I paradossi della maternità tra corpo e pensiero

di Lea Melandri

 

La discussione intorno alla Legge 40, sulla procreazione medicalmente assistita, ha segnato il trionfo di quello che Barbara Duden (Il gene in testa e il feto nel grembo, Bollati Boringhieri 2006) chiama “il discorso sociale sulla gravidanza”, il “monopolio del pensiero tecnologico”: entrano nel linguaggio quotidiano termini che provengono dai laboratori scientifici - ovuli, zigote, embrione - e si perde l’antica abitudine, diventata desiderio e pratica politica col femminismo, di dare voce all’esperienza che ognuna fa del proprio corpo. Nell’abisso che si apre tra il “corpo vissuto” e il “corpo diagnosticato”, le parole perdono il loro “sapore somatico”, le persone disimparano a fidarsi del loro sentire, l’attesa e la speranza seppelliscono il futuro nell’esito di un referto medico.

Con un movimento che inverte i due termini di una immaginaria ma duratura opposizione tra natura e storia, l’essere umano si trasforma in processo biologico, mentre le cellule di cui è composto, isolate dall’organismo con cui finora si sono confuse, assumono, come “cittadini non ancora nati”, dignità umana e giuridica. L’insistenza con cui i media inseguono ogni nuova sperimentazione medica o scoperta scientifica, riguardante la nascita, non poteva lasciare le donne indifferenti, senza per questo trasformarle, come qualcuna temeva, in “consumatrici di biotecnologie”.

La narrazione di gravidanze, parti, rapporti materni e filiali, ha accompagnato la storia del femminismo, sia pure percorrendo strade traverse, sentieri in ombra rispetto alle vie maestre del pensiero teorico. Nel corso dei dieci anni di pubblicazione, la rivista Lapis (1987-1997) ha accolto, in una rubrica omonima, “racconti di nascita” strappati all’oblio a cui sembra destinata fatalmente un’esperienza in cui convergono, alternati o confusi, vita e morte, pienezza e svuotamento, potenza e miseria, dolore fisico e gioia, riappropriazione e perdita di sé. Si può pensare che sia questo paradosso, oltre alla invasività crescente delle biotecnologie, a rendere così faticosamente dicibile il parto, come soglia che recide un cordone di carne tra due esseri per riannodarlo subito dopo in un seguito di cure, affetti, responsabilità, che sembrano non finire mai: madre, non per la durata di una gravidanza, ma per sempre, come l’infanzia, del resto, che ci si lascia alle spalle, ma che allunga la sua ombra per l’intero corso della vita.

Non si può ignorare però neppure il peso che ha avuto la “politica del simbolico” - l’elaborazione che ne hanno dato la Libreria delle donne di Milano (Non credere di avere dei diritti, Rosenberg & Sellier 1987) e Luisa Muraro (L’ordine simbolico della madre, Editori Riuniti 1991) - nel mettere in ombra pensieri e scritture portati a ridosso di un “vissuto” femminile gravato da antichi pudori, misteri e vergogne. Alla fine degli anni ’70, il paziente lavoro di scavo nelle storie personali, nei risvolti inconsci di un’oppressione confusa con l’amore, divenuta malgrado tutto senso e ragione di vita, lasciava affiorare stanchezza, dubbi, desiderio di trovare vie d’uscita meno dolorose.

Di questo malessere la Libreria delle donne si è fatta allora interprete, prospettando, come via di salvezza, la possibilità di piegare a proprio vantaggio quel “germe vivo”, quella “matrice” di “carne e parola”, che la comunità degli uomini ha cancellato, pur traendone il massimo alimento. Ma per celebrare la nascita di una “genealogia di donne”, per svincolare la dipendenza dall’uomo, per presentarsi all’appuntamento con la storia forti di un “primato” e di una “grandezza” usurpati alla discendenza femminile, non bastava certo la madre reale, asservita quasi sempre alla legge del padre, contraddizione vivente per ogni figlia desiderosa di autonomia. Occorreva dare all’ “origine” ciò che l’uomo non aveva saputo riconoscere, la verità di un “principio logico, metafisico”, lo statuto inattaccabile di “corpo razionale”, sintesi perfetta di essere e pensiero, vita e parola, unione mistica che può sollevarsi nel cielo platonico delle idee senza operare cancellazioni.

«Per anni ci siamo dedicate a capire l’esperienza femminile per trasformarla in principio di forza e sapere nei confronti del mondo. L’impresa, man mano che andava avanti, si annunciava sempre più lunga, anzi senza fine come la tela di Penelope… La modificazione non si traduceva in contenuti sociali, oppure sì, ma erano contenuti miserabili di rivendicazioni e sopravvivenza. Vi erano come soggetto perdente». «L’antica relazione con la madre ci dà sul reale un punto di vista duraturo e vero, vero non secondo la verità-corrispondenza ma secondo la verità metafisica (o logica) che non separa essere e pensiero» «…fine dell’automoderazione, lasciar irrompere desideri sproporzionati… La superiorità della madre e la necessità della sua traduzione in autorità simbolica vanno riconosciute per principio». Svincolata dalla sua realtà fattuale, fisica e psicologica, la “madre simbolica” può ambire alla stessa collocazione che l’uomopadre ha preteso per sé, nei confronti della propria discendenza: autorità, fedeltà, affidamento, affiliazione, autonomia simbolica garantita da una linea genealogica al femminile, frequentazione privilegiata della simile, libertà non come scelta individuale, ma come effetto “liberante” del debito di riconoscenza pagato alla “potenza” materna.

A partire dall’inizio degli anni ’80, è calata sul femminismo una nuova, imprevista “sacralità”, con venature mistiche, tentazioni totalizzanti che oggi chiameremmo “fondamentaliste”, assunzione della differenza come omogeneità, purezza identitaria, ripristino di gerarchie, mediazioni obbligate. La conseguenza più vistosa, per la storia successiva del movimento delle donne, è stata la messa sotto silenzio di un pensiero che, pur con molte sfaccettature, saperi e linguaggi diversi, ha continuato a interrogare l’esperienza, consapevole che vita e parola, intrecciate da sempre, strette in annodamenti inestricabili, non sono la stessa cosa.

La scrittura, che ha talvolta la flessuosità per entrare nelle pieghe della memoria, per dire l’impresentabile del vissuto corporeo, resta pur sempre una difficile, incerta navigazione attorno a una materia che non si lascia assimilare. Eppure, se si scorrono i “racconti di nascita” di Lapis, e scritture analoghe di donne - penso al libro di Agnese Seranis, Io,la strada e la luce di luna (edizioni del Leone, 1989) - l’idea di grandezza, potenza, sacralità del corpo femminile che genera, è tutt’altro che assente, accostata quasi sempre a sentimenti che la smentiscono, per riafferrarla subito dopo. Seranis, fisica e originale esploratrice di un immaginario femminile popolato delle figure e delle suggestioni che l’uomo ha attribuito al corpo diverso dal suo, scrive: «C’erano poi dei momenti in cui sentivi di appartenere alla Natura e provavi un totale appagamento sapevi perché esistevi: perché la Vita continuasse. E eri invasa da un sentimento di forza di potenza immensa. Il cosmo si muove si espande tutto è moto tutto pulsa… Era diverso da tutto ciò il tuo corpo?... E la percezione a volte di essere divorata da dentro da un estraneo che si era introdotto nel tuo corpo e che senza pietà avrebbe fatto scempio di te. Questo essere così inerme in apparenza ha come alleato la Natura o meglio la Vita che giocherà tutto per tutto perché nulla la fermi decisa a lasciarti come un tronco vuoto se ciò fosse necessario al nuovo germe. Eppure a te è lasciato tu possiedi un potere immenso perché tu puoi decidere di fermarlo quel processo fosse anche uccidendo te stessa».

L’altalena tra corpo e pensiero, per chi ha creduto con l’esperienza della maternità di avvicinarsi alla natura, tanto da esserne parte, prigioniera o complice, e, nel medesimo tempo, in quanto scienziata, di potersene staccare, si pone nei toni drammatici, laceranti, di un dualismo insuperabile: «Come conciliare il tempo dell’osservare e il tempo dell’esistere? La Vita si rifiuterà di continuare in un corpo consapevole cosciente di ciò che sta avvenendo? La Vita si rifiuterà di abitare nel corpo di chi cerca di svelarla?... Posso io essere insieme oggetto di conoscenza e pensiero conoscente?».

L’esperienza della maternità, nelle sue oscillazioni reali o immaginarie, conosce un protagonismo del corpo che all’uomo è negato, e come tale si presta a essere oggetto di invidia e appropriazione da parte del sesso maschile, ma anche a essere impugnato dalla donna come arma per il proprio riscatto. Costrette dalla loro capacità biologica e dalla collocazione che la comunità maschile ha dato loro, custodi dell’intero arco della vita, le donne si sono trovate in prossimità della “dura legge del tempo a cui tutto si piega” - l’accettazione della morte, del susseguirsi delle generazioni, del ripetersi dei gesti -, la stessa legge a cui l’uomo ha continuato a opporre le sue protesi meccaniche, le sue speranze di immortalità, il suo potere di dare la morte.

Privilegio o condanna, accrescimento o perdita, la maternità resta l’epicentro della condizione umana, il “luogo” intorno a cui si può pensare che abbia preso forma il dominio maschile e la differenziazione violenta tra i sessi, l’ostacolo maggiore a ripensare i nessi tra corpo, individuo e legame sociale, fuori dai dualismi che conosciamo: femminile- maschile, natura- cultura, ecc. Confrontando i racconti di Lapis con scritti di donne più giovani, quello che sorprende è la straordinaria capacità di dire l’ “orrore” del parto, l’inganno con cui ancora si contrabbanda il destino storico della donna con l’ “istinto materno”, la misoginia di un’ antica consegna al dolore che non a caso vede concordi «cattolici, ginecologi, femministe, medici alternativi, sul fatto che il parto deve rimanere intatto nella sua modalità suppliziale» (Laura Kreyder, Lapis n.29).

 

questo articolo è apparso nell'inserto di Liberazione del 17 settembre 2006