Le piazze creative degli indignati

Lea Melandri

Commentando la manifestazione che si è svolta a Roma il 15 ottobre, Andrea Colombo su Gli Altri (21.10.11) si è soffermato sugli aspetti contraddittori di un movimento che ha sicuramente un carattere inedito rispetto al passato -più festoso, più radicato nel qui e ora dei propri bisogni, ingovernabile e riluttante all’idea stessa di farsi rappresentare-, ma che si porta dietro residui antichi e soffocanti, cupi e inadeguati ai tempi, “di una identità politica basata sul militarismo”. E concludeva:

“Questo c’è da festeggiare, la possibilità di trasformare la crisi da catastrofe sociale in occasione di liberazione”.

Tradotto in altri termini e riportato all’esperienza di chi ha conosciuto negli anni ’70 l’urto devastante tra pratiche libertarie, come la rivista “L’erba voglio” e il femminismo, e lo scontro armato con il sistema, verrebbe da dire che la noia della coazione a ripetere -il machismo guerriero, la rivoluzione come presa del potere, il binomio avanguardia/masse, ecc.- si accompagna oggi al profilarsi, pieno di promesse, di una ripresa: il desiderio dissidente, la radicalità come processo di accomunamento e non di settarizzazione, l’agire politico come “tensione utopica verso il possibile attualmente impossibile”.

Sono molti i richiami che fanno pensare alla riattualizzazione di quella fase rivoluzionaria, breve e intensa, che ha sovvertito le categorie tradizionali della politica e riformulata l’idea stessa di potere, a partire dalla violenza che passa invisibile, incorporata negli habitus mentali, nei simboli e nell’immaginario collettivo di cui è fatta l’aria che respiriamo. Paradossalmente, è come se la modificazione dei confini tra le esperienza cruciali della persona e le istituzioni della vita pubblica avesse permesso di portare allo scoperto i “nessi” che ci sono sempre stati tra i vertici più distanti e imperscrutabili del sistema dominante -le banche, la finanza, le multinazionali- e il vivere quotidiano.

Nelle piazze creative di Puerto del Sol a Madrid, di Zuccotti Park a New York, di Paternoster Square a Londra , così come all’interno e nelle vie adiacenti al Teatro Valle occupato a Roma, le tende degli accampati, le mense allestite con mezzi di fortuna, le librerie e gli spettacoli, le assemblee a cielo aperto, la narrazione diretta, continua di ciò che vi accade, sfidano per la prima volta, sia pure simbolicamente, il luoghi del potere. Dal basso, dai comportamenti e dai gesti essenziali di una comunità improvvisata che ha deciso di trasferire la propria casa in uno spazio pubblico e che non ha mediatori né figure di leader carismatici, parte un messaggio dalle potenzialità espansive sorprendenti: procede orizzontalmente, abbattendo steccati e pregiudizi, colmando distanze tra gruppi sociali tradizionalmente separati, ma non lascia indifferenti neppure le fortezze che decidono oggi il destino delle nazioni.

La popolarità mondiale di Occupy Wall Street -scriveva giorni fa Federico Rampini (Repubblica, 25.10.11)- è cresciuta tanto da diventare una meta segnalata dalle agenzie turistiche, da trasformare gli artefatti reality show televisivi nella documentazione “minuto per minuto” della vita di alcuni manifestanti. Ma il fatto più rilevante –sottolineava- è che i due terzi degli Americani “simpatizzano” col movimento, “in quanto ne condividono lo slogan principale ‘Tax the Rich’, ‘Tassiamo i ricchi’. Un’indignazione, dunque, che mette insieme la rabbia diffusa contro lo strapotere della finanza e il desiderio di equità sociale.

Ma al di là della collocazione mirata ad accendere un faro sulle stanze inaccessibili dei massimi poteri, sembra che le piazze siano diventate di per sé il luogo simbolico di un’alternativa di società che riemerge dopo tortuosi percorsi carsici. La condivisione del quotidiano, l’idea di un agire politico capace di tenere insieme i sogni delle persone e la conflittualità sociale, le prove di democrazia diretta, come ricerca di nuove forme di rappresentanza e uscita da ripiegamenti leaderistici, delineano un processo di “accomunamento” che Elvio Fachinelli aveva intravisto, nel suo incontro con gli studenti dell’Università occupata di Trento nell’inverno ’67-68, come via d’uscita dal “gruppo chiuso” e dalla incipiente svolta verso la frammentazione dei gruppi extraparlamentari. Il “gruppo aperto” , o “gruppo di desiderio” deve la sua eccezionalità -scriveva Fachinelli (Il bambino dalle uova d’oro, Feltrinelli 1974)- al fatto che riesce a capovolgere quel riflesso di difesa, sedimentato nella memoria collettiva, che fa vedere in ogni “esterno” un nemico: “l’esercito agguerrito che schiaccia la setta diventa per esso la massa sterminata offerta alla propria comunicazione”.

In una Nota redazionale della rivista “L’erba voglio” (n.3/4, febbraio 1972), lo stesso concetto politico trova una felice immagine nei gesti più comuni del vivere quotidiano: “ Non diamo direttive ai ‘quadri’. Ma neppure sediamo al Caffè della Ragione degli intellettuali di sinistra. Le nostre idee, che ci auguriamo di sentire fischiettare la mattina dal garzone del fornaio, propongono comportamenti, modi di agire, anche insoliti; e questi movimenti reali di tutto il nostro corpo, a loro volta, criticano seriamente le nostre idee”. Un desiderio analogo di accomunamento e di uscita dal “ghetto della sinistra infelice” è quello che si coglie nei discorsi degli accampati di Wall Street e di altre città: “Vogliamo far conoscere a tutti le nostre idee, vogliamo invitare i cittadini a partecipare insieme a noi”.

In che cosa identificare allora la “radicalità” del movimento che oggi si estende a macchia d’olio da un capo all’altro del pianeta? Nella rabbia dei rivoltosi che saccheggiano supermercati e altri oggetti simbolo del consumismo, o negli accampamenti colorati e musicali che stanno aprendo un varco di consapevolezza e nuove impensate prospettive di cambiamento, assediando pacificamente i palazzi del potere?

Se siamo di fronte al “passaggio verso una nuova epoca” – come scrive Angela Azzaro (Gli Altri, 21.10.11)-, con protagonisti sociali che vogliono riscrivere le regole della democrazia, raccontandosi finalmente senza intermediari, politici o televisivi, la partenza per trasformare il mondo -dal Teatro Valle diventato casa comune e dalle piazze creative degli indignati- fa indubbiamente sognare, consapevoli che è stata finora la separazione tra sogno e realtà ad alimentare il senso di impotenza.

 

Gli altri del 4 novembre 2011

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