Sul Genere: confronto tra generazioni

Intervista a Lea Melandri di Stefania Voli

 

Tu ed io apparteniamo a generazioni differenti, e con percorsi differenti abbiamo vissuto l'esperienza dell'insegnamento nella scuola media (inferiore e superiore). Tuttavia, ciò che ugualmente emerge è come questa sappia rivelare problematiche complesse, soprattutto per le/i docenti che decidono di non assegnare alle questioni poste dal genere un segno neutro, pacificato, ma al contrario, decidono di promuovere una cultura che sappia nominare, problematizzare e valorizzare le differenze. In tale contesto, credo di poter dire che l'esperienza femminista si è posta come ottica e pratica imprescindibile pur essendo, per quanto riguarda i nostri percorsi, esperienze differentemente vissute: storica, ma anche continuamente situata e viva nel presente la tua; trasmessa, rielaborata e anch'essa situata nelle problematiche del presente la mia. Ed è proprio il punto di vista della trasmissione che vorrei mettere al centro della nostra  conversazione.
Le tracce che segnano questo percorso mi sono suggerite dal tuo ultimo libro “Amore e violenza. Il fattore molesto della civiltà”, il quale, pur non rivolgendosi direttamente a lettori/trici adolescenti, è continuamente percorso, quasi tormentato in certi passaggi, dal discorso dell'educazione, dalla formazione, a partire proprio dalla nascita degli individui. Perché è proprio in quell'atto – ci dici tu – che affonda le radici quello che tu definisci il fattore molesto della nostra civiltà: la violenza di genere, in tutte le sue molteplici, più o meno occulte, declinazioni.

Vorrei partire da un aspetto molto discusso negli ultimi tempi: i corpi in scena, corpi prevalentemente femminili (sovra)esposti su una scena pubblica che troppo spesso coincide con una arena televisiva e mediatica. Molto del presente vissuto e aspirato dalle e dai giovani sembrano andare in una direzione altra rispetto alle rivendicazioni dei femminismi che ti hanno vista protagonista. Rispetto a ciò sono molte le domande che affiorano: chi sono questi corpi? Prefigurano un cambiamento del rapporto di potere tra i sessi o ne sono la riconferma? È questa la soggettività che il femminismo cercava? Se a porti questi quesiti fosse proprio una adolescente, cosa le diresti? E se fosse un adolescente?

 

Come promuovere una cultura che sappia problematizzare e valorizzare le differenze

Non è facile portare le problematiche di genere nella scuola, perché vuol dire affrontarla in quelle che sono le sue strutture portanti, non a caso le più rimosse, innominabili. Innanzitutto la presenza dominante di un soggetto femminile-materno (la figura della madre-maestra): la scuola, fino alle superiori, è stata pensata in funzione delle donne, per fare in modo che potessero conciliare il lavoro con le responsabilità familiari; come tale, svalutata e mal pagata, ma con molto tempo libero. L’altro fondamento è il corpo, la sessualità. La scuola è essenzialmente, come scrivevamo già negli anni Settanta, “disciplina dei corpi”. Così come l’abbiamo conosciuta tradizionalmente, la scuola è stata la messa sotto silenzio della vita personale, dei sentimenti, delle pulsioni, della sessualità. Una materia viva di esperienza cancellata, immobilizzata, diventata forzatamente “il sottobanco”.
Quindi, se vogliamo parlare di “ottica di genere” in un contesto scolastico, la prima domanda dovremmo farla alle donne che insegnano: come vivono questo ruolo di madri-maestre, di donne chiamate a trasmettere una cultura che le ha cancellate, di corpi in scena che devono disciplinare altri corpi, renderli invisibili. Dovremmo chiederci quanto pesa nella formazione di un bambino, di un adolescente, maschio e femmina, avere sempre di fronte dalla nascita alla giovinezza un corpo di donna, un’immagine femminile ambigua, perché potente e svilita al medesimo tempo.
Si tratta dunque di portare allo scoperto le “differenze” di genere, a partire dall’adulto a cui spetta il compito educativo, e mettere in discussione la storia che le ha costruite: il soggetto unico maschile che vi ha dato forma, che ha diviso astrattamente, violentemente, il ruolo dei due sessi, attraverso pregiudizi, esclusioni, imposizione di un dominio. Occorre fare attenzione all’ambiguità del concetto di “valorizzazione delle differenze”, inteso semplicemente come “risignificazione” dell’esistente, capovolgere un disvalore in valore.

La trasmissione

Nel momento in cui si scopre, come ha fatto il femminismo, che la vita personale – il  corpo, la sessualità, gli affetti, l’immaginario, ecc – è sempre stata dentro la storia, la cultura, e che è importante cominciare a sottrarla alla “naturalizzazione” che ha subìto, cambia inevitabilmente anche l’idea di educazione e trasmissione del sapere. Si trasmette innanzitutto “quello che si è”, nell’interezza del proprio essere, e non solo “quello che si dice o si sa”. Ma, soprattutto, la cultura deve diventare cultura della vita: dare voce al vissuto, all’esperienza di ognuno e cercare poi i nessi con i saperi, i linguaggi, interrogare i saperi disciplinari a partire da ciò che non dicono, che hanno cancellato o deformato. La differenza di genere è strettamente legata alla scissione tra corpo e pensiero, natura e cultura. Il femminile, escluso dalla polis, è stato identificato con tutto ciò che attiene al “privato”, alla vita personale.
Quindi, un primo modo per affrontare la relazione tra i sessi è uscire dalle contrapposizioni dualistiche e dare voce al “rimosso” della scuola e di tutte le istituzioni della sfera pubblica: portare allo scoperto il “sottobanco”, che è sicuramente cambiato nel tempo, ma che resta la materia innominabile nel processo formativo. L’idea di cosa è maschile e femminile è molto precoce, i bambini la introiettano fin dalla prima infanzia attraverso i gesti, le relazioni tra gli adulti che si occupano di loro, e poi da tutto quello che vedono e che ascoltano. Tutta la vita privata e pubblica né è impregnata. Il primo movimento perciò è portare allo scoperto e dare voce a quello che hanno interiorizzato e farli riflettere su questo. Non parlo di educazione sessuale, ma di abitudine a ragionare sulla relazione (sui vissuti) tra maschi e femmine: sentimenti, paure, desideri, pregiudizi, ecc.

Il protagonismo del corpo femminile sulla scena mediatica

Innanzitutto non parlerei di questo problema separatamente a maschi e femmine, perché il problema è proprio la relazione tra di loro. Sul protagonismo del corpo oggi sulla scena pubblica, e del corpo femminile in particolare, direi quello che ho scritto nel mio libro: che le donne sono state identificate col corpo – come se mancassero di un Io, di volontà, personalità – corpo che genera e corpo erotico; che oggi sono il mercato, la pubblicità, l’industria dello spettacolo ad avere bisogno di queste “attrattive” femminili. Il corpo femminile, oggetto del desiderio maschile, serve a muovere il desiderio della merce.
Allo stesso modo, alla nuova economia basata sulla comunicazione, sul lavoro immateriale, servono le tradizionali doti femminili materne: capacità di ascolto, di mediazione, affettività, ecc. È chiaro che nella precarietà attuale del lavoro, nella condizione che le donne ancora vivono di marginalizzazione nella vita pubblica, nella convinzione che sia “naturale” per loro il ruolo femminile assegnato, la valorizzazione delle doti femminili, materne e seduttive, può apparire alle ragazze stesse un’opportunità da cogliere: il loro corpo una moneta che vale, che possono scambiare con denaro, successo, carriere. Del resto, quello che gli adulti apprezzano  nelle bambine, fin da piccole, non sono forse la bellezza e la bontà?
Certo non è questo che il femminismo intendeva parlando di “riappropriazione del corpo”. Intendevamo non voler più essere identificate col corpo e ritrovare la nostra esistenza intera, corpo e pensiero; conoscere a fondo il nostro essere fisico e psichico per sottrarlo allo sfruttamento, al controllo, alla violenza che aveva subito, ma anche alla sua esaltazione immaginaria; poter essere noi a dire che cosa è il nostro piacere, la nostra salute, che cosa fare della nostra vita. Non volevamo più essere viste “in funzione” dell’uomo: mogli di, madri di. Persone e non ruoli.

Mi è molto piaciuta l'espressione che usi all'inizio del cap. 5, quando affermi che l'educazione ha la funzione di aprire delle "stanze" nelle teste. Dovendomi porre nella relazione con le generazioni più giovani come insegnante – assumendo però la pratica antiautoritaria appresa dalla tua esperienza – non reputo utile accogliere nelle “ stanze” i giovani individui che incontro, ma vorrei essere capace di sollecitarli ad aprirne di loro: cosa può aiutarmi in quest'impresa?
Se mi pongo questi interrogativi è anche perché, egoisticamente, penso al soddisfacimento di una mia necessità di confronto con queste più recenti generazioni, portata dal desiderio istintivo di alimentare una circolazione e trasmissione di "dati", conoscenze, informazioni, che tuttavia a volte è vissuta (da entrambe le parti coinvolte) come convivenza "forzata", nella quale tale desiderio di scambio non si dà  facilmente...


Confronto e scambio tra generazioni

Non è facile la relazione tra generazioni diverse. Ci sono stati cambiamenti profondi e rapidissimi nei modi della relazione e della comunicazione, nel rapporto con se stessi e col mondo. Prendiamo per esempio proprio il corpo e la sessualità: da un lato ci sono sedimenti arcaici dentro ognuno di noi, fantasie e pregiudizi antichi che restano sepolti, innominabili nel vissuto personale; dall’altro c’è una “oggettivazione” totale, una messa allo scoperto, una proliferazione di immagini e discorsi sul corpo, che lo fanno apparire una materia manipolabile all’infinito, ormai sottratta all’esperienza che ne facciamo. “Aprire una stanza “ nella propria testa vuol dire riuscire a far tacere ogni tanto il rumore di fuori, le tante lingue da cui oggi “siamo parlati”, e che ci invadono. Vuol dire riuscire ad ascoltare la lingua della nostra infanzia, del nostro sentire profondo, addestrarsi perciò a parlare un’altra lingua, quella del nostro vissuto. È solo la riflessione su di sé che può sottrarci all’assorbimento passivo di tutti i messaggi che vengono da fuori, aiutarci a essere critici, a fare scelte meno condizionate.

Le nuove possibilità della comunicazione (penso ai social network come facebook, twitter, resi continuamente accessibili e consultabili attraverso terminali non più solo telefonici quali sono l'i-phone, l'i-pad, ecc. ecc...) creano comunità apparentemente allargate ma in realtà chiuse, all'interno delle quali ogni singolo gesto e pensiero viene condiviso, commentato, ma, mi sembra, soprattutto sorvegliato: tu affermi che "la 'voglia di comunità' riparte dalla 'vita messa a nudo'", ma ha il sapore forte di "ripiegamento narcisistico di individualità disposte a violare la propria privacy per tessere nuove reti sociali". Questi strumenti messi a disposizione dalla nuova tecnologia soprattutto informatica, sono strumenti che diventano indispensabili nella relazione tra i/le ragazzi/e, accelerano processi di avvicinamento (a volte solo basato sul voyeurismo) e diventano risposte alla richiesta di conferme affettive che però arrivano a coincidere col controllo. Il risultato è che tali rapporti sembrano essere pervasi da una insicurezza ad alta intensità: quali ricadute nell'educazione all'affettività possono registrare i rapporti tra adolescenti?

Le nuove modalità di comunicazione rappresentano sicuramente un ostacolo rispetto al desiderio di scambio tra generazioni. I mezzi informatici di cui dispone oggi un adolescente – in particolare i social network – è come se avessero spalancato le porte del mondo interno, senza lasciare il tempo e la disponibilità per capire come si è espressa finora la vita intima: e cioè l’esibizionismo e il voyeurismo. Non c’è da meravigliarsi perciò se quella che sembra la massima libertà coincide col massimo controllo. È la stessa ragione per cui è vero che siamo più liberi nella scelta dei nostri comportamenti, ma i modelli sono così invasivi che la libertà diventa “libertà di somigliare”. Le relazioni virtuali inducono l’abbandono a una intimità con gli altri in gran parte illusoria e mistificante, perché non fa i conti con le asperità e la complessità della nostra persona intera, corpo e mente. La virtualità finisce per creare una socialità sostitutiva di quella reale.
Le ricadute sull’educazione all’affettività sono evidenti: la vita affettiva e sentimentale si nutre di immaginario, di libertà virtuali, ed evita il più possibile lo scontro con le difficoltà che vengono dalla propria storia personale, da quei residui arcaici che ci portiamo dentro e che hanno bisogno di essere scoperti, riconosciuti ed analizzati.

 Alla luce delle questioni nominate, il femminismo cosa ha da dire alle/ai giovanissime/i? La mia non è una richiesta di bilancio, sarebbe indice di possibilità di passare un testimone che invece è nelle mani di tutte/i, e va passato e ripassato continuamente nelle mani di tutte/i. Si tratta di fare uno sforzo, collettivo, di osservazione e rilancio, chiedersi quali sono le strade possibili. Le relazioni con le generazioni più giovani ci obbligano a guardare avanti, pur con una necessaria sbirciatina all'indietro...

Che cosa ha da dire il femminismo alle nuove generazioni

Il femminismo è il frutto di una generazione che ha portato un profondo rivolgimento nel rapporto con la tradizione di padri e madri, e nella divisione dei ruoli sessuali. Di questa cultura rivoluzionaria, che ha cambiato la vita di uomini e donne venuti dopo, penso che sia stato raccontato poco, che non sia passata alcuna conoscenza storica degna di questo nome. È la ragione per cui delle femministe si ha un’idea pregiudiziale, stereotipa: siamo sempre le streghe, le donne che odiano gli uomini, e così via. C’è voluta grande resistenza e passione, da parte delle donne che hanno vissuto quell’esperienza, per darvi continuità attraverso la creazione di luoghi, associazioni, libri, riviste, centri di documentazione, librerie, ecc., per conservarne la memoria e riproporlo oggi come risposta agli interrogativi del presente.
Su corpo, sessualità, maternità, vita e lavoro, immaginario, la cultura femminista ha molto da dire. L’insegnante deve solo avere il coraggio di portare in classe volantini, documenti, scritti di quegli anni, e si accorgerà che parlano molto di più di una qualunque lezione di studi di genere.
Il femminismo degli anni Settanta parlava alle vite, all’esperienza del singolo, e lasciava sperare che il racconto e la riflessione su di sé, fatta in presenza degli altri, potesse produrre cambiamenti duraturi nel proprio modo di essere e di pensarsi. È ancora questa la lezione che mi sento di proporre a chi insegna. Il “parlare di sé” nella presenza reale degli altri solleva difese, insicurezze, soprattutto all’interno di una classe e se a proporlo è l’insegnante. Può essere utile allora servirsi di frammenti di scrittura di esperienza, non importa se di autori noti o meno noti; è come offrire una zattera per navigare in mare aperto: lo scritto legittima e spinge a scrivere a propria volta. Si tratta poi di leggere a voce alta gli scritti e discuterne insieme. È stato questo il mio modo di fare formazione sulle questioni di genere, sia con allievi che con insegnanti.

FRASI

"Si tratta dunque di portare allo scoperto le “differenze” di genere, a partire dall’adulto a cui spetta il compito educativo, e mettere in discussione la storia che le ha costruite"

"La differenza di genere è strettamente legata alla scissione tra corpo e pensiero, natura e cultura. Il femminile, escluso dalla polis, è stato identificato con tutto ciò che attiene al “privato”, alla vita personale"

"Del resto, quello che gli adulti apprezzano nelle bambine, fin da piccole, non sono forse la bellezza e la bontà?"

 

5-12-2011

 

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