La parentela innominabile tra amore e violenza

Lea Melandri


Frida Kahlo

Sono stata invitata a questo incontro (organizzato da Caritas Ambrosiana il 27-9-2013) come “femminista”, per cui partirò proprio da qui: da ciò che il femminismo ha detto o non ha detto rispetto alla violenza maschile
Si può dire che il femminismo ha messo a tema la violenza contro le donne fin dai suoi inizi, negli anni ’70, quando ha abbandonato la “questione femminile”  -le donne viste come un gruppo sociale svantaggiato, da tutelare o valorizzare-  per analizzare il rapporto uomo donna, a partire dal corpo, dalla sessualità, dalla maternità, cioè da quelle esperienze che hanno visto la donna cancellata come “individuo”, espropriata di esistenza propria, identificata col corpo, con una sessualità diventata obbligo procreativo o messa al servizio dell’uomo, scambiata con mantenimento o denaro.

Si è parlato allora in modo particolare della violenza invisibile o violenza simbolica, quella che passa attraverso una visione del mondo dettata dall’uomo, il protagonista unico della storia, ma che le donne hanno interiorizzato, incorporato, al punto da parlare la stessa lingua del dominatore. E’ solo a partire dal 1975, dopo i fatti del Circeo, che si è cominciato a discutere della violenza sessuale come reato contro la morale e non contro la persona. Ci vorranno dieci anni prima che venga approvata una legge nel merito.
La violenza manifesta –maltrattamenti, persecuzioni, omicidi, ecc- che avviene in ambito domestico invece, inspiegabilmente, è venuta allo scoperto solo in tempi più recenti , si può dire dal momento in cui sono comparsi i primi Rapporti internazionali sulle cause di morte delle donne e si è visto che al primo posto ci sono gli omicidi per mano di mariti, padri, fratelli, amanti, figli. Io stessa ho cominciato a scriverne nel 2004. Nel 2007 si tiene a Roma la prima grande manifestazione  -oltre centocinquantamila  persone- promossa dai collettivi femministi di varie città e dai centri antiviolenza . Altre ne seguiranno negli anni successivi nella ricorrenza del 25 novembre, oltre ad appelli, documenti, articoli sui giornali, seminari.
Ora, è sicuramente merito del femminismo aver portato nel dibattito pubblico e all’attenzione delle istituzioni quello che oggi viene chiamato “femminicidio”, una violenza che si colloca all’interno del rapporto di potere tra i sessi, un dominio del tutto particolare perché passa attraverso le vicende più intime;  averlo tolto dalla cronaca nera, aver fatto in modo che non fosse attribuito alla patologia del singolo o ai costumi barbari delle comunità straniere, fare in modo che non lo si vedesse come emergenza o questione di sicurezza, ma come problema culturale, sociale e politico di primo piano.

Detto questo, se guardiamo al dibattito pubblico oggi molto più esteso che  in passato, tanto da raggiungere le massime istituzioni dello Stato, l’impressione che si ha è di uno scarto enorme tra l’analfabetismo con cui si affrontano le questioni riguardanti i sentimenti, la vita intima, le relazioni personali, gli affetti, e un sapere profondo, complesso, articolato su vari piani, prodotto da mezzo secolo di pensiero femminista che giace negli archivi, nei centri di documentazione, nelle tante pubblicazioni che sono uscite negli ultimi quarant’anni. Se il dibattito pubblico sulla violenza maschile è così inadeguato e stenta a trovare le strade per prevenirla è anche perché sconta l’ostracismo che nel nostro paese ha accompagnato il risveglio della coscienza femminile, le teorie e le pratiche con cui ha affrontato la vicenda dei sessi in tutti i suoi aspetti, privati e pubblici.
Ne è prova il fatto che, mentre si dice che è “una questione culturale”, si continua a dare centralità alla figura della vittima e dell’aggressore, spesso spettacolarizzandole ad uso delle logiche di mercato e di intrattenimento. Con questo passa di nuovo in ombra l’analisi del fenomeno nelle sue implicazioni culturali, storiche, politiche; si permette agli uomini di mantenere il confine tra quelli di loro che appaiono come “mostri”, esseri irrazionali incapaci di controllare le loro pulsioni, e gli uomini perbene, solidali con le donne. Impedisce, in altre parole, quello che un’esigua minoranza  -come l’associazione Maschile Plurale- è riuscita a dire: “questa violenza ci appartiene”, perché interroga l’idea di virilità, di rapporto uomo-donna, che abbiamo ereditato, comportamenti, valori che ancora passano come “naturali”, scontati.
Quella che va interrogata perciò è la normalità, o quella che abbiamo considerata tale, va indaga la violenza là dove non vorremmo trovarla: nei rapporti di coppia, nella vita intima, negli interni delle famiglie, in quegli aspetti inquietanti che la vedono confondersi con l’amore.

Non sembra destare particolare attenzione il fatto che la violenza maschile contro le donne, nel suo aspetto manifesto  -maltrattamenti, stupri, omicidi- sia anche la più sfuggente: sono poche le donne che ne fanno denuncia, molti non la considerano ancora un crimine, alcune vittime dichiarano di amare nonostante tutto il loro aggressore. Per capire quanto sia sfuggente, lenta ad arrivare alla coscienza, mi basta pensare alla mia esperienza personale. Cresciuta in una famiglia contadina molto povera, costretta a vivere in promiscuità, sono arrivata all’età adulta senza capire quali fossero i confini tra amore e violenza, perché le donne della mia famiglia fossero così forti, vitali, lavoratrici accanite in campagna e in casa, e, al medesimo tempo, così sottomesse da subire maltrattamenti, botte e comandi dai loro uomini, senza che venisse meno l’affetto che li legava. Sono uscita dalla famiglia d’origine con profonde ferite, come tutti quelli che hanno “assistito” alla violenza, e con una visione confusa del rapporto tra i sessi: uomini deboli, dipendenti eppure dominanti sulle donne  che si prendevano cura di loro. E’ stato solo l’incontro col femminismo, avvenuto anni dopo a Milano, a farmi rivedere quell’esperienza con altri occhi.


Vengo al titolo del convegno. E’ vero  -ed è giusto che in incontri come questo lo si sottolinei- che “non si uccide per amore”, ma aggiungo : l’amore c’entra. Mi riferisco ovviamente all’amore così come lo abbiamo ereditato, conosciuto finora, cioè intrecciato e confuso con rapporti di potere, non escluso quello più selvaggio: il potere di vita e di morte. Quello che oggi siamo chiamati a fare è analizzarlo più a fondo. In questo anche il femminismo è stato mancante: l’amore è ancora un tabù, è il luogo innominabile in cui si può pensare che si annidi quella complicità femminile  -incolpevole e inconsapevole- che ha permesso al dominio maschile di durare così a lungo.
Gli uomini sono figli delle donne. Il corpo che hanno sottomesso alla loro legge, sfruttato e violato in tutti i modi, è il corpo che li ha generati, che ha dato loro le prime cure, le prime sollecitazioni sessuali, un corpo che ritrovano nella vita amorosa adulta e con cui sognano di rivivere l’originaria appartenenza a un altro essere.
Ma è anche il corpo che li ha tenuti in sua balìa nel momento della loro maggiore dipendenza e inermità, che poteva dare loro la vita o la morte, accudimento o abbandono. Confinando la donna nel ruolo di madre, facendola custode della casa e della sessualità, garanzia di sopravvivenza materiale e affettiva, l’uomo ha costretto anche se stesso a restare bambino, a portare una maschera di virilità sempre minacciata.

Se è vero  -come dice Freud- che“un amore felice vero e proprio corrisponde all’originaria situazione in cui non è possibile distinguere tra libido d’oggetto e libido dell’Io”, che la coppia trova la sua stabilità “ quando la moglie ha fatto del marito il proprio figlio”, si potrebbe dire che per questo prolungamento dell’infanzia l’uomo non è mai andato “oltre le frontiere del narcisismo”.
Separandosi, la donna non colpirebbe perciò solo un privilegio e un potere indiscutibile della maschilità, ma l’ “amore di sé”, la fonte prima, rimasta tale anche nell’età adulta, dell’ “autoconservazione”. Il fatto che chi uccide spesso riservi a sé la medesima sorte sembra esserne la conferma.
E’ dunque sulla famiglia che si dovrebbe portare l’attenzione, in quanto luogo che istituzionalizza l’amore nella sua forma originaria, creando vincoli di indispensabilità reciproca, destinati a diventare una minaccia per l’autonomia del singolo. Si può uccidere una donna perché troppo inglobante, oppure perché si sottrae alla presa. Se l’uomo fosse il dominatore, il vincitore sicuro di sé, non avrebbe bisogno di uccidere.

Dobbiamo riconoscere che dietro il dominio del padre c’è la nostalgia del figlio. Forse è questa tenerezza che le donne continuano a spiare dietro la violenza dell’uomo. Verrebbe da dire che, per capire la violenza che passa nella relazione tra i sessi, bisogna interrogare a fondo l’amore, tenendo conto che le figure di genere strutturano, al medesimo tempo, gerarchie di potere e illusioni amorose. La possessività parla una lingua diversa nella bocca dell’uomo-padrone e dell’innamorato.
Il dominio maschile non è mai venuto meno, ma da un secolo a questa parte sono avvenuti grandi cambiamenti nel rapporto tra i sessi. Il terremoto più forte è stato prodotto dal femminismo degli anni ’70, in quanto critica radicale ai ruoli del maschile e del femminile, alla loro presunta “naturalità”, alla cancellazione della sessualità femminile e della donna come individuo, alla divisione sessuale del lavoro, alla maternità come destino. E’ lì, nella sfera domestica, che le donne hanno mostrato di non voler più essere un corpo a disposizione di altri. Le separazioni, i divorzi, il numero crescente delle donne che vivono sole sono materialmente e simbolicamente la prova che la millenaria “oblatività” femminile, come “sacrificio di sé”, sta venendo meno. Di conseguenza, aumentano nell’uomo insicurezza, senso di fallimento e di impotenza, consapevolezza intollerabile della propria dipendenza, finora mascherata o rimossa.

Se, nonostante tutto, l’idealizzazione della famiglia è così duratura, forse è perché è negli interni delle case che tornano a confondersi la nostalgia dell’uomo-figlio, il potere di indispensabilità della donna-madre e i residui di un dominio patriarcale in declino.Dobbiamo chiederci dunque che parte ha l’amore –come prolungamento, sia pure illusorio, dell’unità a due originaria col corpo della madre-  nel mantenere l’ambiguità che si annida nei vincoli famigliari, amorosi, sessuali.

In uno dei suoi saggi più famosi, Il disagio della civiltà, Freud descrive con straordinaria lucidità le forme che ha preso storicamente la “guerra tra i sessi”:

“Le donne rappresentano gli interessi della famiglia e della vita sessuale. Il lavoro civile è diventato sempre più cosa di pertinenza maschile (…) la civiltà si comporta verso la sessualità come una stirpe o uno strato di popolazione che ne abbia assoggettato un altro per sfruttarlo. Il timore dell’insurrezione di ciò che è stato represso spinge a severe misure cautelative.”

L’uomo non è una creatura mansueta, vede nel prossimo non soltanto un eventuale aiuto e oggetto sessuale, ma anche un invito a sfogare su di lui la propria aggressività, a sfruttarne la forza lavorativa senza ricompensarlo, ad abusarne sessualmente senza il loro consenso, a sostituirsi a lui nel possesso dei suoi beni, ad umiliarlo, a farlo soffrire, a torturarlo, a ucciderlo.”

Ma dopo aver mostrato come l’intreccio tra Eros e Thanatos entri nella vita intima dei sessi, l’idealizzazione della coppia madre-figlio  -“forse l’unica esente da ambivalenze”, tanto da poter essere presa come “modello di ogni rapporto amoroso”- impedisce a Freud  di vedere quanto amore e odio, desiderio e paura, siano già presenti nell’esperienza che l’uomo fa del corpo che l’ha generato, soprattutto per avergli consentito di protrarre nella sua vita adulta  il potere materiale e psicologico che ha esercitato su di lui bambino.
Ha ragione dunque Pierre Bourdieu quando si chiede, nell’ultimo capitolo del suo libro, Il dominio maschile, se l’amore è “l’isola incantata”, in cui si ferma la “guerra tra i sessi”   -“smarrirsi l’una nell’altro senza perdersi”, il miracolo della reciprocità, creatori/creatrici e creature-, oppure “la forma suprema, perché la più sottile, la più invisibile, della violenza simbolica”. Il sogno fusionale nella relazione d’amore  è, come ha scritto Sibilla Aleramo, “atto sacrilego” dal punto di vista dell’individualità, e comunque continuamente esposto a strappi violenti. L’amore ha coperto non a caso la mole di lavoro necessaria  per la cura della casa e della famiglia, un addentellato non indifferente dell’economia; la sessualità scambiata con mantenimento, denaro o doni; i comportamenti violenti presi per un eccesso di passione amorosa.

Oggi le donne sono tentate da un’emancipazione che non è più quella della parità, dell’uguaglianza dei diritti, della cittadinanza completa, e che assume piuttosto l’aspetto di una rivalsa: usare a proprio vantaggio quelle potenti attrattive  -come la seduzione e la maternità- che l’uomo ha temuto e perciò sottomesso, piegato al proprio piacere e alla propria sopravvivenza. Nell’affermazione di libertà della donna l’uomo sembra che veda prima di tutto un capovolgimento delle parti, il pericolo di essere riportato nella posizione che ha conosciuto originariamente rispetto alla potenza femminile: insicurezza, dipendenza, inermità. Più difficile riconoscere che non ha solo privilegi da perdere, ma l’acquisizione di aspetti più umani.

Quali possono essere allora le strade per prevenire la violenza? Per un cambiamento culturale così profondo, che passa attraverso la presa di coscienza di ogni singola o singolo, più che attraverso le leggi e l’aggravio delle pene per gli aggressori, sono necessari interventi che vadano alla radice del problema: un processo educativo che cominci dai primi anni di vita e la formazione degli adulti, in modo particolare di quelli che hanno un rapporto diretto con le donne vittime di violenza, ma non solo.
Prima di tutto è necessario che la questione uomo-donna venga assunta in tutta la sua gravità e per il peso politico che ha, che non vuol dire, come si sente ripetere spesso, dare pieni diritti, riconoscere “dignità” alla donna – come se fosse sempre e comunque una “questione femminile”- , ma chiedersi se anche gli uomini non abbiano da guadagnare in libertà e umanità dalla messa in discussione dell’ordine esistente: ripensare la divisione del lavoro, riconoscere che il “tempo di vita” è un bene per uomini e donne, che la cura dei figli, della famiglia non è un destino femminile e tanto meno una questione privata, ma una responsabilità collettiva.
Se gli uomini si abituassero ad avere  famigliarità col corpo  -del bambino, del malato, ma anche del proprio per tutte le vicende che lo attraversano-, e le donne si rassegnassero  a rinunciare a quel potere sostitutivo di realizzazioni mancate che è il rendersi indispensabili all’altro  -“schiave che vogliono rendere schiavi gli altri” (Virginia Woolf)-, forse gli uni darebbero la morte con meno facilità e le altre riconoscerebbero più facilmente l’ambiguità di tante apparenti “prove” d’amore.

 

 

 

home