Arcobaleni e tempeste a sinistra
di Lea Melandri

  

Il rapporto tra il femminismo e le organizzazioni della sinistra  -partiti, sindacati e movimenti- non è mai stato né pacifico né indolore. Una sfida che avviene sugli stessi temi su cui si è costruito il movimento operaio e la lotta anticapitalista  -uguaglianza, giustizia, libertà, democrazia, rivoluzione-, ma che pretende di ribaltarli a partire da quella struttura portante di ogni dominio che è la sottomissione delle donne da parte del sesso maschile, non poteva che suscitare, nel migliore dei casi diffidenza, nel peggiore ostilità.
“Democrazia –si legge nel libro curato da Rossana Rossanda, Le altre (Feltrinelli 1978), è la certezza che il potere sia di tutti e di ciascuno, e cioè che sia ‘naturale’ non alienare ad altri il proprio destino…per la donna resta ancora principalmente tempo e modo di partecipazione. Libertà è liberazione dai condizionamenti più sottili dei poteri, delle leggi scritte, da inibizioni introiettate, da soggezioni che crescono in noi e con noi. Libertà è assunzione di poteri di intervento”.

Il modo con cui la Sinistra ‘alternativa’ è andata avvicinandosi al suo momento ‘costituente’, gli Stati Generali dell’8-9 dicembre 2007, non lasciava molte speranze di cambiamenti effettivi riguardo al rapporto tra partiti, culture critiche e pratiche di movimenti, tanto meno per quella messa in discussione della matrice maschile, sessista, del potere, che viene dai gruppi femministi.
Non parlerò quindi di delusione nell’aver visto ripetersi, alla Nuova Fiera di Roma, un cerimoniale noto, misto di sacro e di spettacolarità mediatica, fatto, sia pure involontariamente, per raccogliere consensi e per misurare l’audience di questo o quel leader.
Mi soffermerò invece sulla “Dichiarazione di intenti”, scritta prima delle due giornate, ma firmata come fosse l’esito di una effettiva ‘assemblea’ della Sinistra e degli ecologisti. Se la parole hanno ancora un senso o, detto altrimenti, se non sono usate come specchio per le allodole, allora bisogna dire che tra ciò che si legge in quel documento e ciò che si è visto nelle giornate dell’8-9 dicembre corre una grande distanza, un vuoto di consequenzialità che dovrebbe far riflettere su che cosa si intende oggi per partecipazione, impegno collettivo, responsabilità condivisa.
Dovrebbe soprattutto interrogare la ‘nuova’ sinistra su quell’ibrido che è diventata, misto di impalcature autoritarie  -prolungamento inerziale di tratti del proprio passato- e di tentazioni populiste, umori oggi dominanti che la politica sempre più blandisce. Le analisi che si sono lette finora sul rischio di ‘fascistizzazione’ di una società di massa si richiamano quasi sempre a ragioni economiche, sociali, politiche, come se la vita psichica fosse tutt’uno con la realtà sociale o, al contrario, come se fosse dislocata in un ‘altrove’ senza storia.
Che i sogni, le paure, i bisogni infantili degli individui  -cioè l’esperienza che più di ogni altro legame avvicina tra loro gli esseri umani- agiscano sui comportamenti e sulle scelte quanto i maggiori poteri della vita pubblica, è una verità che la sinistra, in nome del ‘materialismo’, continua a ignorare e che la destra, dietro la bandiera dei ‘valori’, maneggia con assoluta spregiudicatezza.

Nel fatti e nell’immagine che le opposte parti stanno dando di sé, è proprio questa componente rimossa della politica a renderle progressivamente sempre più uguali, assimilate a quei “modelli patriarcali” che le une assumono ‘naturalmente’ e che le altre dicono oggi di voler combattere.

“Uno Stato laico  -si legge nella Dichiarazione- combatte l’omofobia e il maschilismo. Assume del femminismo la critica delle strutture patriarcali e il principio della democrazia di genere. Crea le condizioni sociali e istituzionali per rendere effettivi i diritti e le scelte libere di tutte e di tutti”.
La laicità, che qui giustamente si pretende dallo Stato, il femminismo l’ha collocata prima di tutto nella critica all’investitura del carattere sacro della famiglia, fondata sulla ‘naturalizzazione’ del ruolo sessuale e procreativo della donna, e divenuta modello di tutte le aggregazioni storiche maschili, compresi i partiti dell’età moderna.
Di laico, nella ‘liturgia’ che celebra genealogie, passaggi del testimone tra padri e figli maschi – perché tale è stato, al di là delle presenze femminili sul palco, il messaggio prevalente della giornata conclusiva- c’è ben poco.
Allo stesso modo, non si può parlare di “processo popolare, democratico e partecipato” a proposito di una pratica dove il confronto delle idee e delle esperienze, la decisione che dovrebbe maturare dalla riflessione collettiva, arrivano già ingessati, preconfezionati dentro ‘relazioni’ scritte prima dell’incontro, passaggi di apparente apertura a movimenti, gruppi, singoli, associazioni, di cui non resta traccia nelle sintesi finali dei segretari di partito, e tanto meno nell’enfasi retorica di chi sa di poter incarnare come capo carismatico l’ ‘unità’ che tutti sognano, minacciata dalle divisioni, dal rischio di una sconfitta elettorale, dalla vaghezza del progetto stesso di rinnovamento.

Paradossalmente, quello che non è vago nella “Dichiarazione di intenti”, è la convinzione più volte ripetuta che sia indispensabile, per questa nuova ‘nascita’, “una discussione aperta e libera sulle idee, gli obiettivi, i programmi, le forme di organizzazione e di rappresentanza”, che sia necessario “rinnovare il sistema politico e le forme della partecipazione democratica”.
Sono proprio queste “forme”, indisgiungibili come sappiamo dai ‘contenuti’, che sono parse  lo sbarramento più resistente rispetto alle culture critiche, incapaci per prime di riconoscere a tutti i soggetti, presenti nelle loro diversità e conflittualità, quelle “libertà individuali e collettive” che insieme al lavoro e all’ambiente sono tra i temi principali dell’agenda politica.
Nei maggiori quotidiani, “Repubblica” e “Corriere della sera”, il resoconto degli Stati Generali delle Sinistra è uscito quasi irriconoscibile, ridotto ancora una volta alla foto dei segretari di partito, all’abbraccio tra il padre storico, Pietro Ingrao, e quello che sembra il suo successore designato da una valanga di applausi, Nicki Vendola.

Depennati i molteplici interventi, che dovevano rappresentare la ‘pluralità’ della nuova forza politica, depennata l’occupazione pacifica del palco dal corteo del Dal Molin, passato sotto silenzio il comunicato con cui i gruppi femministi si dissociavano da una sinistra che rinasceva ancora una volta come ‘affare di uomini’.
La stampa, come si sa, non è neutra né riguardo alla politica né riguardo al sesso. Ma resta il dubbio che abbia colto quello che, nonostante i buoni ‘intenti’, è passato ‘di fatto’ come messaggio di fondo delle due giornate alla Nuova Fiera di Roma.

 

Questo articolo è uscito su Liberazione del 13 dicembre 2007 con il titolo Così la Cosa rossa non mi piace tanto
 

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