Non siamo l’esercito della salvezza

Lea Melandri

 

Anche solo restando agli ultimi dieci anni, le manifestazioni promosse dalle donne su temi di evidente gravità  -come la violenza domestica, gli ostacoli all’applicazione della Legge 194- sono state frequenti e molto partecipate, ma di scarsa o nessuna risonanza mediatica. Come voltare le spalle con leggerezza a quello che si profila invece come un  grande “evento”, pubblicizzato da importanti organi di stampa e dalla televisione, sostenuto dai partiti dell’opposizione parlamentare, dai movimenti che gravitano nell’area della sinistra e, per la trasversalità del suo messaggio, anche di altre appartenenze? Ma proprio l’ enfasi che mette d’accordo tutti, che scopre l’indignazione per la “dignità” offesa delle donne, e non per l’immagine degradante che Berlusconi svela e fa ricadere sul sesso maschile, dovrebbe indurre  a interrogarsi sulle ragioni molteplici di una scelta che avviene sull’onda di una indifferenziata emotività.

Dal momento in cui è diventato oggetto di pubblico dibattito l’uso che il Presidente del Consiglio fa del suo potere nei confronti della donna  -le dichiarazioni di Veronica Lario, la questione Noemi, D’Addario-, l’attenzione si è venuta sempre più restringendo: dopo una iniziale apertura sui temi del personale-politico, scambio sesso-denaro, merito- bellezza e carriere, politica e spettacolo, si è arrivati al “Rubygate”, alla licenziosità del principe o del sultano, all’harem e al bordello di alto bordo. Era inevitabile che la piccola breccia che si era aperta nel muro di silenzio di una cultura maschile arroccata nella difesa del proprio privilegio, o nascosta dietro la maschera della neutralità, si richiudesse nel cerchio più rassicurante di contrapposizioni note: il privato e il pubblico, le donne reali e le “Barbie” della pubblicità, la rispettabilità di mogli, madri, professioniste, intellettuali e lo spettacolo indecoroso di quelle che, in un crescendo di misoginia del discorso pubblico, sono diventate da “escort” e “veline”, “puttane”, “troie”, “mignotte”, “fiche”.

Come non comprendere la rabbia che si è andata allargando a un gran parte del paese contro un governo che, anziché occuparsi della crisi economica e istituzionale, dell’estendersi della povertà, della corruzione dilagante, dell’immiserimento della cultura, annaspa senza via d’uscita negli scandali e nelle diatribe giudiziarie riguardanti la dubbia moralità del premier?
Non c’era certamente bisogno dei festini di Arcore per trovare una volontà così condivisa di manifestare, e neppure della scoperta di quanto le donne siano ancora poco riconosciute come “persone”, capaci di intendere e di volere e non solo di prestare cure e piaceri sessuali. Eppure, la “spallata” a un potere diventato sempre più odioso ci si aspetta, o si spera, che arrivi dalla “rivolta delle donne”: da un femminismo di lunga data, sottratto improvvisamente al silenzio in cui si diceva fosse precipitato, e da generazioni più giovani svegliate dall’indifferenza, desiderose di trovarsi in tante a dire “basta” a tutti i pericoli che vedono incombere sul loro futuro.
Non è la prima volta nella storia, e tanto meno nell’immaginario, che le donne sono viste al medesimo tempo come dannazione e salvezza, e sempre questi due connotati del femminile hanno a che fare con la sessualità: degrado ed elevazione morale. Che cosa poteva essere più esemplificativo, riguardo a questa duplice “natura” della donne, della contrapposizione che abbiamo visto comparire in alcuni appelli e dibattiti pubblici tra donne pronte a vendersi al potente di turno e altre attente invece alla cura e al sacrificio di sé per il bene di una famiglia, la riuscita di un lavoro, di una carriera?

Come se non fossero entrambi ruoli imposti che hanno permesso all’uomo di riservare a sé il governo della cosa pubblica.
Non saranno solo il moralismo, e tanto meno la nostalgia di una “normalità” che le donne hanno smascherato da tempo, a  riempire il 13 febbraio le piazze. Ognuna andrà con tutti i motivi di indignazione che più o meno consapevolmente ha accumulato: dalla precarietà esistenziale e lavorativa al peso delle responsabilità famigliari, dalle discriminazioni nella sfera pubblica alla violenza di cui sono ancora vittime nel privato, dall’esaltazione dei loro corpi alla mortificazione della loro intelligenza. Ma purtroppo non saranno queste ragioni, maturate nelle più giovani dall’aver assorbito consapevolezze prodotte dalla storia e dalla cultura del femminismo a essere portate allo scoperto, fatte proprie e sostenute politicamente quanto meritano da una manifestazione che nasce essenzialmente all’insegna dell’antiberlusconismo  e della “vergogna di essere italiani”, contrassegnata da un sussulto di “dignità” che gli uomini proiettano sull’immagine “offesa” della donna, rovesciando in modo vistoso una ferita che tocca specificamente il loro sesso, l’immaginario erotico, il potere, la cultura ancora largamente diffusa che si è tramandata per secoli. “A uscire devastata  dal cosiddetto Rubygate –ha scritto Anna Bravo su www.donnealtri.it - è più l’immagine maschile che femminile. Ragazze che si vendono, e fa rabbia; ma soprattutto uomini che solo grazie al denaro e la potere dispongono del loro corpo e le gratificano con regali comprati all’ingrosso. Eppure, mentre noi ci preoccupiamo della dignità femminile, nessun uomo ha sentito il bisogno di difendere quella del genere maschile”. In realtà, voci di uomini che, anziché precipitarsi a offrire “amicizia” e “solidarietà” , hanno creduto di dover portare l’attenzione su di sé, su ciò che li accomuna nel bene e nel male ai loro simili, per il solo fatto di essere stati per secoli gli unici detentori di saperi e poteri decisionali, non sono mancate ma non è un caso che non abbiano trovato alcun ascolto. “ Noi abbiamo detto  che è necessario mettere al centro di una riflessione collettiva le forme della sessualità e l’immaginario maschile che sono alla base della domanda di prostituzione e farlo può divenire un punto di vista per rimettere in discussione l’asimmetria tra donne e uomini” (Stefano Ciccone, Gli Altri, 28.1.2011).

Rispondendo a dubbi e prese di distanza dalla manifestazione del 13 febbraio, qualcuna ha scritto che c’è un tempo per agire e un tempo per pensare: una contrapposizione astratta che ha segnato rovinosamente la storia conosciuta finora e che dovrebbe arrestarsi di fronte all’evidenza di un “pensare” femminile che ha dovuto uniformarsi suo malgrado alla rappresentazione del mondo del sesso dominante. Pensare criticamente, sollevare dubbi, chiedere che  vengano fatte sentire sempre tutte le voci, anche quelle dissenzienti in un momento di generale condivisione, è il principio di cui si è avvalsa una parte dell’informazione per non cedere alla prepotenza dell’impero televisivo di Berlusconi. A maggiore ragione dovrebbe essere conservato quando il dissenso esce dalla minorità e si fa portatore di regole di giustizia e di democrazia.

C’è da augurarsi che, qualunque sia l’esito della manifestazione, non si spengano gli interrogativi che da qualche anno sono entrati nel dibattito pubblico, sia pure al seguito di vicende che hanno interessato i massimi poteri dello Stato: l’intreccio tra sessualità e politica, la modificazione profonda che hanno subìto i ruoli del maschile e del femminile e l’ombra duratura di identità precostituite, il rischio che in assenza di una riflessione degli uomini su se stessi le donne restino sempre l’oggetto di scontro o di mediazione su cui si è costruita la loro comunità storica.

 

intervento pubblicato anche su Corriere.it

12-02-2011

 

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