensabile.

Aldo
Io riesco a individuare una nebulosa di comportamenti collettivi. Tu giustamente dici: la nebulosa va bene, ma dentro è fatta di uomini e di donne, di individui. Io credo che le tracce di quelle individualità che tendono al collettivo si trovino nella comunità di cura e nella comunità operosa, e che possano portare fuori dalla comunità del rancore. Nel libro che avete pubblicato, L’emancipazione malata. Sguardi femministi sul lavoro che cambia (Edizioni Libera Università delle Donne, 2010), la cosa per me più interessante, partendo dallo scritto tuo e di altre, sono i ragionamenti sul fatto che la forma dei lavori oggi è tutta intrinsecamente intessuta di elementi femminili: viene messa al lavoro la “nuda vita e la “vita nuda” -per nuda vita intendo il corpo, per vita nuda il nostro sentire, pensare, raccontare, la nostra memoria e persino la nostra riproduzione. L’operosità è segnata da tante individualità messe al lavoro: “lavorare comunicando”, come ha detto il mio amico Christian Marazzi. Il problema della cura non è banale, ma anche in questo caso è possibile un cambiamento: ormai le individualità messe al lavoro non sono più costrette dentro la gabbia della comunità chiusa  -la famiglia, i ruoli, ecc.-, si può costruire una comunità di cura adeguata ai tempi, partendo dalle professioni che avevano dentro l’amore per gli altri: penso all’infermieristica, alla scuola. Uscita dalla casa, è questa la dimensione che può dar vita a nuove forme di socialità.

Lea
Purché si tenga conto che, non a caso, finora le professioni che avevano dentro l’amore, sono state ricoperte prevalentemente da donne. Su cosa significhi la femminilizzazione dello spazio pubblico dovremo continuare a discutere, perché è fin troppo facile pensare che il  “femminile”, lo stereotipo di genere, sia la “natura”, l’identità della donna, e non una costruzione storica del sesso che si è fatto protagonista della storia.

 

pubblicato anche su Gli altri del 1 ottobre 2010

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