Ronaldo e le nuove forme di genitorialità
di Lea Melandri


 

La decisione del calciatore portoghese Cristiano Ronaldo di prendere sotto la sua “tutela esclusiva” il figlio avuto da una donna che ha preferito rimanere anonima, non ha interessato solo l’ambito sportivo: gli oltre cinquantamila tifosi che si sono rallegrati con lui dopo l’annuncio su Facebook.
Un ampio servizio, con articoli di Michela Marzano e Vera Schiavazzi, è stato dedicato da Repubblica (6.07.10) ai “ragazzi padri”, i papà soli costretti a “diventare madri”, la schiera sempre più numerosa degli uomini “che crescono i figli”. La notorietà del personaggio e l’accostamento inevitabile tra la prova deludente che ha dato ai Mondiali e l’euforia di una scelta “privata” abbastanza rara tra i campioni del calcio  -abituati a relazioni clandestine e figli nemmeno riconosciuti-, sarebbero stati di per sé sufficienti a muovere la curiosità del gossip internazionale.

Non sono mancati infatti commenti e supposizioni più o meno fondate sulla misteriosa genitrice –madre surrogata o amante di passaggio- e sull’entità del compenso. Qualcuno ha scelto, malignamente, di colpire sul versante che rende gli uomini più fragili agli occhi dei loro simili: la rinuncia alla virilità, “lo sciupafemmine che mette (costretto) la testa a posto”, perché occupato “con pappe e pannolini” (La stampa.it).
Bisogna ammettere tuttavia che, se le vicende private di un personaggio famoso godono di tale attenzione da porsi al centro di un interessante dibattito pubblico, è perché diventano rivelatrici di esperienze fondamentali del vivere comune e del vuoto di cultura che le accompagna. A fronte del silenzio in cui vengono tenuti tutt’ora nel nostro paese i cambiamenti che riguardano la famiglia, il rapporto tra i sessi, i ruoli genitoriali, le relazioni di coppia, anche le contraddizioni e le ambiguità di Ronaldo, che dichiara la sua felicità di ragazzo-padre, mentre sa già di poter affidare il figlio a madre, sorelle e fidanzata  -quell’ “ambiente materno” che Winnicott considera indispensabile per la buona crescita-, aiutano a togliere qualche velo a ipocrisie e interessate rimozioni.

Lo ha fatto Repubblica, riportando i dati che segnalano la crescita del 23% tra il 2003 e il 2008 di “padri soli che vivono in Italia con i figli”, descrivendo la condizione di uomini che si sono trovati all’improvviso ad affrontare un lavoro di cura tradizionalmente femminile, analizzando ruoli genitoriali in via di trasformazione. Lo ha fatto, online, Tracce news, intervistando Claudio Risé, che si muove su opinioni contrastanti con i commenti di Repubblica.
“Il famoso ‘istinto materno’ –ha scritto Michela Marzano- non esiste. Ogni bambino ha bisogno di un adulto, di una persona di cui fidarsi, che sia capace di occuparsi di lui”. Le donne già hanno imparato a giocare ruoli diversi  -conciliare mascolinità e femminilità, vita professionale e affettiva-, ora “tocca agli uomini”. Se il padre non è più “il terzo”, chiamato a sciogliere la fusione madre-figlio, a imporre attraverso la legge e la cultura, un ordine alle pulsioni “naturali”, anche i ruoli che la storia ha assegnato al maschio e alla femmina sono costretti a ridefinirsi. Di rimando, Risè critica “la massiccia campagna di persuasione sull’inutilità della coppia genitoriale”, la possibilità che sia sostituita da “una o più persone, non importa di quale sesso”, e non necessariamente legate al processo generativo del bambino.

Natura e storia, determinismo biologico e costruzione culturale, sono i termini entro i quali si torna a discutere della “funzione materna” e dell’identità femminile, nonostante la critica radicale che il femminismo contemporaneo ha portato all’identificazione della donna con la madre. “Ma i confini di genere  -si legge nell’Introduzione del libro Tra femminile e materno: l’invenzione della madre, a cura di Carla Busato Barbaglio, Maria Luisa Mondello (Franco Angeli 2009)-  e gli stessi costrutti su opposte caratterizzazioni genitoriali, con la priorità della figura femminile materna, riguardano i nostri determinanti interni, biologici e psicologici, o appartengono alla nostra storia sociale, ai nostri negoziati interpersonali, nel corso dello sviluppo e anche oltre? (…) Come è emerso in alcune rassegne antropologiche trasversali, solo in una percentuale estremamente bassa, la madre è l’unica figura di riferimento del bambino, mentre in oltre la metà delle situazioni di accadimento essa è certamente la figura privilegiata. Ne deriva quindi che una serie di persone distinte dalla madre biologica possono accudire e alimentare il bambino, e costituire figure di attaccamento sicuro per lui (…) il supporto biologico alle maggiori competenze femminili alla cura non ne emergerebbe confermabile”.

Se l’anatomia non è più il destino  -come diceva Napoleone, ripreso da Freud nel momento in cui deve assicurarsi che la femmina accetti di trasformare la sua sessualità “attiva” nel “passivo” accoglimento del pene e quindi del bambino-, che cosa tiene ancora così fermi nell’immaginario e nell’ideologia dominante di uomini e donne gli stereotipi di padri e madri? Che cosa spinge a scegliere maternità e paternità solitarie come esito fatale della crisi della famiglia e della coppia, anziché prospettarsi un allargamento in senso sociale, collettivo, della cura necessaria alla continuità della vita? E’ sufficiente, come scrive Marzano, che il padre o la madre, rimasti soli, rinuncino a “essere tutto”, cancellando l’esistenza del genitore assente, a non trascurare la loro vita sessuale e professionale? Il riconoscimento e la valorizzazione dell’individuo “intero”, sottratto alla lacerante, astratta dicotomia tra corpo e pensiero, materia e spirito, pur essendo un passaggio essenziale per uscire dalla secolare guerra tra i sessi, non dovrebbe far dimenticare il bisogno, altrettanto primario,  di costruire nuove forme di socialità, meno vincolate ai legami di sangue, più aperte all’accomunamento e alla solidarietà.

La confusione tra violenza e amore, quale emerge con frequenza crescente negli omicidi di donne da parte di mariti e amanti, e negli infanticidi ad opera di madri, è ipotizzabile che abbia la sua radice nascosta nel rapporto privilegiato con un potere materno vissuto dal figlio, in condizione di totale dipendenza, come “assoluto”, e di conseguenza nel “riparo” che ha rappresentato storicamente la “virilità”, la separazione tra sfera personale e istituzioni pubbliche, famiglia e Stato. Se è il rapporto con le persone che si occupano del bambino nell’infanzia a tracciare le linee fondamentali del desiderio e della distruttività, allora è lì che bisogna tornare a riflettere, a immaginare scenari nuovi per la “cura” indispensabile alla crescita di un essere vivente, a capovolgere la gerarchia che ha fatto del denaro e del profitto un fine e del tempo della vita soltanto un mezzo di riproduzione della forza lavoro.

Il piccolo che ha assunto lo stesso nome del celebre padre, Cristiano, testimone di una scelta paterna anomala, avrà invece con ogni probabilità una “famiglia” tradizionale di donne-madri e, avanti a sé, come un miraggio, la virile figura di un campione di fama mondiale.

 

articolo pubblicato su Gli altri l'8 luglio 2010

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